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di medicina legale che aprono la via agli ulteriori progressi di tale disciplina. I moti politici del '31 lo ripiombano però nella miseria e negli stenti d'una vita randagia: più che per impulso cosciente dell'animo vi si era lasciato trascinare dalla corrente, accettando dal Comitato provvisorio di governo una missione a Bologna. A Bologna non potè nemmeno arrivare, chè la rivoluzione era già stata domata; ma ciò bastò, e nonostante i rimpianti, le giustificazioni, e, purtroppo, anche i pentimenti, egli veniva destituito, e tre anni dopo, anni di nuove peregrinazioni, di persecuzioni, di stenti, di sventure domestiche, era espulso anche da Bologna. Si rifugiava allora nella mite Toscana, dove la generosità di amici potenti gli dava, se non l'indipendenza economica e tanto meno l'agiatezza, il modo per lo meno di vivere e di attendere più tranquillo ai suoi studî, finchè nel 1838 otteneva da Leopoldo II una cattedra nell'università di Pisa. L'uomo forte aveva vinto; e l'università di Pisa, che egli lasciava solo nel 1860 per passare al neonato istituto di Studi superiori di Firenze, chiamatovi ad illustrarlo dal Ridolfi, diventava per merito del Puccinotti, professore da prima di istituzioni medico-civili, poi di clinica medica, ed in fine della storia della medicina, cattedra per lui espressamente dal granduca fondata, un faro luminoso di medica sapienza. Scienziato e filosofo, egli consacrava la sua gloriosa maturità al sogno dell'ardente gioventù, a quella restaurazione del sistema ippocratico, in cui s'illudeva dover consistere la sua gloria presso i posteri. Concetto però filosofico e sociale più che scientifico, giacchè la dottrina ippocratica purificata doveva nella sua mente rientrare in un più vasto sistema che fosse risurrezione dell'antica filosofia italica, da lui prediletta, il sogno del Puccinotti doveva svanire, nonostante la fondazione d'una accademia avente succursali da per tutto (la Scuola Ippocratica 1843-47), nonostante la propaganda scritta ed orale e perfino la sanzione d'un Congresso di scienziati, quello tenuto a Milano nel 1844. Ben meno vaporosi dovevano essere i titoli di gloria scientifica pel principe dei medici italiani, quale fu ai suoi tempi proclamato il Puccinotti: la difesa calorosa e la scrupolosa osservanza del metodo sperimentale, la teoria delle cause predisponenti, l'intuizione della teoria microbica, l'accertata esistenza delle correnti neuroelettriche in seguito agli esperimenti fatti col Pacinotti, la scoperta dell'elemento anatomico cellulare (il nome in lui manca ancora), la coscienza lucidissima delle relazioni indissolubili fra la medicina e la vita tutta economico-sociale d'un popolo e la conseguente invocazione d'una legislazione sanitaria in genere e sociale in ispecie (polizia medica egli la chiamava) a presidio della vita operaia nei campi, nelle risaie, nelle officine, sono meriti immortali del grande urbinate, che

da sè stesso si elevava un degno monumento nella famosa Storia della medicina. Fu questo l'ultimo lavoro del grande pensatore.

