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Nel primo degli articoli suoi il Guerri, coll'aiuto, in modo speciale, di Papia, Uguccione e Giovanni da Genova, dichiara il Papè (così accentato, come le teorie grammatiche del tempo richiedevano) Satan, Papè Satan aleppe, cosi: «Oh Satana, oh Satana Dio »; e non v'è dubbio, oramai, che la spiegazione debba esser questa, che ha anche il gran merito di coincidere con quella dei più antichi interpreti della D. C. La ragione, poi, per cui D. sarebbe ricorso a quei vocaboli, è, secondo il Guerri, questa: o perchè gli rendevano meglio il suono di voce chioccia, o perchè non volle esprimere in volgare la bestemmia che è contenuta in quelle parole di Pluto.

Non meno persuasivo è l'altro articolo del Guerri riguardante la lingua di Nembrot (Inf. XXXI, 67). Pone, intanto, le basi ad ogni sua ulteriore argomentazione, fermando che dai vv. 79-81 dello stesso canto XXXI resulta che il linguaggio che a Nembrot, secondo le teorie del M. E., è toccato in sorte fra i 72 o 73 linguaggi sorti dalla confusione babelica, gli è peculiare, tale, cioè, che non lo ha mai parlato altri che lui (p. 8). E perchè questo linguaggio assegnato a Nembrot è per D. personale e peculiare al gigante? L'esegesi biblica medioevale aveva fatto di Nembrot l'istigatore, per mania di dominio, della costruzione della torre di Babele, e poi primo sovrano di Babilonia anche dopo la dispersione delle genti e gran dominatore. Orbene, siccome l'autorità di chi impera si esercita per mezzo del linguaggio, in Nembrot fu condannato il peccato di superbia, di modo che non fosse inteso nel comandare agli uomini chi non volle ascoltare per ubbidire al comando di Dio. Questo pensava S. Agostino nel suo De Civitate Dei, questo pensavano gli esegeti posteriori, questo, naturalmente, pensava D. (p. 14). Ma come sarà stato questo linguaggio di Nembrot? La teoria, comunemente accettata nel M. E., era che le lingue babeliche, e fra queste, dunque, anche quella peculiare di Nembrot, fossero una distorsione morfologica della lingua primigenia, cioè, dell'ebraico; e D. non poteva sottrarsi, per scrupolo di ortodossia, alle dottrine correnti, perchè già da secoli se n'era fatto un caso teologico, nettamente posto e categoricamente risolto: Iddio non avrebbe potuto formare linguaggi nuovi nella confusione babelica, perchè avrebbe fatto opera diretta di creazione oltre le sei giornate di lavoro, mentre la Bibbia narra che nel settimo giorno si riposò (pp. 17-18). E D., dunque, non fece che prendere i soliti glossarî di Papia e d'Uguccione e il Liber de nominibus ebraicis di San Girolamo e sceltene come le più frequenti e ovvie (cfr. 25-28) le parole: Raphaim man amalech zabulon aalma, le alterò e ne formò il linguaggio di Nembrot: Raphel mai amec zabi aalmi (come par si debba leggere e non almi). Che cosa

ha voluto significare Dante con queste parole? Facendo il cammino inverso che deve aver fatto lui, e ricorrendo ai glossarî vien fuori questo senso: « Gigantes (Raphaim), quid? (man) relinquitis (amalech) habitaculum (zabulon) excelsum (alma)?» Sarebbero le parole di sorpresa e di rabbia che Nembrot pronunciò quando vide le sue genti abbandonare improvvisamente la gran torre di Babele (pp. 37-38); e che tale sia l'atteggiamento in cui piace a D. di raffigurarsi il gigante lo provano a meraviglia i vv. 34-37 del XII Purg., in cui appunto, nel cerchio dei superbi, descrive il bassorilievo di Nembrot.

