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» Per quella sera stetti con quella sola compagnia, ma la seguente volli sentirne più d'una, e quindi ai primi trilli corsi ai più presto a godere quel divertimento; poi finito il lor canto, volsi ad altro stuolo, e poi ad un terzo, finchè tutti li vidi serrarsi nelle loro stalle; non essendomi possibile di intervenire a tutte le raccolte, contandosene più che trenta e tutte quasi alla stess' ora. Attorno a quei femminili stuoli vi erano zerbinotti che in lontananza vi facevano cerchio, avendone licenza il solo valletto del padrone della stalla che veniva a rinfrescarle con una bottiglia di buon vino di quel suolo, che era poscia vuotata dai giovinotti che s'erano comprata la sete coi gridi e colle schioppettate tratte a divisione delle stanze cantate dalle loro belle.

Ragazze nel fior dell' età, belle e vispe come pesci, allegre e garrule come cardellini, cantare a roccolo a cielo scoperto, in luogo eminente, canzoni riservate a quelle tre sole sere in tutto l'anno, e quell'eco che rispondeva dalle due torri del castello, fu per me una scena romanzesca che mi colmò di piacere, e che io non scorderò giammai. Fin che fui in quel buon paese io intervenni sempre a quelle innocenti allegrìe, e ne animava la continuazione. Anche il cielo pareva arridesse a quei canti mostrandosi col suo manto azzurro, illuminato dall' argentea luna e dalle centomila stelle che spandevano amorosi raggi, mentre addormentato se ne stava il vento, e il gufo e le strigi del vecchio castello sospendevano gli infausti loro gridi all' insolito donnesco canto ».

Ma essendo la canzone della merla stata affidata unicamente alla tradizione, questa, come è suo costume, dovea portare nella canzone stessa qualche variante cambiando paese; così a San Colombano al Lambro, all'Ospedaletto, a Sant' Angelo lodigiano, paesi situati nella parte più meridionale del territorio alaudense, si conserva pure il costume di cantare la merla, ma la canzone, pure attenendosi al fatto principale, subisce qua e là delle variazioni ed aggiunte, colle quali si tirano in ballo, per cagione della rima, altre località. A spiegar questo non fanno d'uopo molti commenti una volta stabilita la canzone ed il fatto principale, il popolo trova facile qualche aggiunta particolare al paese, o riferibile a circostanze speciali e proprie al medesimo, tanto per allungare il divertimento.

Sul finire di gennaio non mancano quasi mai alcune belle giornate rallegrate da splendido sole, che fanno volare col pensiero alla prossima primávera. I contadini non di rado, durante queste giornate, sentendosi soverchiamente oppressi dai loro abiti grossolani, se ne alleggeriscono, buscandosi, alle volte, gravi e funeste malattie che conducono in fin di vita. Nessuna maraviglia quindi, se, a mettere in guardia tanti imprudenti dai mali a cui si esponevano, e renderli cauti contro la stagione infida, da alcuni saggi si immaginasse la favola che la merla, volendo ridersi di gennaio, che stava per finire, sia stata presto punita della sua sciocchezza, venendo costretta a rifugiarsi nei fumaiuoli, ove forse morì.

Dal desiderio ardentissimo dei poveri contadini di uscire finalmente all'aria, dalla necessità del guadagno per sfamare le proprie famiglie che per lunghissime settimane dovettero accontentarsi di una magra razione, si può derivare il costume di uscire dalle stalle in queste tre sere, e cantare la canzone della merla. Il filo della tela era dunque preparato. A questa prima canzone se ne aggiungevano altre, e forse non inutili; e l'inverno era proprio per inventarne. Il De Gubernatis nella sua Storia degli usi nuziali, ne passa in rassegna una quantità propri delle diverse provincie d'Ita