Rifugiatosi nell'opera sua dopo le nuove delusioni politiche del '49, seguite agli entusiasmi neoguelfi, vi spendeva dintorno vent'anni, dal '50 al '69, trovando in essa conforto alle nuove sventure domestiche ed a quelle, che per lui erano sventure pubbliche, la costituzione cioè dell'Italia su basi diverse da quelle sognate. Per un contrasto non nuovo nella storia del pensiero umano il precursore di nuovi veri od ipotesi scientifiche, colui che nel campo medico spianò la via al Virchow, al Pasteur, al Mosso, al Lombroso, al Celli ed a tanti altri innovatori, ed in quello sociologico precorse lo Schäffle, il Lilienfeld, il Worms nello sbozzare (i compilatori del volume non molto padroni del linguaggio sociologico non lo dicono, ma le indicazioni da loro fornite lo dicono chiaramente) i primi contorni d'una teoria analogico-organica sulla società, non seppe dal punto di vista politico nonchè precorrere nemmeno seguire i suoi tempi, fu socialmente e politicamente (e sia detto per amore di verità, fine unico della storia, non per irriverenza al filantropo caldissimo ed al grande scienziato) un reazionario della più bell'acqua. Cattolico fervente ed entusiasta, non seppe distinguere, come altri intelletti sovrani non meno di lui religiosi, i confini tra religione e Chiesa e dal suo sogno d'una redenzione italica a base di fede cattolica non seppe scindere l'altro d'un predominio politico e sociale della Chiesa; nelle Lettere Guelfe, che ce lo rivela il più guelfo dei neoguelfi, trova «< il ternario politico, che parte dal Papa e si dirama << per tutto il corpo sociale, la più bella e insieme la più filosofica << forma civile che possa darsi a uno Stato »; perora la causa, oltrechè della teocrazia, dei gesuiti, rimproverando al Gioberti i suoi Prolegomeni, che chiama una « sfrenata Catilinaria » ed in cui riconosce << un ammasso di esorbitanze, di invettive e di calunnie che anzichè <<< nuocere doveva giovare alla Compagnia »; maledice e non una volta alla Rivoluzione francese ed alla filosofia che la preparò; nega alle moltitudini ogni diritto di « proteste legali »; arriva perfino, novello Giosuè che crede con la logica della fede di fermare il sole, nega addirittura l'idea stessa di progresso civile, giacchè per lui ogni progresso non è che sviluppo ed amplificazione d'una idea millennaria, quella cattolica: quanto è fuori e tanto più contro di essa non è che « fermentazione del letamaio » se trattasi di progresso materiale,« progressume che imbratta la purità del principio medesimo che informa la civiltà » se si tratta di progresso delle idee: << subordinare, in altre parole, l'idea cattolica alla potenza del secolo e del progresso è paradosso dimostrato »!

Ne questa esaltazione del sentimento cattolico, questa subordinazione ad esso dello Stato, della società, della civiltà stessa è frutto del momento, degli entusiasmi generali per Pio IX: la bancarotta politica del papato nel 1848-49 non gli aperse gli occhi più che le persecuzioni del governo teocratico non gli avessero impedito (e questo fa onore al suo carattere) di farne l'apologia nel 1846. Nel Sogno politico, scritto nel 1859, in un coll'idea della Confederazione italiana è ribadito il concetto d'un Papato politico arbitro e moderatore della civiltà italica; mentre vengono scagliate le più fiere invettive contro quel Piemonte, che alto aveva tenuto nell'ultimo decennio il principio della laicità dello Stato, « quel Piemonte bri« tannico, colle leggi Siccardi, le oppressive riforme ecclesiastiche, <«<le licenziose libertà, le irreverenze senza nessun limite politico nè « religioso », il cui re deve « deporre la speranza di essere il Re << dell'Italia tutta ed intendere ed attendere che per voler troppo « non perda anche il limitato frutto delle sue conquiste e non noccia << al nazionale definitivo riscatto col mantenere una propaganda nella <<< Nazione medesima che oltre all'essere indecorosa per cupidigia ed << oltre a trarre seco il non rispettare la Presidenza del Gerarca « Romano, è poi affatto impolitica ed inconciliabile col presente <<< componimento nazionale d'Europa ».

Il sentimento religioso del credente faceva velo cosi agli occhi del cittadino, che, mentre s'illudeva di praticare l'unione indissolubile fra religione e patria, sacrificava questa a quella, augurandosi un'Italia in pillole sotto l'egida materiale della Francia ed intellettuale del Papato. La religione deve essere custodita, mantenuta e protetta, scriveva egli in margine alla minuta della lettera, con cui mandava, disgustato del nuovo assetto politico ed intellettuale d'Italia, le dimissioni da senatore del nuovo regno al ministro Lanza nel 1865 — La libertà di coscienza deve essere un concetto politico e non una « legge: come concetto politico non chiuda le porte alle esortazioni << contro l'errore e lasci l'individuo solo responsabile delle sue li<< bere credenze: come legge è ostile e scandalosa minaccia al culto << dello Stato. Negli instituti di pubblica istruzione deve essere vie<< tato l'insegnamento per cui o con dubbî filosofici o con ipotesi o << con qualunque altro mezzo resti offesa la santità del culto na<< zionale »>.

