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I.

Nella Divina Commedia son problemi non ancóra risoluti. Alcuni di essi hanno importanza secondaria, quali, per esempio, le parole di Pluto, quelle di Nembrot, i quattro cerchi, la concubina, ecc.; altri, invece, sono d'importanza capitale nell' intendimento del Poema, perché son parte integrante del gran tutto. Fra questi il primo, che ci si para dinanzi, è quello delle tre fiere, sul cui significato anche ora, dopo tanti secoli di discussioni, i critici e i dantisti non si son potuti metter d'accordo. ¡Ma questo problema riesce più difficile, perché ne contiene un altro; quello del significato reale della lonza: sappiamo che animale sia il leone, che altro animale sia la lupa ma non abbiamo ancóra assodato che razza di bestia sia la lonza! È chiaro, dunque, che per venire a risolvere il problema del significato allegorico delle tre fiere, bisogna prima risolvere quello del significato reale della prima.

La discordia intorno ad essa comincia fin dai primi commentatori; i quali affermano senza preoccuparsi di provare : le Antiche chiose anonime la dicono leonça senz'altro: il Falso Boccaccio anche leonza; il Lanco: «Questo animale è molto leggiero e di pelo maculato a modo di Leopardo »; Pietro riporta il passo di Virgilio, maculosae tegmine lyncis, mostrando

cosí di credere che sia la lince; l'Anonimo: Questa Lonza, overo Liopardo »; l'Ottimo: « Lonza (che è Pantera »); il Buti: «... che è la femina di quello animale che si chiama pardo»; il Boccaccio: «Una leonza, o lonza che si dica»; Benvenuto, infine (l'unico che si preoccupi della questione), dice che la lonza può esser la lince, il pardo ovvero la pantera! Come si vede, una gran confusione di animali, che hanno la particolarità comune di essere maculati. I commentatori moderni si preoccupano del significato allegorico, piú che del reale, accettando indifferentemente questa o quella identificazione. Ma, per non andar troppo oltre, una vera ricerca non si è fatta mai, se non recentemente, la quale ci permettesse di giungere a conclusioni quasi sicure. Profittando di una lettera del compianto e genial naturalista M. Lessona, che volle mostrar come la fiera descritta da Dante corrisponde più al leopardo o alla pantera, che alla lince, il chiaro dantista F. Cipolla, gli diresse una lunga lettera ;' nella quale, pur consentendo che per Dante la lonza fosse una bestia indeterminata, che risulta dalla fusione della lince, conosciuta letterariamente, e della pantera; conchiudeva sempre che Dante ebbe gli occhi alla lince virgiliana. La sua lettera provocò osservazioni

1 Rass. bibliografica, III, 103 segg.

L.B,

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acute del Guarnerio e del Casini, che conchiuse per il pardo; ad alcuna delle quali acconsentí lo stesso Cipolla,' arrivando a riconoscer la confusione di lonza e pardo, salva sempre facendone la derivazione letteraria dalla lince. Altre osservazicni fecero il Pellegrini, il Parodi, il Torraca e il Capelli Finalmente, lo stesso Cipolla recò un altro notevole contributo con un passo della vita di s. Ranieri, in cui le iene son dette lonze. Tutte queste discussioni e osservazioni sono riassunte con quella parsimonia e lucidità, caratteristiche di ogni suo scritto, dall' illustre maestro F. D'Ovidio, nello studio su le tre fiere; nel quale giustamente si preoccupa di tale quistione, conchiudendo per la lince; mentre il Pascoli, pur recentemente, crede indifferente pel suo assunto il veder nella lonza la lince, la pantera o il pardo, quantunqne poi si fermi piú favorevolmente alla pantera.

Finalmente, il Chistoni, in un notevole studio, intitolato appunto come questo mio,10 riassume di nuovo la questione, e si ferma sul pardo, a cui però attribuisce le qualità, che il biografo di san Ranieri attribuisce alle iene da lui dette lonze, e quelle che Iacobus de Vitriaco attribuisce ad un incerto animale da lui detto lonzano. C'è, dunque, una larga discussione sull'argomento; della quale io profitterò, compiendola e chiarendola con alcune mie osservazioni e ricerche.