lia, ed anche fuori: secondo l'erudito autore è l'inverno, e specialmente in gennaio, che si elegge particolarmente dalle fanciulle così in Italia, come in Germania, in Russia e nella Scandinavia, per riscaldare i loro amori. In Italia, a dispetto del diritto romano, le fanciulle, innanzi di andare a marito, vogliono far all'amore, e in nessun paese forse si ama più che fra noi con tanta facilità, varietà e gaiezza. Qui ed in Grecia, e un tantino pure in Ispagna, i fidanzati si amano cantando; vi è strepito, vi è pompa nei nostri amori; perciò questi si prestano più agevolmente a venire descritti. Da noi poi il canto popolare è quasi tutto amore e ci sovrabbonda. Gli amori incominciati nei campi al sole di luglio e sulle aje in settembre, si riprendono nelle stalle durante le lunghe serate di gennajo. E in questo mese precedente la quaresima che si combina la maggior parte dei matrimoni fra i contadini. Ed i nostri antichi, dopo di avere dimostrato coll' esempio dell' incauta e presuntuosa colombina, che per sapere ben volare sull'aja, si volle spingere imprudentemente in alto mare, ove annegò, i pericoli a cui si va soggetti amoreggiando, non trascurarono di dare alle ragazze l'avvertimento di guardarsi bene da tali pericoli, di essere oneste e di parlar poco e convenivano di permettere un poco di svago in questi giorni algenti e noiosissimi, e per giunta di carnevale. Onde la seconda parte della canzone:

Trà la rocca e 'l fus in mezz a l'era....
a fa l'amor ghe voeul tre belle cose
bellezza, onesta, parole poche;
poche parole le fan bel sentire....

Ma per quanto le raccomandazioni fossero sensate, non mancavano però fin d'allora certi casi, ne' quali alcune, troppo imprudenti, dimenticando gli avvisi de' saggi, si lasciarono sedurre e perdettero l'onore: la merla o la colombina, di bianca che era, diventò nera. A questa metamorfosi allude la terza parte della canzone, la quale varia col mutar paese.

Gettan le balestre sui balcon

i' han ferid la bella in un gallon
O tas, tas, mia bella, te guarirè
O bella guarirè....

A San Colombano si vuole andare fino in Francia a prendere un barbiere per far guarire la bella ferita. La bella, perduto un ferro, non vuol fermarsi nel proprio paesello, per non essere ad ogni passo segnata a dito: ed eccola nella capitale, ove non si guarda tanto per la sottile, vestita all' ultima moda

La gira per Milan, la par' na mercadanta
per tutt' ve la passa la se sent a numinà...

Strumento allegorico per ferire la bella era, nella canzone, la balestra; e la mitologia armava il pargoletto amore dell'arco e della farètra. L'invenzione della polvere cambiò tattica; lo schioppo surrogò la balestra, onde

è che questa parola, che dimostra la vetustà del costume e della canzone, si usa ancora in alcuni paesi, mentre in altri è abbandonata e sostituita dal fucile, col quale anche si costuma di rendere il canto più rumoroso e caratteristico.

Notisi che tre giorni, nè più nè meno, furono necessari onde formare un freddo perfetto, non stimandosi perfetto nemmeno il freddo senza quel tre: tanto erano gli antichi osservatori dell' omne trinum est perfectum.

*

Però la spiegazione che io ho dato sulla favola della merla non accontenta tutti, e ne convengo. Quel passo col quale il mese di gennaio cerca il mezzo di allungare la propria durata onde aver agio di castigare convenientemente la merla, fa correre col pensiero ad una antichità molto più remota, al tempo cioè della correzione del calendario operata da Giulio Cesare. Il signor Alberto Moiana, dotto cronista del giornale Lo Spettatore, e poi dell'Osservatore cattolico, forse ignaro dei costumi lodigiani, dice che la favola ed altre novelle, alle quali verrò in seguito accennando, sono fantasie vernacole, niente attendibili, e non servono a spiegare la denominazione dei dì della merla data a quei tre ultimi giorni di gennajo. Anche egli però si basa sopra tante ipotesi e congetture, che alla loro volta lasciano in forse, e non riescono ad appagare pienamente la curiosità. del lettore.

