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riprodotta parli ancor d'esse come se realmente fossero anch' esse qui riprodotte. Poichè per queste soltanto un esemplare della prima edizione aveva oggi ancora un valore, è qui inutile aggiungere che poco o nessun valore ha questa monca illustrazione così riprodotta. Eppure questo voluminoso e prezioso manoscritto meritava di meglio. Il De Batines infatti n'ebbe non saprei da chi una descrizione insufficiente, dove non anche, a dir poco, inesatta; la sottoscrizione v'è data, per esempio, così: In mense martio die 21 huius mensis liber iste inceptus fuit scribere de anno 1402, etc., mentre leggesi quivi nel codice: Liber iste Inceptus fuit scribere de âno. 1402, in mse marcij die. 21. hujus msis, etc. pur ieri si stampava che in calce (sic) al capitolo di Jacopo se ne legge l'argomento (rammodernato dal nuovo editore) e si riparlava dell'amanuense Pietro de Nibiallo: il vero è invece che il detto argomento si legge, alquanto diversamente, dinanzi al canto del filiolo di Danti, e che gli amanuensi del codice Grumelli furono due benchè uno solo sia nominato presso il De Batines. Il meglio peraltro si è che nè l'uno nè l'altro di questi ha nulla a vedere con l'amanuense dei capitoli di Jacopo e di Bosone da Gubbio; i quali — non so che l'abbia altri osservato sono trascritti, di bel carattere della seconda metà del trecento, sulle prime pagine d'un quinterno che per lo innanzi o appartenne ad altro manoscritto, o fece parte per sè stesso, e a ogni modo fu aggiunto poi al volume che costituisce il codice Grumelli.

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Il qual codice non appartiene oggi più, come si va ripetendo, alla biblioteca Grumelli, ma, per grazioso dono del possessere conte Fermo Pedrocca Grumelli, passò nel 1872 alla Biblioteca civica di Bergamo.

A. FIAMMAZZO.

Raffaele Marozzi.

Una lettera sopra l'ortografia dantesca. Siena, stab. tip. Nava, 1890, in 18°, di pagg. 14.

Benchè in ritardo, spero di arrivar sempre in tempo per plaudire ai suggerimenti in questa lettera contenuti e all'intento che li ha dettati. Dovendosi dare opera a un'edizione critica della divina Commedia, è bene che in essa sia curata anche la ortografia, allo scopo di dare il suono vero e il senso vero della espressione dantesca. Ora ciò non sempre si ottiene con la ortografia moderna, la quale, per esempio, scrive Perch' io, accciocchè il duca stesse attento, mentre a distinguere nel perchè dal senso di giacchè, quello che ha qui di per il che, e a far cadere giusto l'accento ritmico successivo, dovrebbe invece scriversi Per ch' io, acciò che il duca stesse attento (e quanto a me porrei anche, sull'ïo, una dierisi, perchè si capisse subito, senza obbligare un mal pratico a leggere il verso due volte, che l'i fa sillaba da sè, e tra l'o e l'a successiva ha luogo la solita elisione).

L'ortografia moderna fa anche un grande abuso di chè, non solo dove il nostro autore osserva non potere stare, essendo il che relativo, come gli antichi spiriti dolenti Che la seconda morte ciascun grida, ma anche, aggiungo io, ove sta per talmente che, come nel Lombardi, Chè per veder non indugia il partire, o dove sta bensì per imperocchè ma in senso leggero, mentre l'accento vi calca sopra, come nel Bianchi, Chè la diritta vïa era smarrita. E non si dica che questi sono argomenti piccini, perchè anche quella di poter leggere più correttamente e correntemente uno scrittore è una cosa la quale ha la sua importanza e di cui conviene di occuparsi. Avrei anzi molte altre cose da dire sopra questo argomento; ma sarà meglio trattarle di proposito in altra occasione anzichè così alla sfuggita.

Una sola ne accennerò, come quella che è toccata anche dal Marozzi in questo suo utile scritto, la convenienza cioè che l'accento grave sia permanentemente adibito ad esprimere i suoni aperti, e l'acuto i chiusi; su di che mi pare che oramai si sia formata una opinione pubblica abbastanza diffusa, da poterlo anche scrivere nelle grammatiche. Ed altre cose si trovano, e dette anche con garbo, in questa breve lettera: la quale merita veramente di non cadere nel dimenticatoio, ov'è così facile che i piccoli scritti vadano a finire. Perciò abbiamo creduto di far cosa utile richiamando, sia pure con ritardo, sopra di essa l'attenzione degli studiosi.

BOLLETTINO

FERD. RONCHETTI.

