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« la Regola, che esclude le donne, non si osservi per colei, che << tanta fede e devozione fece venire a me da luoghi così lon« tani. Satana non è più temibile nella pietà muliebre. Come << la luce del sole e la bellezza dei fiori, il sorriso consola<< tore della donna non è bandito dalla religione di Fran« cesco » (p. 100). A queste belle parole e più ancora alle acute osservazioni del Tamassia pienamente sottoscrivo, anzi a confermarle maggiormente mi permetto una opportuna digressione. Il ricordo della visita di Frère Jacqueline, come la chiama secondo il linguaggio del tempo il P. D'Alençon (Frère Jacqueline, Paris 1899), non si trova nè nella prima nè nella seconda vita del Celanese, ma nel trattato dei miracoli, recentemente scoperto e pubblicato dal Van Ortroy. Il benemerito editore, che in omaggio del Celanese mette la falce nella stessa Leggenda dei tre Socii, cara un tempo ai Bollandisti, non solo rivendica la priorità del racconto Celaniano, ma trova in esso la prova più calzante della tardiva composizione dello Speculum perfectionis. Il Tamassia ha fatto bene a non lasciarsi adescare anche in questo punto dalla logica demolitrice del Van Ortroy, che il Sabatier (De l'évolution des Légendes, in Bullettino critico di cose francescane, a. I, fasc. 1, gennaio-marzo 1905) ha ben dimostrato come pecchi nella base, essendo l'argomentum ex silentio il più fragile di tutti. Dall'avere lo Speculum taciuto dell'abbracciamento che per invito del Vicario la Settesogli avrebbe fatto del cadavere del Santo, scoprendone le miracolose stimmate, non si può dedurre nulla. La scène près du cadavre non è punto de celles que l'on invente ou que l'on interpole après coup, dice il Van Ortroy. Potrebbe benissimo essere inventata o interpolata, quando specialmente un interesse così potente come la constatazione delle stimmate entrasse in gioco, avremmo il dritto di rispondere noi. Ma nè il Sabatier conclude per l'interpolazione, nè vi concluderò io. Il fatto che racconta lo Speculum si riferisce alla venuta di Giacomina, anzi piuttosto al desiderio del morente di rivederla per l'ultima volta, e che alla sua venuta gli porti del panno cenerino per la funebre tunica e di quei mortaroli, che soleva preparargli quando giaceva infermo in Roma.

Tutto il resto in quel capitolo sarebbe stato fuor di luogo. « Le chapitre du Speculum Perfectionis, dice il Sabatier, est <«< comme le fragment d'un journal d'un garde-malade. Les << faits sont encore tout récents; on les voit de trop près et << sans perspective. Ce qui y domine, c'est le désir de Saint François, l'envie du pauvre malade souhaitant de manger << du mortairol et préoccupé de l'etoffe dont on enveloppera << la dépouille mortelle ». Il fatto, che morto S. Francesco, la dama romana abbia potuto abbracciarne il cadavere non poteva entrare in quel quadro e l'autore dello Speculum non ve lo mise. Ma non è detto che in altro luogo, a noi non pervenuto, non l'abbia anche menzionato, se pure il fatto accadde davvero, od ebbe l'importanza che il Celano gli attribuisce.

Nell'appendice del suo acuto lavoro il Tamassia riproduce i testi dello Speculum, degli Actus e di Giacomo da Vitry intorno alla leggenda dei ladroni, per dimostrare come <«< il racconto che si trova nello Speculum perfectionis e negli « Actus.... quella bella pagina, che il Sabatier disse un com<< mento del capitolo settimo della vecchia regola.... non l'ha << scritta fra Leone ma Giacomo da Vitry » (pp. 52-53). Io non saprei accettare questa dimostrazione. Non perchè è antico il tipo del monaco, che faccia della povertà un culto, s'ha da dire che S. Francesco, e prima di lui Pietro Valdo, non metta nella povertà la radice di una rinnovazione religiosa. Quando S. Francesco in tutti i suoi scritti autentici raccomanda di non tenere per suo, non dico la casa, dove alberga, il letto dove riposa, ma perfino il mantello o la tunica che porta indosso, non poteva nè doveva sentire quella ripugnanza per i ladri e gli assassini, che pure è così naturale. Non il racconto della mensa, che comanda s'appresti ai ladroni, è la cosa più importante nel racconto dello Speculum, ma il contrasto tra i frati, che credevano non giusto far la limosina a chi non la carità ma la violenza ha per sua legge, e il patriarca, che le restrizioni dei frati alla legge d'amore non vuol riconoscere, ed è sicuro che con la dolcezza e col perdono anche i più fieri cuori si possan guadagnare. Come appare diverso qui il mite Santo da frate Elia che, per vin

cere la resistenza dei compagni di S. Francesco, invoca dal Papa una parola che rafforzi l'autorità del Ministro Generale, rimovendo ogni ostacolo alle misure più severe. Il ricordare la pietà di S. Francesco e l'insistere che egli faceva sul divieto di ogni punizione; il ricordare l'amore. che egli mostrava anche ai ladroni e agli omicidi era la degna risposta, che i colpiti dalle severità di frate Elia potevano dare. Nessuno meglio del Tamassia avrebbe potuto rilevare la verità di questi tratti, se sotto il pungolo della critica demolitrice non avesse scordate le belle pagine da lui stesso scritte sulla prima società Francescana.

