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del Cervini. Accortamente destreggiandosi insieme col fratello, col cardinale di Sant'Angelo, e colla loro fazione, seppe fare eleggere al seggio apostolico il cardinale Caraffa, e, pertanto, legarlo a sè e ai suoi coi vincoli della riconoscenza. Ne ottenne quindi facilmente, in favore del fratello, un breve reintegratorio, che poteva considerarsi come una nuova investitura, ed era ricercato non tanto per i vantaggi, che immediatamente assicurava, quanto per le conseguenze, che avrebbe recato in futuro. Per accettarlo personalmente Ottavio venne a Roma, dove fu da Paolo IV accolto in modo cordialissimo; ma non potè ottenere tutte quelle soddisfazioni, che ne aspettava, per riavere la città di Piacenza e le rendite sequestrate ai suoi dagli imperiali. Anzi, la promozione di Carlo Caraffa al cardinalato, la doppiezza dei ministri francesi, i quali lo contrapposero al cardinale Farnese, finora ascoltatissimo, e lo innalzarono a tale potenza da costringere questo a ritirarsi in disparte, indisposero parecchio il duca di Parma: sicchè si oppose alla domanda dei capitani francesi di far massa nel suo ducato di Castro per tentare di risollevare le sorti delle loro armi in Toscana; e si ridusse in queste sue terre del Patrimonio, per poi proseguire per Parma, dove il suo luogotenente, Paolo Vitelli, e la moglie, Margherita d'Austria, stavano in grande ansietà per le mosse degli eserciti imperiali ai confini dello Stato. Mentre s'indugiava a Castro, il Farnese ottenne quel che la sua presenza a Roma non gli aveva concesso di conseguire. Una serie di sfregi commessi da partigiani dell'Impero a Roma e nello Stato, e segnatamente da feudatari della S. Sede, fra' quali primeggiavano gli Sforza e i Colonna, spinse il cardinale Caraffa e il Papa alla rottura, vivamente desiderata dai Farnesi per conseguire il loro intento. Ottavio fu eletto capitano dell'impresa di Toscana ed ebbe l'incarico di procedere contro gli Sforza. Ma non s'era ancora mosso, che l'ambasciatore cesareo, il marchese di Sarria, accorgendosi del mal passo nel quale stavan per ritrovarsi all'improvviso i dominî imperiali in Italia, seppe colle sue protestazioni voltare l'animo iroso del Pontefice a più miti consigli. Cominciarono allora le tergiversazioni dei Caraffa, le incertezze, gli ordini e i contrordini, che stancarono facilmente il Farnese e gli dimostrarono quanto egli avesse da perdere nella condizione in cui Paolo IV lo lasciava e come gli riuscisse impossibile di valersi del comando affidatogli per riottenere le sue terre. Deliberò, pertanto, di deporre la dignità conferitagli; e ne ottenne tanto più facilmente licenza, quanto più avevano scosso l'animo incerto del Papa le rimostranze che i ministri imperiali facevano contro il Duca. Scontento del modo con cui era stato tratto in campo e poi abbandonato, sfiduciato di mai riavere

il suo col patrocinio del Pontefice e dei Farnesi, e insospettito della scoperta di una trama ordita dal Duca d'Alba e dagli imperiali per toglierli anche Parma, egli tornò nel suo Ducato per essere pronto a tutti gli eventi. E, poichè insieme colla congiura gli agenti cesarei v'iniziarono trattative per addivenire ad un componimento, lasciandogli intendere che non avrebbero avuto soverchia difficoltà a restituirgli Piacenza e i redditi toltigli, purchè si fosse staccato dalla Francia, Ottavio vi dette ascolto, e, preparandosi, col mezzo del fratello, cardinale Farnese, delle scuse anticipate di fronte ai Francesi, entrò direttamente in segrete relazioni col Duca d'Alba.

Con queste trattative, che dovevano, poi, fargli conseguire l'intento per cui da tanto tempo egli ed i suoi fratelli si movevano, termina il 1° volume dell'opera del Coggiola, notevole per la novità dell'argomento, la larghezza delle ricerche, la retta e sagace interpretazione degli avvenimenti. La conoscenza che l'A. ha delle vicende di quegli anni e delle fonti che le ricordano, l'acume della sua mente, la sua vasta dottrina gli hanno fatto colmare una lacuna della nostra storia ed illustrare fatti e personaggi poco o mal noti; e promettono di procacciarci nel 2o volume un lavoro altrettanto interessante e perfetto. Pertanto, affrettiamo coi nostri voti il momento di leggere compiuta quest'opera, alla quale fin d'ora tributiamo le nostre lodi.

Torino.

