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zione liberamente stipulata tra due paesi. Orbene, questo stesso carattere si riscontra nei trattati delle nostre repubbliche commerciali e particolarmente in quelli di Venezia. Il Pertile credo fosse tra i primi ad indicare queste norme di estradizione in alcuni dei trattati di Venezia nel Medio Evo, sui quali però egli non credette opportuno di fermarsi (1). Non altri, che io mi sappia, dopo il Pertile, trattò dell'argomento (2).

II.

Prima di dire dei trattati che contengono norme di estradizione è lecito chiederci, se un'elaborazione scientifica preceda il sorgere dell'istituto, o se esso, sorto da necessità pratiche, sia stato regolato nel suo svolgimento dall'opera di giuristi.

(1) A. PERTILE, Storia del diritto italiano, vol. V, pp. 127 e segg., Torino, 1892 (2a ed.). Non è fuor di luogo ricordare, come il Mancini avesse accennato in una circolare del 1881 del Ministero degli Affari Esteri come l'estradizione fosse gloria dei nostri Comuni medievali.

(2) Delle monografie sulla estradizione abbastanza recenti, quella di COSTANTINO CASTORI (Il diritto di estradizione, in Atti della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Modena, anno 1886, vol. IV) nulla o quasi dice del periodo medievale. Qualche buona osservazione sui mercanti che si sottraevano con la fuga ai loro creditori e sulla necessità di norme internazionali per porvi rimedio è nel noto libro del LATTES, Il diritto commerciale negli Statuti delle città italiane, Milano, Hoepli, 1888, p. 328. De I trattati di commercio di Firenze nel secolo XIII scrisse G. ARIAS (Firenze, Succ. Le Monnier, 1901), che ebbe occasione di far parola dell'estradizione per ciò che riguarda Firenze nel XIII secolo. Anche VITTORIO A. MARCHESINI ne fa cenno in qualche paragrafo del suo opuscolo: Commercio dei Veneziani nel territorio di Verona ai primi tempi della dominazione scaligera, 1269-1329 (Verona, 1881). Un trattato di estradizione tra Venezia e Padova del 1345 fu pubblicato ed illustrato da G. BEDA nel volume In memoria di Oddone Ravenna, Padova, Gallina, 1904. Un altro trattato di estradizione fra Ancona e Venezia del 1340 fu pubblicato recentemente da G. LUZZATTO in appendice di un ottimo articolo su I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane, in Nuovo Archivio Veneto, Nuova Serie, to. XI, parte I, p. 86. Cenni sparsi sull'argomento sono nelle storie del commercio di Venezia.

In quanto alla prima parte del quesito è facile rispondere negativamente, osservando che mentre le prime norme sull' estradizione si possono indicare in trattati dell' VIII secolo, non abbiamo per quel tempo tale sapienza giuridica e filosofica, che, movendo dal principio di un'elevata funzione della giustizia a vantaggio di tutti gli Stati, consigli l'estradizione.

In quanto alla seconda parte del quesito giova una breve rassegna delle opinioni dei principali giuristi medievali.

I glossatori, seguendo rigidamente il testo romano, nè trovando in esso che massime indirettamente contrarie all' estradizione, erano naturalmente avversi all'istituto, anche se questo apparisse in certo modo legittimato dalla pratica. Ed è così che ad Accursio e ad Odofredo ricorrono i giuristi posteriori della fine del XIII secolo, che, come Alberto da Gandino, sostengono illegale l'arresto del reo nel paese dove egli si è riparato (1). Il magistrato di quel luogo non è stato, secondo tali giuristi, offeso dal delitto compiuto fuori della sua giurisdizione, e perciò egli deve disinteressarsene: « iniuria facta alteri nemo vindicare potest », conclude Alberto da Gandino (2).

Nè Bartolo nè Baldo intaccano il principio della territorialità del diritto di punire (3). Bartolo fa una eccezione, ammessa poi anche da Baldo, per il ladro fuggitivo, che sia arrestato con la refurtiva: di questa egli consiglia il sequestro e la consegna allo Stato in cui avvenne il furto, non però l'estradizione del reo. Ma se

(1) ALBERTI DE GANDINO, Tractatus de maleficiis, Venetiis, H. Lilius, MDLX, p. 231, p. 289. L'opera è attribuita da alcuni al suo maestro Guido da Suzzara († 1299).

(2) Id., p. 290.

(3) BARTOLI A SASSOFERRATO, Commentaria in secundam Digesti novi partem, Venetiis, apud Juntas, 1590, to. VI, p. 116. BALDI PERUSINI, De Statutis, in Tractatus illustrium in utroque tum pontificii tum caesarei etc., Venetiis, 1584, to. II, c. 106'.

il ladro, aggiunge Bartolo, ha convertito l'oggetto rubato in denaro, questo non gli può essere sequestrato (1).

Questa eccezione per il ladro fuggitivo è notevole, poichè sarà ricordata da qualche giurista, come Martino dei Garati (circa il 1428), che, pur essendo seguace di Bartolo, volle sostenere l'ingiustizia, dell'impunità accordata al reo fuggitivo. Egli, con gli argomenti di Bartolo sul sequestro della refurtiva, legittimava l'arresto e la consecutiva estradizione di alcuni contadini di Vercelli, che, commesso un omicidio, si erano riparati a Novara (2). L'estradizione era stata richiesta dal Duca di Milano, nè a quanto pare era fatta in virtù di precedenti trattati di estradizione.