Firenze.

FELICE TOCco.

SULLA "

CONVENZIONE FAENTINA" DEL 1598

Nuovi documenti inediti faentini

morto nell'ottobre

È cosa nota che il 12 gennaio 1598 del '97 Alfonso II d'Este il ducato di Ferrara fu riacquistato sine clade alla Santa Sede, non ostante le pretese di Don Cesare Estense (cugino ed erede del morto Duca, che se n'era già dichiarato ed immesso in possesso), mediante la transazione stipulata in Faenza fra il cardinal Pietro Aldobrandino, nipote del papa, per la S. Sede, e la duchessa d'Urbino, Lucrezia d'Este, a nome di Don Cesare.

Parlare quindi della « Convenzione faentina » e specialmente dopo quanto n'hanno scritto il Balduzzi (1) e il Callegari (2), potrebbe parere e sarebbe forse inutile, dato che si volesse esaminare il fatto in sè, considerando la copia e la importanza reale dei documenti, che quegli scrittori, e l'ultimo in ispecial modo, hanno dato fuori.

Però i due A.A. guardano la questione sotto due punti di vista diversi: il Balduzzi, cioè, dal lato diplomatico, il Callegari dal lato storico e politico.

Il Balduzzi, infatti, dà l'Istrumento finale della transazione di Faenza per esteso, secondo una copia autentica, già

(1) Cfr. E. BALDUZZI, L'Istrumento finale della transazione di Faenza pel passaggio di Ferrara dagli Estensi alla S. Sede (13 gennaio 1598). Atti e Memorie della R. Deputazione di St. Patria per le provincie di Romagna, Ser. III, vol. IX, fasc. I-III, 1891, pp. 80 e segg.

(2) Cfr. E. CALLEGARI, La devoluzione di Ferrara alla S. Sede (1598). Rivista Storica Italiana, anno XII, fasc. I, 1891, pp. 1 e segg. Cfr. pure lo splendido commento storico-estetico di G. AGNELLI, Ode Carducciana alla Città di Ferrara, Bologna, Zanichelli, 1899, pp. 29 segg., che contiene notevolissimi particolari sulla cessione del Ducato.

esistente nell'Archivio di Cotignola (1), e parla dell'impresa di Ferrara per quel tanto che reputa necessario ad intendere l'atto che dette efficacia giuridica al passaggio di Ferrara << dal governo degli Estensi al Dominio pontificio, che è senza <«< dubbio a reputarsi uno dei fatti più notevoli della Storia << di Romagna non solo, ma anche della Storia generale << d'Italia >>.

Accenna perciò sommariamente alle condizioni e circostanze determinanti il fatto, ed anche al susseguente viaggio di Clemente VIII per prender possesso dello Stato nuovamente occupato, e trascrive il testo della Convenzione, corredandolo della copia, non sempre fedele, di due iscrizioni sincrone faentine, desunte non dal luogo, ma forse da un autore; ponendone erroneamente una, quella del Palazzo del Comune, nella sala in cui « la pace fu solennemente firmata » (2) e tralasciando infine di riportare quell'aggiunta all'iscrizione stessa, che il Magistrato civico, ottant'anni più tardi, vi appose, quasi a riaffermare come Faenza si tenesse onorata di aver dato il suo nome a negozio di così alto momento, quantunque nella sua storia il fatto non si rifletta che per semplice incidenza. Questa è però menda di ben poco valore, qualora si consideri il merito che l'A. ha di aver divulgato il testo della Convenzione, secondo una versione quasi sempre esatta.

Il Callegari, invece, scrive sull'argomento una vera e propria monografia, basandola su documenti inediti, specialmente degli Archivi di Stato di Venezia e di Modena. L'impronta del suo lavoro è quindi assai diversa da quella del Balduzzi e ne dissente anche nelle conclusioni, ma è suffragata da numerosi documenti e sostenuta da evidente e saggio fondamento di critica.

Egli tratta dapprima la parte giuridica della questione ed avverte come nella Corte di Roma, dopo i varî ed infruttuosi tentativi fatti per riavere la contrastata città, si fosse acuito il desiderio di possederla.

(1) Cfr. BALDUZzi, op. cit., p. 110 in nota.

(2) Cfr. BALDUZZI, op. cit., p. 86.

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