Non propriamente glottologico è il terzo opuscolo del Guerri sul piè fermo, che però è ispirato allo stesso metodo di cercare la spiegazione di D. nella scienza del suo tempo. Spese, dando contro al Flamini, 32 pagine del suo scritto per provare che nel I Inf., 29. piaggia è « terreno uniformemente pendente del fianco di un monte » (p. 32), il Guerri produce avanti i libri De incessu animalium di Aristotele e De causa motus animalium attribuito a Aristotele e De motibus animalium e De principiis motus processiri di Alberto Magno, dai quali resulta che, secondo la scienza del M. E., l'animale, per camminare, ha bisogno di una parte che stia ferma, mentre l'altra si muove; che cioè una faccia da fulcro e regga essa il peso della persona, per lasciar libera l'altra d'avanzare (p. 37). Orbene, quando si parla della parte fulcro, sono usate le espressioni: illud quod quiescit, manet, stat, immobile est, o pars quiescens, manens immobilis, o illud quod stabile est, quod stat immobile, basis fixa ecc.; e queste frasi come meglio D. poteva renderle se non col suo piè fermo, in contrapposizione dell'altro che si moveva? Verò è poi che il piè fermo non è sempre il più basso, e che nella prima metà del movimento, è anzi più alto della gamba che si muove; ma ben nota il Guerri che « plasticamente la figura di uno che sale si coglie piena<< mente quando è massimo il distacco fra il piede che purta e l'altro « che sta a sua volta per divenire il fulcro del movimento; cioè << quando il piede avanza, non quando va dietro l'altro per raggiun<< gerne l'altezza » (p. 45).

Firenze.

ARNALDO DELLA TORRE.

NOTIZIE

Storia generale e studî sussidiarî.

Il dr. UGO FANCELLI studia, in un volumetto edito dalla tipografia Nuova di Siena (1906), Le imprese militari di M. Tullio Cicerone durante il suo proconsolato in Cilicia, col proposito di dare << un giudizio definitivo ed imparziale » sull'oratore « considerato come uomo di guerra », e come tale giudicato dal Fancelli << una delle figure più caratteristiche della Roma antica ». Caratteristica veramente poco lusinghiera, se egli riesce da una parte << un ridicolo Fabius Cunctator », dall'altra un «< curiosissimo miles gloriosus ». Meglio provvide alla sua fama colle virtù amministrative e diplomatiche, a cui, come già Guglielmo Ferrero, anche il Fancelli rende completa giustizia. A. A. B.

È uscito, pei tipi dell'editore Otto Harrassowitz di Lipsia (che ne cura la vendita esclusiva), il primo volume di un'opera interessantissima, dal titolo: Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell' Oriente Francescano (1215-1300). Ne è autore il ch. P. G. GoLUBOVICH, già noto per altri importanti lavori sulla storia delle Missioni francescane in Oriente. Della utile pubblicazione daremo in altro fascicolo più ampia notizia.

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Eine Streitschrift aus den letzten Lebensjahren des prof. Heinrich von Langenstein († 1397). Sotto questo titolo il dr. GuSTAVO SOMMERFELDT, di Koenigsberg, ha pubblicato, con molta diligenza, nel primo fascicolo, annata XLV, delle Mittheilungen des Vereins zur Geschichte der Deutschen in Boehmen, una scrittura, rimasta fin qui inedita, del noto polemista del tempo del grande Scisma, Enrico di Langenstein. Questa operetta ha la forma di lettera, ed è indirizzata a Giovanni di Lichtenstein, maestro di corte del Duca Alberto d'Austria. L'A. crede con buone ragioni di poter assegnare a questa lettera la data del 1394. È un curioso documento, specie per la notizia che ci dà di un'altra « invettiva » anonima, ora perduta; e in generale per lo studio di quella letteratura che sorse numerosa ne' varî campi in cui era divisa allora la cristianità.

A. G.

È uscito alla luce il vol. X dell' Epistolario di L. A. MURATORI, edito e curato da MATTEO CAMPORI Modena, coi tipi della Società tipografica modenese, MCMVI, pp. XXIV e 4241-4740. Abbraccia gli anni 1742-1744. È preceduto, al solito, dalla Cronobiografia muratoriana [3 gennaio 1742-31 decembre 1744]; le lettere dal numero 4480 arrivano al numero 5040. Ne contiene dunque 560. Tra le persone alle quali sono indirizzate ricorderemo: Filippo Argelati, Gian Andrea Barotti, Girolamo Baruffaldi, Benedetto XIV, Alessandro Pompeo Berti, Giovanni Bottari, Angelo Calogerà, Daniele Concina, Francesco III d'Este, Anton Francesco Gori, Giovanni Lami, Domenico Maria Manni, Gian Maria Mazzuchelli, Angelo Maria Querini, Salvino Salvini, Nicola Tacoli, Fortunato Tamburinį, Gio. Grisostomo Trombelli e Giacinto Vincioli. G. S.