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Alighieri Dante. Dante s' Vulgari Eloquio. (In Saturday Review. No. 1934). Recensione favorevole della riproduzione del codice di Grenoble, contenente il trattato dantesco dell' Eloquenza volgare, curata dal Maignien e dal dottor Prompt e publicata a spese del solerte editore Leo S. Olschki di Venezia. (75 Barbi Michele. Dello studio di G. Trenta « L'esilio di Dante nella divina Commedia». (In Rassegna bibliografica della letteratura italiana. Anno I, no. 3).

Non resultati nuovi e neppur nuovi elementi di discussione reca questo libretto del signor Trenta; pur non sarà inutile agli studiosi, perchè raccoglie diligentemente e minutamente discute i luoghi della Commedia relativi all'esilio, e appunto dalle cose che di sè attesta il poeta è da muovere quando si voglia ritessere la storia della sua vita. (76

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Bonghi Ruggero. Brevi parole d' inaugurazione alle conferenze della « Società Dante Alighieri nelle sale del Collegio romano il 16 aprile 1893. (In La Cultura. Anno II della nuova serie, ni. 15-16). (77

Buscaino Campo Alberto.

II della nuova serie, ni. 11-12).

Espositiva. Cfr. no. 10.
Carraroli Dario.

Studi danteschi. (Recensione del vol. II, in La Cultura. Anno

(78

La leggenda di Alessandro Magno: studio storico-critico. Mondovì,

tip. Gio. Issoglio, 1892, in 16°, di pagg. 375.

Vi si raccolgono ed ordinano i fatti finora noti ed accertati dalla critica intorno a questo importante argomento. Nei dodici capitoli, in cui lo studio del Carraroli è diviso, son esaminati i diversi momenti ed aspetti della leggenda alessandrina da le sue origini orientali fin alli ultimi svolgimenti e rimaneggiamenti ch'essa ha avuti in occidente. L'ultimo capitolo porta un'accurata sposizione della varia fortuna del Macedone, e si chiude coll'ode ad Alessandria di Giosuè Carducci. (79 Cega Prof. Federico Barbarossa nel concetto dell' Alighieri. (In La Cultura. Anno II della nuova serie, ni. 11-12).

A proposito dei versi 118-120 del XVIII canto di Purgatorio, i quali mentre a taluni paiono tanto chiari, sono, a giudizio di altri, la croce de' comentatori. Involgono, questi versi, un'ironia fine e velata, come opinano i più, oppure, interpretati senza finzione e sottintesi, esprimono un concetto la cui giustezza ha riscontro negli avvenimenti della storia? Il Cega

è di quest'ultimo avviso: perchè Milano fu distrutta dall'imperatore per le preghiere e con l'opera degli stessi italiani nei quali l'odio di partito aveva spento ogni sentimento di compassione anche per le grandi sventure, e perchè Federico si contenne lealmente con le città della lega quand' era per stipularsi la pace di Costanza. Le trattò, infatti, come pari: cesse anzi loro il diritto di comandare nel proprio contado, di godere de' proventi fiscali, di aver propria magistratura, di tenere armi proprie, di pattuire alleanze. Ed esse gliene sepper grado: perchè, sceso in Italia col figliuolo Arrigo nel 1184 e' vi fu ricevuto onorevolmente. A Dante, che della storia avea cognizioni larghissime, dovean questi fatti esser noti: e non poteva quindi falsare egli, poeta della rettitudine, la storia. Potrebbe forse accettarsi l'interpretazione data su per giù da tutti i comentatori ai versi in discorso, se Dante avesse alluso ad un guelfo: ma Federico era ghibellino e imperatore di Germania, che è quanto dire il rappresentante del romano impero, nome glorioso e venerabile. E ancora: Federico mantenne illese sempre le ragioni dell'impero, opponendosi con severità alla smisurata ambizione degli avversari, e volle, altresì, che, senza distinzione di persona, tutti ciecamente obbedissero alle leggi; e da questa persuasione nacque probabilmente la rigida e ostinata forza del suo volere. Dante, quindi, lo dice buono, perchè nella coscienza degli uomini e nell'uso del linguaggio equivaleva a prode e a valoroso, come ne porgono belli esempi i cronicisti Malespini e Giovanni Villani. E che tale poi ei fosse stato lo asseverò il Raumer con le testuali parole: I grandi fatti dell'antichità gli esaltavano l'anima; il che era non piccolo indizio del suo valore. Ma più ancora eloquenti son le sue gesta per le quali egli vive in una leggenda popolare che fa dipendere dal suo ritorno il risorgimento dell'impero germanico. (80 Cesari Augusto. La morte nella Vita Nuova ». (Recensione in La Cultura. Anno II della nuova serie, no. 10).