Questo signore adunque, dopo aver tenuto in non cale per molto tempo la favola, al leggere Dante si ricrede, tanto più che ne vede il passo illustrato da dotti ed antichi commentatori, e conviene che la favola merita attenzione: dice che essa richiama ed attesta un fatto, cioè che in fine di gennaio i merli sieno fra gli uccelli, se non i soli, i primi o fra i primi, che si diano a divagare per l'aere, mentre in fatti nè allodole, nè tordi, nè quaglie si vedono di questi giorni. E da questo volare esso da solo viene appunto, secondo Varrone (1) il nome di merlo.

Merula, quod mera, idest sola, volitat.

« In fine, egli prosegue, la favola ci avverte che, per trovare il perchè del nome di merla dato ai tre ultimi giorni di gennaio, bisogna cominciare a ricordare appunto questo fatto che in tali giorni i merli sono forse i soli uccelli che volino intorno ».

Questo non è vero: a ben altri uccelli si tendono insidie nei cortili dai nostri fanciulli. Se del resto non vi fossero altri ammaestramenti da cavarsi dalle favole, sarebbe il caso che questo genere di componimento così antico venisse radiato dai trattati di letteratura e di pedagogia. Informerebbe molto meglio un libro qualunque di storia naturale.

Ma veniamo al meglio: «Ricordato questo fatto, prosegue il signor Moiana, bisogna poi ricordarne un altro, che cioè gli antichi pigliavano gli auguri, oltre che dalle viscere palpitanti degli animali, anche dal volo degli

(1) De lingua latina, lib. IV, II.

uccelli. Ora nulla di più probabile che quelli augelli dei quali in questi ultimi giorni di gennaio gli auguri ed i pontefici avevano da augurare, fossero, se non solamente, almeno principalmente, i merli. Imperocchè i merli sono, come il senso della favola più sopra riportata attesta, quegli uccelli che prima fra gli altri si spaziano per l'aere in fin di gennaio. Di qui gli ultimi giorni di gennaio potrebbero essere stati caratterizzati dal volo dei merli, e detti giorni dei merli dagli auguri e dal popolo, sempre tenero custode di quanto ha fondamento nel sentimento religioso.

«Ma perchè soltanto gli ultimi tre? Anche quì, se ricordiamo le antichità romane (1), troviamo un fatto che si combina cogli altri e agevola la spiegazione. Il mese di gennaio era ai tempi di Numa di soli 29 giorni, e fu aumentato di due giorni sotto la dittatura di Cesare. È naturale che i tre ultimi giorni di gennaio rimanessero per tale novità spiccatamente distinti nella memoria popolare, e che a motivo dello speciale augurare di quei giorni si dissero i tre di dei merli.

«Ma perchè della merla? a questa domanda può rispondare un buon ginnasista, il quale sappia che in latino il merlo dicesi merula, ed è di genere femminino. E così dies merulae e corrottamente poi giorni o, meglio, di della merla.

« Rimane ora a spiegare perchè spesse volte in questi giorni il verno inincrudisca, dopo avere rallentato di vigore lungo il gennaio. Questa ragione cosmica proprio non ve la so dire; aspettiamola da qualche geologo e meteorologo. In attesa di questa ragione fisica il popolo però ne ha creato esso una morale nella favola già riferita, la quale, come tante altre della mitologia pagana, in cui l'allegoria e il mito celano il senso dando pensiero e parola alle bestie, alle stagioni, ai fenomeni, quì serve di mito e di allegoria non solo dello sciocco carattere che si attribuisce al merlo, onde è fatto anzi tipo, ma anche di quanto sia sciocchezza e presunzione, propria di un merlo, il beffarsi della natura e del suo Autore.

» Simili spiegazioni però io le dò come semplici ipotesi. A onor del vero, nè Ovidio nei suoi Fasti, nè i più accreditati scrittori di antichità romane, come, per esempio, Aldo Manuzio, il Goltrio, il Rosino, il Pontano, il Pitisco, non mi forniscono altri particolari dettagli per sostenere la mia ipotesi ».