Anzitutto, a me sembra che in tal questione si sia confusa la derivazione letteraria e dottrinale della lonza dantesca, con la conoscenza popolare. E che di conoscenza popolare si debba trattare, appar da questo, che, se Dante avesse voluto dire lince, pardo, pantera, ecc., avrebbe detto lince, pardo, pantera, ecc. È chiaro? Perché, allora, disse lon

1 Rass, bibliogr. III, 139-40, 203-4.

2 Bull. d. Soc. dant., II, 106 segg.

3 Rass. bibliogr., III, 205-6.

Bull. d. Soc. dant., III, 24.

5 Bull. d. Soc. dant., III, 25.

6 Bull. d. Soc. dant, II, poi in Di un commento nuovo alla “D. C„, Bologna, Zanichelli, 1899, pagg. 6-8. 7 Giornale dantesco, VII, 355-6.

8 F. D'OVIDIO, Studii sulla “ D. C. Milano-Paler

mo, Sandron, 190 (320 segg.).

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9 G. PASCOLI, Sotto il velame, Messina, Muglia, MCM› 147-162. Lo stesso crede il FLAMINI, I significati, ecc. I, 210.

10 Estr. dalla Miscellanea di Studi critici edita in onore di A. Graf (817-848).

za? Evidentemente, per additare un animale che fosse conosciuto! Ma, dall'altra parte, se questo animale chiamato lonza noi non troviamo in nessun trattato dottrinale, a cui attingevano i dotti medievali, e Dante era appunto fra questi; ne consegue che il Poeta chiamò lonza un animale, che i trattatisti chiamavano diversamente, ed a cui il popolo avea affibbiato quel nome. Quindi, se Dante intendeva nello stesso tempo d' indicare l'animale, che il volgo chiamava lonza, e quello che, secondo lui, nei trattatisti a quel nome corrispondeva; ne consegue logicamente che, se anche il popolo s'ingannava nella sua indicazione, Dante, usando quel nome, per condiscendenza al volgo, teneva però in mente un animale, che nei trattati corrispondeva nelle sue caratteristiche a quello che, secondo lui, il volgo indicava col nome lonza.

Perciò, duplice deve esser la ricerca: si deve prima ricercar quale bestia più o meno probabilmente il popolo intendesse di significar col nome lonza; poi indagar a quale bestia potesse pensar Dante, rappresentando quell'animale che egli chiamò lonza. E saremo fortunati se l'una e l'altra ricerca meneranno allo stesso punto, e se potremo cosí accordarci con la fonte sicura, da cui Dante trasse le tre fiere, cioè il noto passo di Geremia.

Ché, senza entrare per ora nel significato simbolico e pure arrestandoci al significato letterale, io credo che sarà fatto un gran passo innanzi con l'assodare quale bestia deve vedersi nella lonza dantesca. Perché dal significato letterale con sicurezza fissato potremo, con miglior agio e con più sicurezza passare, al significato allegorico delle tre fiere.

II.

Cominciamo dall'esame della conoscenza po

polare.

Donde deriva il nome lonza? Qui è la prima e piú grave quistione ! La piú autorevole opinione è che il nome lonza derivi dal latino lynx, lincea, come sostennero il Cipolla e il Guarniero e confermò con la sua grande autorità il D'Ovidio. Il francese once e lo spagnuolo onza avranno perduta l'iniziale, perché scambiata per articolo; mentre in italiano s'ebbe

pure leonza, per saccenteria popolare, come in leofante, liofante, ecc. Questo fatto dirimerebbe súbito la quistione in favor della lince: se non che, neppure questa etimologia è sicura, una volta che a quell'ingegno sottile e meditativo del D'Ovidio sono venuti degli scrupoli, i quali menano persino alla conclusione che lonza possa anche non derivar da lynx, ma che la rassomiglianza fonica dei due nomi possa aver favorito lo scambio tra la lince e la lonza. Siamo, dunque, ben lontani dalla certezza!