Dante fu sempre attratto dall'idea della morte e dell'eternità, perchè in esse vide come un richiamo alla gloria e alla tranquillità. L'espressione di questo desiderio studia il Cesari nel suo lavoro; ma non limitandosi alla sola Vita nuova, bensì scorrendo pur le poesie de' rimatori dello stil novo, di alcuni petrarcheschi, del Collenuccio, del Leopardi, e ritrovando, qua e là, le espressioni medesime e il medesimo sentimento. Cfr. no. 46. (81

Cipolla Carlo. Cfr. ni. 92 e 98.

Curti G. Paura di un'ombra creduta, per falso vedere, una bestia. (In L’Educatore della Svizzera italiana. XXXIV, 22).

Interpreta così il verso 48 del II canto d' Inferno: La viltà, cioè la paura, talvolta ingombra l'uomo in quella stessa maniera che lo ingombra il falso vedere, cioè l'ingannarsi nel credere di vedere, una bestia laddove si vede un'ombra. Questa interpretazione è confutata nel no. 23 dell' Educatore della Svizzera italiana). (82

Eroli Giovanni. Cfr. ni. 20 e 73.

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Fiammazzo Antonio.

Fornaciari Raffaello.

Franoiosi Giovanni.

Cfr. ni. 74 e 95.

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Il sonetto del saluto nella Vita nuova »

di Dante (In Roma

letteraria. Anno I, no. 7).

Intorno al sonetto: Tanto gentile e tanto onesta pare La donna mia quand ella altrui saluta. Considerazioni estetiche qui riprodotte dalla Nuova raccolta di scritti danteschi, publicata dal Pergola di Avellino nel 1891, pag. 5. (83

- Postille dantesche. (In Bollettino illustrato di letteratura, arti e scienze, di Foggia. Anno I, no. 1).

Son le postille a' versi 9, 16, 21, 40 e 49 del III canto d'Inferno, già publicate nella Rivista critica e bibliografica della letteratura dantesca di G. L. Passerini (Roma, gennaio, 1893, pag. 17). Cfr. no. 23.

(84

Gambinossi Conte Teresa. I luoghi d'Italia rammentati nella divina Commedia, raccolti e spiegati alla gioventù italiana: con prefazione di R. Fornaciari. Firenze, R. Bemporad e f., 1893, in 16o, di pagg, 115. (85 Gioia Carmine. L'edizione nidobeatina della divina Commedia : contributo alla storia bibliografica dantesca. (Recensione firmata G. G. in La Cultura. Anno II della nuova serie, ni. 15 e 16).

È un breve lavoro che merita di essere notato. In esso l'egregio autore riassume, coordina, illustra le notizie riguardanti l'edizione nidobeatina della divina Commedia. Cfr.

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(86

Jaret Charles. La rose dans l'antiquité et au moyen âge: histoire, légende et symbolisme. Paris, Bouillon, 1892, in 16°, di pagg. X-483.

Al capitolo 3 della parte II, ove si tratta della rosa nelle leggende cristiane, l'autore osserva quanto frequente sia il paragone tra la rosa e Maria vergine nel medioevo. Quando Maria si manifesta agli uomini, rose le germogliano sotto a' piedi: ed ella se ne adorna, e salendo alla beatitudine ne lascia pieno il sepolcro. Per la verginità sua la Madonna è una candida rosa; vermiglia rosa per la sua carità. Pe' poeti religiosi ella è rosa di pazienza, rosa senza spine, rosa mistica: per Dante Alighieri è La rosa in che l' verbo divino Carne si fece. (Paradiso, XVIII, 73-74). Al capitolo 4, ov'è considerata la rosa nelle leggende profane e nella poesia, è detto che le similitudini prese da questo fiore e da le sue spine sono infinite ne' poeti medievali d'ogni paese; e Dante nostro paragona i beati ad una rosa sempiterna, Che si dilata, digrada e redole Odor di lode al Sol che sempre verná. (Paradiso, XXX, 124-126). (87 Key Helmer. Francesca da Rimini. (Recensione firmata A. B. in Fanfulla della Domenica. Anno XV, no. 21).

Il poeta scandinavo H. Key è di già benemerito dell'Italia per aver fatto conoscer nel suo paese, per via di traduzioni eleganti, la letteratura nostra contemporanea. Ora egli ha presentato al teatro reale dramatico di Stockholm un drama originale in quattro atti e in versi che pure ricorda l'Italia pel soggetto tratto dalla storia e dall'arte nostra. Il tema del nuovo lavoro è Francesca di Rimini: ma la infelice protagonista non vi è rappresentata dal Key al modo convenzionale usato pel suo drama da Silvio Pellico. L'autore svedese ha voluto accostarsi, quanto ha potuto meglio, alla realtà della storia, e si è accinto all'impresa dopo uno studio accurato delle fonti e degli scrittori da Pompeo Litta all' Yriarte e a Corrado Ricci, del quale cita l'importante libro su L'ultimo rifugio di Dante. (88

Kraus Franz Xaver. Cfr. no. 95.

