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che durarono sino almeno a tutto il 1458 (1). Nei pochi anni, che corrono, mettiamo pure dal 1448 (prima di questo tempo non credo sia il caso di parlare di fiera), al 1464, può un' istituzione economico-commerciale salire all'importanza, che l'ultimo capitolo della convenzione vannucciana vorrebbe attribuita alla fiera?

Nè solo questo è il punto debole di tale convenzione. Per essa dunque la fiera è già nel 1464 entrata nelle consuetudini della città, ed è per essa di interesse così vitale, da formare l'oggetto d'una richiesta e d'una sanzione, la cui importanza non sfugge a nessuno. Ognuno penserebbe che dopo ciò la fiera, entrata tra le istituzioni della città riconosciute e sanzionate dalla superiore autorità, dovesse continuare a celebrarsi regolarmente, a essere rispettata dalle nuove signorie per cui Senigallia passò, a formare la cura e il pensiero costante dei cittadini, come avveniva in Recanati, come sarà di fatto anche qui dalla seconda metà del secolo XVI. Nulla di tutto ciò. Dopo questo così solenne riconoscimento, la fiera la perdiamo quasi completamente di vista: dobbiamo ricercare col lumicino per ritrovarne qua e là indizî di molto, ma molto grama vita. Nè si creda dovuta la cosa a mancanza di documenti. Dopo questa prima convenzione, ne abbiamo, tra Senigallia e i successivi suoi nuovi signori, altre tre di poco posteriori: col Valentino, 10 giugno 1503; con Leone X, 6 novembre 1519; con Giovan Maria Varano, 20 febbraio 1521, la quale ultima però non è che una pura e semplice conferma della precedente con Leone X. Orbene, nessuna di queste ha, non che una menzione, neanche un accenno alla fiera della Maddalena. Invece la convenzione con Leone X, al cap. XXI, che vedremo in seguito, parla di una fiera, ma della fiera di S. Francesco, che cadeva in ottobre. Il silenzio di questi atti posteriori è significante.

Che se poi si desideri un rincalzo agli argomenti che precedono, eccone altri. L'anonimo scrittore della Cronaca

(1) Zonghi, op. cit., pp. 158-9.

Passeri, il quale si ferma a lungo sugli avvenimenti del 1464, non solo non fa parola di questa concessione importantissima, ma ci dà anche, e vedremo questo pure, un cenno della convenzione vannucciana, dal quale non risulta affatto privilegio simile. Fra Grazia di Francia (1), il biografo di Giovanni della Rovere, che scrive nel suo convento delle Grazie nell'anno 1522, ci dà una notizia, e vedremo anche questa, che ripugna al tenore del vannucciano capitolo XIV, non meno che il silenzio degli atti ufficiali citati innanzi. Finalmente un economista e finanziere marchigiano, fiorito a mezzo il secolo XVI, Silvestro Gozzolini da Osimo (2), uno quindi la cui fede, oltre che per l'indole de' suoi studî, anche per diretta conoscenza di luoghi e condizioni economiche, ha nel caso nostro particolare importanza, là dove nel << Discorso sopra la città di Pesaro » parla dei cespiti d'entrata degli stati e delle città, tra quelle della Marca, che hanno un proprio cespite di ricchezza (« nervo » egli dice), nomina Ancona, che « ha per suo nervo il porto, Macerata la Corte, Recanati la fiera » (3). Anche la fiera è dunque per lui una fonte economica da non trascurarsi: ma nell'esemplificazione ricorda quella di Recanati, non quella di Senigallia. E di Senigallia, il Gozzolini fa cenno, e abbastanza lungo; ma per dire che essa è in continuo << augumento» di popolazione, per cui si renderà necessaria, dopo quella di Guidubaldo del 1546, una nuova ampliazione (4), come nel fatto fu veramente alla distanza di due secoli.

Da quanto precede si è certo avvertito ormai a che si tende colla presente argomentazione. Ma prima di tirar la conseguenza ultima, son necessarie alcune altre considerazioni. Della convenzione vannucciana possediamo ben cinque copie contenute nel solo volume « Privilegi e Chirografi diversi » : ma non possediamo, si noti, nè l'originale, nè

(1) Vatic.-Urbin., n. 1023, c. 315 e sgg.

(2) L. CELLI, Di Silvestro Gozzolini da Osimo, Torino-Roma, 1892. (3) Ivi, p. 181.

(4) Ivi, p. 189.

una copia ufficialmente autenticata. Son cinque copie in carta straccia, non si sa da chi nè con precisione quando trascritte. Di esse, tre pei caratteri grafici appartengono indubbiamente ai primi del XVIII e di esse non è qui questione; le altre due al XVI, ma, di mani diverse, l'una è facile ricondurla alla prima metà, non molto in giù però; l'altra alla seconda. Naturalmente, anche pel più profano, se valore posseggono queste copie, la più autorevole è la più vicina alla fonte. Esaminiamo dunque l'ultimo capitolo in questa più antica copia. Chi bene osservi, la scrittura di esso presenta cassature e correzioni con certa abilità interposte e sovrapposte da mano posteriore, che io credo la stessa che stese la seconda copia, perfettamente visibili, come alla forma delle lettere, così al colore più sbiadito dell'inchiostro. Liberando il testo da queste interpolazioni, abbiamo il famoso capitolo ridotto a ben più modeste e accettabili proporzioni: «< Item se adimanda secondo <«<le nostre consuetudine in questa nostra Cità octo di nante << octobre e poi la festa de santa Maria Magdalena solemo << fare la fiera ecc. ecc. ».