Ad iniziativa di alcuni dotti ecclesiastici, coadiuvati da molti illustri scrittori laici di cose storiche, si è cominciata la pubblicazione (Roma, S. Maria Nuova, 1906) di una Rivista storica Benedettina. la quale si propone di dare in luce, con speciale riguardo alla storia d'Italia, una serie continua di studi storici, filologici, religiosi, critici. artistici, biografici, che valgano ad illustrare esattamente e compiutamente questa grande comunità monastica, che visse attraverso i secoli operando e beneficando. Questa pubblicazione riguarda l'Ordine Benedettino nelle singole congregazioni che seguirono e seguono la regola di S. Benedetto, siano esse ancora in vigore od estinte: i Cassinesi, i Sublacensi, i Cluniacensi, i Cisterciensi, i Camaldolesi, i Vallombrosani, i Silvestrini, i Celestini, i Virginiani, gli Olivetani, ecc.

La rivista comprende le seguenti rubriche: memorie e studi originali di storia e letteratura benedettina, con opportuni confronti col monachismo antecedente e susseguente a S. Benedetto; varietà di documenti agiografici, letterari, biografici; letteratura recente, con recensioni delle opere che si riferiscono in qualche modo alla storia benedettina; cronaca del movimento moderno scientifico, letterario, storico dell'Ordine Benedettino, nelle nuove pubblicazioni, nei periodici italiani e stranieri, in Europa e in America; e sommario delle Riviste Benedettine.

Dei due primi fascicoli sin qui pubblicati segnaliamo il bellissimo articolo di E. ODESCALCHI, l'arte dell'intaglio e della tarsia e fra Giovanni da Verona, ricco di illustrazioni, e gli altri due molto interessanti del P. LUGANO, i fondatori di Montoliveto, ecc., e delle più antiche costituzioni monastiche di Montoliveto.

G. D. A.

PIEMONTE.

Storia Regionale.

FERRETTO ARTURO, Documenti intorno alle relazioni fra Alba e Genova (1141-1270). (Bibliot. della Società storica subalpina, XXIII: Corpus chart. Italiae, XIV). - Pinerolo, Chiantore-Mascarelli, 1906; 8, pp. IV, 307. La raccolta fatta dal Ferretto ha una notevole importanza per la storia del commercio e della civiltà di Genova e del Piemonte cispadano nei sec. XII e XIII. Sono infatti bolle, trattati, transazioni, patenti e concessioni, vendite, mutui, obbligazioni, procure, quietanze e ricevute, sentenze ec., che si riferiscono alla vita quotidiana, ai traffici e alla politica di Genova con Alba e con tutte le terre e città che la circondano, quali Cuneo e Mondovi, il marchesato di Ceva e di Cluvesana, i signori di Garessio e di Ormea, Savona e Albenga. Trattano così di affari convenuti nella città stessa di Genova con persone di Alba, come delle fiere della Champagne, dei commerci di Provenza, d'Africa, di Terrasanta; e dimostrano insieme tutta la vastità delle relazioni di Genova, e l'attività dei suoi abitanti e di quelli di Alba. Chi voglia farsi un concetto esatto dello stato di quei popoli, dell' intensità e della natura delle loro relazioni, della varietà dei loro traffici, non può non consultare vantaggiosamente il lavoro del Ferretto; il quale in una breve ed erudita prefazione accenna non solo all'importanza della presente sua fatica, ma altresi a quella che avrebbero consimili raccolte fatte per Asti, Tortona, Vercelli, Piacenza e la Lombardia. E noi, pienamente persuasi, non sapremmo meglio conchiudere questo breve annunzio che col fare voti ardenti perchè presto vengano alla luce questi altri corpi di documenti, a recare un altro notevole contributo alla storia della nostra civiltà. E. C.

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Nella Rivista Militare Italiana (disp. V e VII, 1905), ARTURO SEGRE ha pubblicato una pregevole monografia sulla Campagna del Duca d' Alba in Piemonte nel 1555. Le notizie, pur copiose, che si hanno su quel fatto dagli scrittori contemporanei o posteriori agli avvenimenti, difettano per parzialità di giudizî, perchè le passioni nazionali hanno più o meno influito sull'animo loro. Il S. ha quindi creduto utile di ricorrere, per correggere i loro errori e raccontare le vicende della guerra con criterio puramente obbiettivo, alle fonti inedite, che esistono in buon numero negli Archivi di Modena, Mantova, Venezia e Torino. Spiega con sicure prove documentate le ragioni dell'insuccesso del duca d'Alba, il malanimo degli italiani verso di lui a causa del suo carattere orgoglioso e crudele; la scarsezza di soccorsi d'uomini e di danaro da parte

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