E. CASANOVA.

F. MORSELLINO, La genesi della Rivoluzione del 1647 in Sicilia. Palermo, Stab. tipo-lit. «Era Nuova », 1903.

La storia della Sicilia, dopo il periodo del Risorgimento, che in tutte le regioni della penisola segnò un risveglio di studi storici, è rimasta fra le meno studiate, anche negli avvenimenti la cui influenza si allarga oltre i naturali confini dell'Isola. Le ragioni sono diverse: una è l'accentramento di tutti i documenti nell'unico Archivio di Palermo, un'altra, assai difficile a spiegare, salta evidente agli occhi di chi pensa al meraviglioso e proficuo lavoro che altrove costituiscono presso le Facoltà letterarie le esercitazioni scolastiche, sia in sè stesse sia come origine di lavori più complessi e sicuri.

La rivoluzione del 1647 ha trovato ora, dopo il La Lumia, un serio e competente studioso nel sig. F. Morsellino, che delle sue ricerche porge un primo saggio nell'opuscolo citato; del quale noi diamo una notizia, ampia forse rispetto al volume dell'opera, non certo rispetto al molto nuovo che essa ci apprende.

Nel secolo XVII l'Isola era ridotta alla condizione di provincia spagnuola, perchè le rappresentanze locali, pur di non essere toccate nei loro privilegi di classe, sacrificavano gl'interessi del paese, lasciando che la Spagna smungesse dalla macra Sicilia 440 milioni circa di lire in un secolo.

Nel secondo capitolo è esaminato, alla luce di documenti inediti, l'ordinamento economico. Generalmente negli studi di questo genere vediamo l'economia del paese ridotta al sistema finanziario; ma il M. ha evitato questo difetto, mantenendo le tasse in relazione costante con le industrie e i beni da cui quelle provenivano. Valendosi di una statistica ufficiale del 1621 (e l'Italia ha inaugurato il secolo XX facendosi mancare quella dei primi tre anni!) egli corregge un dato del Gregorio, e altri ne rettifica in seguito del Bianchini; l'opera del quale, pur restando fondamentale per Napoli (1), in quanto riguarda la Sicilia risulta fondata su dati raccolti di seconda mano, insufficente e spesso inesatta. Anzi è da augurarsi che il M. stesso ne faccia presto un esame sulla scorta dei nuovi documenti, per determinare quali dati siano attendibili. Seguono i resultati di un esame minuto sulle ragioni dei donativi, ma sarebbe stato opportuno aggiungere dati analitici, e mettere in relazione i donativi con le vicende delle guerre spagnuole.

Segue lo studio dell'ordinamento doganale, che rivela nel Morsellino uno degli ultimi nemici del liberismo. I criteri dei tempo imponevano il più rigido protezionismo, per procurare il buon mercato nel paese, anche a scapito dell'interesse dei produttori. E anche qui, chi ricorda Magnati e Popolani del Salvemini (2), desidererebbe una trattazione più particolareggiata; mancano specialmente notizie specifiche sulle condizioni economiche e sociali che determinavano quel sistema fiscale, mentre il M. si limita a stabilire in quale misura ognuno degli ordini, non escluso il popolo, concorreva a formare la classe dei produttori.

Tre correnti di interessi vengono a cozzare, dei produttori, dei consumatori, e dello Stato, per l'esazione dei dazi: esse erano inconciliabili fra di loro, senza che qualcuna ne uscisse sacrificata, e poichè il potere era nelle mani dei nobili, che erano produttori, e lo Stato poteva difendersi, era naturale che sacrificata restasse la plebe: onde le rivoluzioni di Palermo, di Masaniello, « e, in epoche

(1) Qualche correzione, non di gran momento, fa lo SCHIPA nel cap. III del Reame di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Napoli, Pierro, 1904. (2) G. SALVEMINI, Magnati e Popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze, Carnesecchi, 1898, pp. 40 segg.

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più lontane, dei Ciompi a Firenze, dei Senza Brache a Bologna, degli Straccioni a Lucca » (p. 17). Riavvicinamento inesatto in parte, perchè, riandando a quell'epoca, si poteva citare la Jacquerie e i movimenti sociali contemporanei in Inghilterra, piuttosto che il tumulto dei Ciompi, il quale, pur avendo fondamento essenzialmente economico, rappresenta l'ascensione al potere della plebe, fatta cosciente della sua forza dall'efficacia dell'aiuto suo nelle lotte fra magnati e popolani.