Non si tratta più dunque della fiera franca della Maddalena, di ben diciassette giorni di durata, ma di due fiere distinte: l'una che cadeva gli ultimi otto giorni di settembre, l'altra, la nostra, l'indomani della festa della Maddalena. Non è chi non vegga la differenza enorme del testo da quando si legga cosi sapientemente falsato, come lo han letto quanti si sono occupati della fiera, a quando si Jegga ridotto alla sua prima vera lezione. E così ridotto, ognun capisce, il suo contenuto si può benissimo accettare: delle due fiere del resto, non proprio come già esistenti nel 1464, ma in tempo non molto posteriore, sappiamo anche da altra fonte.

Eppure (dove mai s'arresta la mania struggitrice?), anche liberato dalle sapienti interpolazioni, questo capitolo XIV non si può ammettere. Non è vero che, anche ridotto alle sue primitive proporzioni, sia stato presentato al Vannucci e il Vannucci l'abbia approvato. Esso è il prodotto di una falsificazione. E non basta: l'intera conven

zione è un falso audace, la cui fortuna è stata davvero meravigliosa. La convenzione vannucciana, quale ci è data dalle copie del volume « Privilegi e Chirografi diversi », è stata messa insieme all'unico scopo di fabbricare una patente di relativa antichità alla fiera, è stata confezionata per formar cornice all'ultimo capitolo, il più importante di tutti, quello cui si volle affidare la fortuna della città.

Abbiamo già premesso che nel volume, che contiene i cimeli dell' Archivio senigalliese, invano si ricercherebbe l'originale o una copia munita dei segni ufficiali dell'autenticità. È mai possibile ora che la città, la quale con cura gelosa ha custodito altri atti pubblici di non maggiore importanza per essa e queste copie semplici, non dovesse conservare con cura anche più gelosa l'originale? Ora poi osserviamo che il testo di questa convenzione è scritto in un italiano così barbaro, così goffo, così scorretto, che rivela lontano un miglio la sua derivazione da un testo latino non eccessivamente familiare al traduttore. Lo possiamo conoscere questo testo latino, fonte della falsa convenzione vannucciana? Si e con fatica pochissima, perchè il primo falsario (il secondo è quello dalle interpolazioni sapienti) non si spinse molto fuori dei termini del suo coltivato, anzi non li varcò nemmeno. Si fermo ai capitoli, che nel 1519 concesse a Senigallia Leone X, allorchè la città, passata tre anni innanzi, in forza del ladroneggio ingiustificato e ingiustificabile, che fu la conquista del ducato d'Urbino, sotto il governo di Lorenzo de' Medici, tornava per la morte di costui alla Chiesa, rinnovando l'alterna vicenda del 1463-64.

Dei quattordici capitoli di cui consta la falsa convenzione vannucciana, ben dieci sono stati tolti di peso alla convenzione stipulata con Leone X. Naturalmente si è avuto cura di introdurre qualche variante, ma leggera, essendosi qua lasciato, là aggiunto un inciso, una semplice parola: in generale poi si è ricopiata solo la prima parte di ogni capitolo. Non costerebbe poi gran che di fatica ricondurre i rimanenti quattro ad altri della stessa convenzione, della quale, sia per l'ignoranza della lingua, sia per deliberato proposito, sia per l'uno e l'altro rispetto insieme, il falsario non ha inteso

sempre il senso. I dieci che concordano, non solo nel contenuto, ma nella stessa dizione, sono:

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Cap. III. Item che la dicta Comunità et Università Comune et per lo consiglio de epsa possa et vaglia elegere podestà de ladicta Cità et altri offitiali oportuni al governo de epsa, de le terre de santa Romana Ecclesia de semestre in semestre cum li soi salarii che per epsa Comunità seranno deputati cum confirmatione de li soperiori. Placet habita confirmatione superioris. Ja(cobus), episcopus perusinus gubernator.

Cap. X. Item che la dicta Comunità de Senegallia et sui citadini et habitatori de epsa con tucto suo contà habitatori de epsa possano et vagliano sempre per alchuno tempo quando

Convenz. 1519.

Cap. III. Item quod (Comunitas) possit et valeat libere eligere Potestatem et alios Officiales ad gubernium dicte Civitatis necessarios de semestri in semestre cum salariis per eandem Comunitatem deputandis, qui Officiales sic electi non teneantur solvere taxam reverendis dominis Secretariis aut aliquam aliam solutionem ratione dictorum Officiorum. - Placet S. D. N. dummodo habeant confirmationem per Breve Locumtenens, Potestas et Officialis damnorum datorum, si fuerint prout officia aliarum Civitatum.

Cap. IX. Item quod cives comitatini et habitatores Civitatis Comitatus et districtus predictorum possint et valeant quotiens eis placuerit extrahere et extrahi facere tam per ter

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