Ai nostri tempi però molti proverbi che si riferiscono alle stagioni ed allo stato atmosferico non corrispondono più ai fatti da cui trassero origine. La ragione per cui questi proverbi hanno perduto il loro credito si deve trovare nella correzione del calendario giuliano operata da papa Gregorio XIII nel 1582 per la quale vennero soppressi dal calendario di quell'anno dieci giorni, anticipando perciò di altrettanto tempo tutti i giorni e i santi del lunario. Se però l'autorità e la scienza poterono rimediare al calendario, le stagioni, rette da altre leggi, proseguirono imperturbabilmente il loro corso e non badarono alla correzione gregoriana. Da ciò avvenne che i proverbi, già appicicati ai diversi giorni, mente prima del 1582 corrispondevano alla stagione corrente, dopo questo tempo non quadrarono più e hanno perduta la loro importanza. Ripigliamo il nostro cronista:

lis

« Trovo che nell'anno 667 di Roma era sacerdote diale — Flamen dia- L. Cornelio Merula. Flamen dialis, come è noto, era il sacerdote di

(1) V. il Rosini, Antiquit rom., p. 129.

Giove dialis significando Ad Jovem pertinens. Dialis però, come nota il Forcellini, non vuol dir sempre ad Jovem pertinens, ma può anche derivare da die, e in questo senso presso Macrobio (1) leggesi: Solent esse Flamines diales. Ora si sa che alla formazione e alla disciplina del calendario presiedevano i sacerdoti, i flamini. Potrebbe essere che al tempo di Cesare fosse al possesso del flaminato diale, sia nel senso di sacerdote di Giove, sia nel senso di sacerdote diale, giornaliero, quella gente Cornelia, famiglia Merula; che i sacerdoti membri di questa famiglia avessero, dietro ordine di Cesare, provveduto essi alla regolarizzazione giuliana del calendario, aggiungendo, per le altre cose, quei due nuovi giorni del gennaio, e che di qui quegli ultimi tre giorni fossero detti dal popolo, in memoria della famiglia Merula, dies merulae, e corrottamente poi: dì della merla (2).

Questo Lucio Cornelio Merula lo troviamo al di qua del Po: racconta Tito Livio (3): « Essendo ferma la guerra de' liguri intorno a Pisa, l'altro console Lucio Cornelio Merula, condusse l'esercito per gli ultimi confini della Liguria nelle terre dei Boi, ove si teneva molto diversa maniera di guerra che co' liguri. Il console usciva fuori in ordinanza, ed i nemici fuggivano la giornata, ed i romani, non uscendo alcuno loro incontro, scorrevano predando pel paese. I Boi volevano piuttosto che le robbe ne fossero portate che per difenderle essere costretti di venire alle mani. Ma poi che ogni cosa era oramai guasta col ferro e col fuoco, il console si partì dal paese loro e andavasene alla volta di Mutina, senza temere, come per le terre delli amici... ».

Che la venuta di L. Cornelio Merula nel paese dei Boi sia stata la causa per la quale qui si diffuse la favola della merla ed il costume di cantarla, è impossibile asserire con qualche fondamento: bisogna che altre cause, ignote alla storia, vi abbiano contribuito. Stando però nel campo delle ipotesi la venuta di questo generale romano al di quà del Po avrebbe potuto fornire materia ad un proverbio di cui parlerò più avanti. Non dovrebbe però recar maraviglia se il costume fosse giunto fino a noi da tempi tanto antichi, perchè i costumi e gli usi popolari vivono di una vita lunghissima, perenne, al pari della vita delle parole. A me però sembra che la favola, e il costume di cantarla, tragga origine più da cause morali che da fatti storici, ai quali, generalmente parlando, i contadini non prendono se non una parte meramente passiva.

La favola della merla trae seco il noto proverbio: La merla ha passato il Po. Molti hanno procurato di illustrare questo proverbio con diversi racconti, ma nessuno ha mai potuto precisare la storiella con dati cronologici per lo meno attendibili; ed anche coloro che hanno tentato di derivare il proverbio da un fatto storico ben definito, non sono riesciti a nulla. Il proverbio, sebbene alquanto più sintetico, è molto antico. Nel Pa

(1) Saturn., 7 e 8.

(2) Osservatore cattolico, 1886, n. 25.

(3) Traduz. di Jacopo Nardi, Della IV decade. Lib. V.

Giornale dantesco

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