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Ecco svelate dalle stesse carte Puccinottiane dell'Universitaria di Urbino le ragioni profonde di quel rifiuto, pretestato di motivi di salute, di cui prima d'ora gli illustratori del Puccinotti non avevano potuto farsi una chiara ragione. Nè questi motivi forse erano stati estranei alla richiesta di giubilazione ed al ritiro dall'insegna

mento nel 1861, dopo soppressa la cattedra di storia della medicina. Il Puccinotti mostrava con ciò una nobiltà di carattere, che altamente lo onora.

Oltre alle ragioni ideali non era estraneo alla sua condotta un sentimento di gratitudine non mai smentito verso quella dinastia lorenese che aveva riconosciuto e compensato il suo merito. Ancora in una lettera del 1869, mandando all'ex-granduca di Toscana l'ultimo volume della sua Storia, a lui dedicata, protesta contro « tutta << la iniqua caterva dei beneficati traditori che le loro armi insidiose « preparavano già contro il loro principe », e si professa a lui << devoto e fedele sempre » ripromettendosi colle « incessanti pre<<< ghiere all'Altissimo di ottenere che infine i nuvoli procellosi siano << quanto prima dispersi da questo bel cielo della Toscana e torni << la pace e l'ordine e il benessere civile ».

L'uomo soffocava anche in questo l'italiano; e tanto più venerando appariva il primo quanto meno imitabile il secondo.

Senonchè l'uomo pure, se non basta l'antico liberale del '31, era già quasi disfatto: tre anni dopo egli moriva a Siena ed il tempio di Santa Croce in Firenze ne raccoglieva degnamente le spoglie. Immortale nell'opera scientifica, egli era sopravvissuto politicamente e socialmente ad una generazione ormai tramontata: quella presente non la intendeva più e perciò « non gli piaceva », come confessava egli stesso con quella sincerità, ch'è propria degli animi eletti.

Pavia.

GENNARO MONDAINI.

Necrologia

GIUSEPPE MAZZATINTI.

Era nato a Gubbio, nell'Umbria, il 21 settembre 1855. Compiuti gli studi secondari in Perugia, era stato allievo della gloriosa Scuola Normale di Pisa, e nell'Ateneo di quella città avea conseguita la laurea in lettere.

Dal patrio ginnasio, dove per alcuni anni insegnò, passò alla cattedra di storia nei licei di Foggia, di Alba e di Forlì: e in quest'ultima città, che egli considerava come sua seconda patria, è morto il 15 aprile, consunto da implacabile morbo e più dal soverchio lavoro che ne avea logorata la fibra.

Alla nostra Deputazione appartenne come socio corcorrispondente fin dal 1884, quando già da tre anni in quest' Archivio avea pubblicato un accurato studio sul Teleutelogio di Ubaldo di Sebastiano da Gubbio, opera inedita del sec. XIV; ai nostri lettori poi fu data notizia di due de'suoi più importanti lavori: quello sulle Cronache forlivesi di Andrea Bernardi detto Noracula (Archivio, ser. V, to. XVII, 235) e l'altro su La biblioteca dei Re d'Aragona in Napoli (ser. V, to. XIX, 403-408).

Ma la sua produzione scientifica e letteraria fu immensa, specialmente in confronto de' brevi anni di sua vita, travagliata da lunghi e frequenti assalti di quel fatale malore che lo condusse si presto al sepolcro.

Giovanissimo ancora, s'era fatto conoscere con due eccellenti pubblicazioni su Armannino Giudice e su la lingua di Eschilo, a cui seguì subito l'altra su Bosone da Gubbio e le sue opere, compilata pel Giornale di filo

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