Un'altra via fu tentata dal Casini. Il quale, rifiutando l'etimologia suddetta e respingendo anche che leonza sia un effetto di assimilazione analogica popolare, come in leofante, leocorno, ecc., crede che la base etimologica di leonza debba porsi in leo, sia che risalga a leonteia, col senso di bestia leonina, sia che abbia a riportarsi, come gli pare piú probabile, a leonicia, quasi piccola leonessa, e rimanda allo Zambaldi, Voc. etim,, 717, B. A lui si oppone vivamente il Guarnerio (da cui ho tratto le precedenti parole), conchiudendo che leonteia è un errore dello Zambaldi, ripetuto dal Casini, e soggiungendo che di un maschile leontius nel volgar latino non abbiamo traccia, né gli pare attendibile. Ma un nuovo contributo a questa etimologia è stato recato ultimamente dal Chistoni; il quale cosí scrive: << Parrebbe che la parola lonza, derivata dalla forma più ampia leonza, abbreviatura della primitiva leonzia, come da noi si pronunziò e si trascrisse il vocabolo latino leontia, fosse etimologicamente un ibrido femminino dal neutro λεόντιον, diminutivo di λέων. Ε però louza varrebbe quanto piccolo leone, leoncino. Sennonché nei lessici troviamo registrato, come formazione immediata dal tema leovt, l'aggettivo λεοντεία, femminile di λεόντειος, trascritto in latino leonteus. Ma ricorre anche λeóvτLOS, reso in latino con leontios; donde non fu difficile trarre leontra. Cosí ogni concetto di diminutivo è fuor di luogo, tanto che, a meno di considerare il qualificativo λeóvta (leontia) come sostantivato e sinonimo di Xéxva (leaena), le forme leonza e lonza, e le primitive da cui originarono, significheranno semplicemente bestia leonina, affine, cioè, al leone». E in nota aggiunge: «Per leonteus e leontios cfr. FUL

1 Cfr. Op. cit., pagg. 585-7.

&

GENTII PLANCIADIS Hyth., 1. III, fab. 1* :<< leontea virtute», e PLINII, Nat. Kist. XXXVII, 73: « A leonis pelle et pantherae.., leontios, pardalios ».

Confesso francamente la mia pochezza in fatto di etimologie; ma non so nascondere la propensione che ho verso il ragionamento del Chistoni,' perché esso viene confermato in fine dal risultato delle mie ricerche.

Comunque fosse, sia che leonza derivasse per saccenteria popolare da lonza, sia che la forma primitiva fosse leonza, da cui poi derivò la forma contratta lonza, (sia e mettiam pure quest'altra ipotesi, benché possa sembrare strana!) che le due forme derivassero da due nomi differenti, e che poscia fossero confuse; il certo è che la confusione e la coesistenza dei due nomi nel volgare è stata dimostrata dal Casini. Essa si vede, non solo dai luoghi già addotti dei commentatori e dagli esempî recati dei poeti del tempo, anche da questo, che alcuni codici danteschi hanno pur leonza o lionza, invece di lonza; per errore dei copisti senza dubbio, ma che mostra l'identità dei due termini. Data la quale si poté ben credere che la forma primitiva fosse lconza e la contratta e derivata lonza.

Del resto, da qualunque parola derivassero lonza e leonza, noi non ci dobbiamo preoccupar piú che non ne convenga; poiché, come dice lo stesso Guarnerio, « che una voce denotante prima la lince passi poi a indicare invece il pardo o leopardo o pantera, non fa davvero difficoltà. Quante e quante voci in bocca del volgo, una volta perduta la coscienza della loro origine, passarono ad esprimere concetti e cose differenti e perfino opposte a quelle da cui pure avevano prese le mosse ! » Ma qui sta appunto il nodo della questione: scoprire quale animale il popolo indicasse col nome lonza o leonza che sia !

Abbiam visto che, ad eccezione di Pietro, il quale si preoccupa solo dell'origine letteraria dalla lince virgiliana, degli altri commentatori, ognuno ha la sua opinione: chi vuole sia il pardo, chi il leopardo, chi la pantera.

1 Non so se possa giovare all'assunto il rilevar che nel Roman de la Rose (vv. 9500, 9504) il nome Leonzio è riprodotto in Leonce.

2 Cfr. Esemplare della "D. C. donato da Papa Lambertini, ecc. a cura di L. Scarabelli, Bologna, Romagnoli, 1870.

Il solo Benvenuto da Imola si occupa piú largamente della quistione, dandoci anche qualche notizia preziosa. Egli scrive: «Tria sunt animalia praecipue habentia pellem variis maculis distinctam, scilicet lynx, sive lynceus, qui vulgariter dicitur lupus cervarius, pardus et panthera ». Ma egli crede che la lonza dantesca sia il pardo, secondo l'uso fiorentino, rafforzato da una testimonianza del Boccaccio: << Credo quod auctor potius intelligat hic de pardo, quam de aliis. . . quia istud vocabulum Florentinum lonza videtur magis importare pardum, quam aliam feram. Unde, dum semel portaretur quidam pardus per Florentiam, pueri concurrentes clamabant: vide lonciam, ut mihi narrabat suavissimus Boccatius de Certaldo ».