Chi però prima di Martino dei Garati merita di essere ricordato per avere impugnato il principio della territorialità del diritto di punire è Iacopo da Belvisio (1270-1335). Egli cita un caso analogo a quello ricordato da Alberto da Gandino, e conclude in modo affatto contrario (3). La sua teorica però non è seguita dai giuristi contemporanei: di essi ricordo Nello da S. Geminiano; il quale sembra dapprima che riconosca la necessità di ammettere l'estradizione, osservando: « satis aequitati con<< sonum quod fur puniatur ubi deprehenditur cum furto «< vel ad principalem locum delicti remictatur, maxime quia sic discurrens videtur vagabundus, ut Codex ubi « de criminibus agi oportet ». Nello però, dopo di avere svolto le ragioni suddette, incespica in altri argomenti contrari e conclude non ammettendo l'estradizione (4).

(1) BARTOLO, op. cit., p. 116', sotto il titolo Furtum faciens Florentie si reperitur hic Mediolani cum furto potest hic puniri.

(2) In ZILETTI, Criminalium consiliorum seu responsorum ec.. Venetiis, MDLX, vol. I, p. 118.

(3) In ZILETTI, Criminalium ec. cit., vol. I, p. 7.

(4) In ZILETTI, Volumen praeclarissimum ac in primis omnibus iurisperitis pernecessarium ac utilissimum omnium tractatum criminalium etc., Venetiis. Bertano. 1560, p. 180 (una seconda ediz. è del 1580).

Degli stranieri il Covarruvio, il Bartolo spagnuolo, come fu chiamato (1512-1577), pur essendo in massima contrario all'estradizione, tuttavia fa eccezione per i più gravi reati che, impuniti, sarebbero di grave scandalo e di stimolo ad altri delinquenti, e recherebbero così danno non solo al paese in cui sono stati commessi, ma « cui<< libet reipublicae et denique totius orbis detrimentum « allatura » (1). Notevole questa concezione del delitto e della giustizia al di sopra dei confini dei singoli Stati ; ma quanto tardi! Nella pratica questi principî già da un pezzo erano osservati, pur non essendo derivati da astrazioni filosofiche.

Prima di lasciare questo argomento è bene riassumere brevemente le ragioni dell'avversione dei giuristi al nostro istituto. Esse possono ricercarsi : 1o nella forza della tradizione romana; 2o nella concezione del delitto come offesa fatta al magistrato del luogo e non all'umanità; 3° nel pregiudizio che la sovranità di uno Stato fosse diminuita dalla consegna di un reo fuggitivo; 4o nel sistema della confisca dei beni esteso alla maggior parte dei reati; la qual cosa faceva sì che uno Stato, eseguito il sequestro dei beni, poco si curasse dell' impunità del reo. Quest'ultima ragione, forse per l'indole sua pratica, era stata la più efficace. Senonchè quando in una società predomina l'elemento commerciale, e la ricchezza quindi è soprattutto mobiliare e perciò facile a nascondersi, allora la confisca non è sempre possibile, o per lo meno non è più il mezzo di pena più sicuro per il risarcimento di danni.

Pertanto chiaro si vede, come in città commerciali, quali i nostri Comuni del Medio Evo, più per ragioni pratiche che per considerazioni filosofiche, sorgesse l'estradizione per i reati di furto, quasi prima o contempora

(1) Il passo è citato, senza però indicazione precisa, dal CASTORI in op. cit.. p. 258. Dei giuristi egli cita solo il Gotofredo e il Covarruvio.

neamente all'estradizione dell'omicida. Proprio il contrario di quel che avvenne nel campo scientifico, dove ragioni d'indole filosofica indussero i giuristi ad ammettere prima l'estradizione dell'omicida e molto più tardi quella del ladro.

III.

È stato molto bene osservato a proposito della rappresaglia che « i primi indizî della legislazione su questo << istituto non si trovano in mezzo alle popolazioni più « barbare, nè più lontane da ogni centro di cultura, ma << in Italia, ove più intenso era stato l'incivilimento, e << particolarmente in quelle provincie, in cui la vicinanza << dei Greci aveva impedito che si spegnesse ogni bar<«<lume di civiltà » (1). Lo stesso può dirsi per i primi indizi dell' estradizione; non che essa derivi dal diritto romano-bizantino, ma da quello stato di civiltà in cui le relazioni con i Bizantini avevano posto particolarmente alcune città del Tirreno e dell'Adriatico. Più che le memorie del passato sono i commerci impresi con i paesi bizantini, che svilupparono, con la ricchezza, quella civiltà regolatrice dei nuovi rapporti tra popolo e popolo. I quali, mercè il commercio, apparirono sotto forma nuova : lo Stato vicino non fu più considerato come nei tempi antichi un nemico che accoglie i nemici dell'altro, o di cui molesta i cittadini, ma come un campo di attività, in cui possono coesistere interessi comuni da tutelare con reciproche concessioni e garanzie.

Queste condizioni appunto di vita economica e politica delle città marittime del Tirreno ci illustrano in parte le cause per cui nell' 836 Amalfi, Sorrento e Na

(1) A. DEL VECCHIO ed E. CASANOVA, Le rappresaglie nei Comuni medievali e specialmente in Firenze, Bologna, Zanichelli, 1894, p. 61.

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