Il 2° paragrafo del capitolo III studia la municipalizzazione dei pubblici servizi. La colonna frumentaria, mentre non riusciva ad evitare le carestie, costituiva un impaccio per le finanze comunali, e una palla al piede pei produttori. E ciò quando altrove provvedimenti meno impacciosi per tutti, assicuravano l'abbondanza granaria (1): tanto è vero che non riescono utili se non le istituzioni organizzate secondo le esigenze del paese. Tre piaghe, l'eccessiva ingerenza governativa, il fiscalismo e la corruzione, concorrevano a pregiudicare anche i provvedimenti savî; perchè non uscisse dall'isola grano scadente a scapito della reputazione dei prodotti paesani, erano stati istituiti dei magazzini di deposito; ma gli uffici di questi carricadori erano messi all'incanto, e naturalmente quelli che li compravano, volevano rifarsi in tutti i modi delle spese incontrate, onde non solo lo scopo andava fallito, ma si era inutilmente complicato l'ingranaggio amministrativo e si era procurato un nuovo impulso alla corruzione.

A questi due capitoli, d'un'importanza veramente grande, ne segue un altro non meno interessante, sulla decadenza dell'industria pochissimo conosciuta della seta, che dava da 7 a 8 milioni l'anno, e degli zuccheri. Per riparare alla decadenza agricola, il governo escogitò leggi gravose, e inutili. Il provvedimento più strano agli occhi di chi ricordi le misure efficaci usate per lo stesso scopo in Lombardia all'epoca di Maria Teresa, rimane il tentativo di un maggiore accentramento del latifondo nelle mani dei baroni, misura che a me sembra il Morsellino non se lo domanda - ispirata dai signori, pronti a sacrificare il bene comune all'interesse della loro classe.

Il cap. IV, esamina le leggi sul cambio, determinate dalla solita politica dissennata, che non sa trovare rimedi efficaci ai mali più gravi. Questo capitolo, relativamente agli altri abbastanza lungo,

(1) Cfr. NICASTRO, Lucca negli ultimi anni della republica aristocratica, in corso di stampa, in Studi Storici di A. CRIVELLUCCI.

è ben lontano per altro da quella ricchezza di particolari con la quale il Rodolico ha recentemente esaminate le variazioni del sistema monetario fiorentino fra il 1378 e il 1380, e l'influenza che su di esse esercitarono le varie classi sociali (1).

Segue un cenno sull'ordinamento finanziario di Palermo. La città aveva un disavanzo annuo di quasi 200,000 lire, sempre crescente per donativi e carestie (2). Interessanti sono le notizie sul sistema tributario: le tasse gravavano al solito sui poveri: gli ecclesiastici non solo vi si sottraevano, ma si prestavano all'esenzione abusiva di molti beni laici: la gabella della carne rendeva 40,400 scudi, ma, tolte le franchigie, al comune non ne rimanevano che 1784! (p. 60). Per sopperire a tante miserie, furono stabilite nuove imposte che gravavano specialmente sui poveri e sulle industrie: al testatico, che ha un' immanente equità, non si pensò neanche.

Seguono interessantissime notizie sul costo della vita e sulle mercedi troppo brevi però; accanto al prezzo dei generi di consumo, qui ci aspetteremmo le variazioni da esso subite rispetto ai secoli precedenti; e queste, messe in confronto con i cambiamenti delle mercedi e del valore del denaro, avrebbero dato insegnamenti utilissimi. Qui il M., cui la ricerca di tanti dati deve essere costata grandi fatiche, avrebbe potuto facilmente, con la cultura di scienze economiche che egli lascia intravedere, scrivere delle pagine di un interesse veramente eccezionale. Cosi pure avrebbe dovuto estendersi sui sistemi di esazioni dei tributi, e sugli odî sociali che essi provocano: lo Schipa, nell'opera citata, scrive in proposito delle pagine che restano fra le più interessanti del ponderoso volume.

Il libro si chiude con un esame dei capitoli del D'Alessi, la cui forma, che al M. sembra troppo varia e confusa, a me pare il segno precipuo che essi sono espressione sincera della volontà popolare, la quale, nella varietà delle tendenze e dei fini, difficilmente può acquistare la compostezza e l'unità dell'opera di un uomo di studio. Qui appare completo il carattere della rivoluzione, sincera espressione di malessere economico: il popolo pretende di entrare a parte dell'amministrazione, per mitigare la mala signoria che sempre ac

(1) N. RODOLICO, Il sistema monetario e le classi sociali nel Medio Evo. (Estr. dalla Riv. It. di Sociologia, Roma, anno VIII, fasc. IV, luglio-agosto, 1904).

(2) In previsione di una carestia, la città era costretta a comprare una enorme quantità di grano, olii e caci; non avvenendo poi la carestia, il grano avanzava e bisognava venderlo ad ogni costo; e allora, proibita la concorrenza privata, la comunità rivendeva a prezzo assai alto.

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