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« Ceres fece diventare colui che gli volle forare il petto, una pantera...». Ma altrove, e proprio al luogo ove si descrivono gli animali al séguito di Bacco (Met., III, 688 segg.), il Simintendi traduce (I, 141): « dintorno al quale giacciono i tigri, e varie imagini di lupi cervieri, e crudeli corpi di macchiate (si noti qui pictarum tradotto con macchiate) pantere». Qui lince è tradotta con lupo cerviero. Finalmente, altrove (Met., XV, 413), dove Ovidio parla delle linci date dall' India a Bacco, il Simintendi traduce (III, 226): « India vinta diede a Bacco racimoluto le linche ». Le linche? Che cosa sono le linche? Ognun vede qui il vocabolo latino malamente italianizzato, perché vi si è serbata anche la gutturale derivata dalla terminazione alla greca usata da Ovidio (lyncas-λyxúxs). Ora, in questi brani non si può ammettere nessuna confusione delle linci e delle pantere, perché sono distinte là, dove le prime son dette lupi cervieri: quello che si deve ammettere di sicuro è che il Simintendi non sapea con precisione a quale animale corrispondesse la lince, perciò si sostitui questo o quell'animale: la prima volta la pantera, la seconda il lupo cerviero (e indovinò), la terza, non sapendo dove dar di capo, riprodusse il nome tal quale.

Da questo brano di Benvenuto ricaviamo: 1o che la iena non è posta fra le bestie dalla pelle maculata; 2° che la lince volgarmente era detta lupo cerviero; 3° che col nome lonza i fiorentini indicavano il pardo, piuttosto che altro animale, ciò che vuol dire che non si esclude che talvolta ne indicassero un altro!

E cosí, infatti, risulta dalle mie ricerche !

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Ma l'importante è questo: che egli giammai tradusse lince con lonza; ciò vuol dire che quel nome lonza o leonza egli non credea affatto corrispondente a lince.

Nella vita di san Ranieri si dice: « In ipso deserto reperit duas hyaenas, quas vulgus vocat lonzas... ». Dunque, la lonza è la iena? Niente affatto: perché, a prescindere dal fatto che la iena è differente assai dagli altri animali, che il popolo poteva confondere nel nome lonza, ma della iena i nostri antichi avevano una conoscenza dottrinale, la quale la distingueva nettamente dalle altre bestie in quistione, perché le si appropriavano qualità speciali molte e singolari, ma non quella della pelle maculata, come vedremo nella seconda parte di questo esame. Quindi, il passo della vita di san Ranieri deve essere un errore.

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Ma in compenso c'è dell'altro. Negli Ammaestramenti degli antichi, fra Bartolomeo da S. Concordio (De corporis pulchritudine, 8) raccoglie il detto di Boezio: «Si lynceis oculis homines uterentur...», e traduce: « Se gli uomini avessono lo vedere del lupo cerviero... ». Inoltre, il Casini citò un brano importante di Brunetto, che traduce lynx con lupo cerviero (loup cervier) e da questo distingue la lonza (l'once, che Bono Giamboni traduce leonza): « Un'altra maniera di lupi sono, che si chiamano cervieri, che sono taccati di nero come leonza, ed in altre cose sono simiglianti al lupo ». Il Cipolla notò come qui Brunetto corregga (vedremo su quale autorità!) Solino, il quale distinse la lince dal lupo cerviero attribuendo tutto al lupo cerviero; e notò pure come il paragone introdotto della leonza, faccia questa una bestia simile (in un sol dato però!), ma non identica al lupo cer

Quanto alla lince il Casini ha mostrato che gli antichi la chiamavano lupo cervicro, come ci dice appunto Benvenuto. Ciampolo degli Ugurgieri, traducendo il passo virgiliano (Aen., I, 323)

et maculosae tegmine lyncis,

traduce lynx con lupo cerviero; ma il Parodi notò che nelle volgarizzazioni delle Metamorfosi del Simintendi lynx è tradotta con pantera. Il passo è quello che racconta la trasformazione di dinco in lince (Met., V, 657 segg.), dove il Simintendi traduce' (vol. II, pag. 14):

1 Cfr. Le Metamorfosi d'OVIDIO volgarizzate da SER ARRIGO SIMINTENDI DA PRATO. Prato, Guasti, 1846-50.

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