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Lessona Michiele. Gli animali dell'‹ Inferno»: conferenza tenuta nella sala del Collegio romano. (Resoconto nel Popolo romano. Anno XXI, no. 141).

I grandi poeti sono sempre stati grandi naturalisti: e quando non ebber sicuro conoscimento delle cose naturali, quando non furono osservatori, mancarono di un importante elemento poetico, e riusciron manierati. Così errò il Petrarca quando fece piangere dal vedovo rosignolo la consorte: così falsi e poco veri riuscirono i serpenti di Torquato Tasso. Dante, osservatore per eccellenza, esperto di cose naturali, dotto come pochi furon dotti al suo tempo, conobbe la vita e le usanze degli animali e di questa conoscenza si valse per trarne compara. zioni ed imagini di efficacia e bellezza rare. Nè solo li conobbe per diretta osservazione, ma per studio profondo delle opere aristoteliche eziandio: dalle quali, per esempio, è tolta la perifrasi gli augei che vernan lungo il Nilo, per accennare alla gru (Paradiso, XXIV, 64-66). La lezione del senatore Lessona è stata ascoltata con molta attenzione dal publico abbastanza

numeroso che suole intervenire alle conferenze del Collegio romano, anche per parecchie nuove interpretazioni di passi della Commedia controversi, studiati, esaminati, sconvolti, straziati dai comentatori. Notevoli specialmente le seguenti. V'era una frase sulla quale tutti hanno voluto dire la loro, proponendo alterazione di virgole, ecc., là dove Dante confronta l'avvicinarsi di Paolo e di Francesca all'avanzarsi delle colombe dal desio chiamate che volano al nido con l'ali aperte e ferme. Bastava osservare, come Dante fece, che i colombi non muovono quasi per nulla le ali, per comprendere facilmente come, anche volando, queste possono restar ferme. Inoltre il Lessona ha dimostrato che Dante intuì i principii dell'embrionologia moderna, che fa riseder la vita non nel cuore ma nel midollo spinale, là dove fa dire a Bertrano da Born (Inferno, XXVIII, 139-141) che egli portava il proprio cerebro partito dal suo principio che era nel corpo, cioè appunto dall'occipite ove il midollo ha sede. Così, per inciso, il dotto conferenziere ha accennato ad un recente interprete che in colui che fece il gran rifiuto intende Pilato, che rifiutò giustizia a Gesù. (89 Levi Eugenia. - Rammentiamoci... Parte prima. Firenze, successori Le Monnier, 1893, in 16° obl., di pagg. IX-96.

In periodi di cinquant'anni, quattro per ogni secolo, sono in questa prima parte dell'utile lavoretto raggruppati moltissimi fra i personaggi più celebri che dalla metà del secolo ottavo prima di Cristo alla metà del decimoquinto dopo la venuta del Redentore ricordano le istorie. Alla pag. 84, sotto gli anni 1265-1312, è fatta memoria di Dante Alighieri. (90 Maignien. Cfr. ni. 75 e 95.

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Mandalari Mario. Cfr. no. 102.

Penoo Emilio. Cfr. no. 95.

Plebani B.

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Se il commento palatino alla divina Commedia possa attribuirsi a Talice da Ricaldone. (In Gazzetta letteraria. XVII, no. 2).

Piuttosto che l'autore, Talice da Ricaldone sarebbe il copista di questo comento edito a spese del magnanimo nostro re, Umberto, e il codice torinese non altro che un estratto di quella copia. Ma a questo proposito è da vedere, quantunque il Plebani non ne faccia ricordo, quanto fu scritto già nel Giornale storico della letteratura italiana (IV, 63), e quanto osservò il Cabotto nella Biblioteca delle scuole italiane (V, 11). (91

Poletto Glacomo. Cfr. no. 95.

Professione Alfonso. Intorno al « De Monarchia » di Dante. (Recensione del libro di C. Cipolla Il trattato De Monarchia di Dante Alighieri e l'opuscolo De Potestate regia et papali di Gio. da Parigi, in La Cultura. Anno II della nuova serie, no. 8).

Il trattato dantesco De Monarchia fu studiato spesso in modo unilaterale e subiettivo, senza considerare l'ambiente e il clima storico che lo determinò. Il Cipolla scrisse la sua recente monografia collo scopo, appunto, di chiarire interamente lo stato delle questioni politiche e religiose intorno alle quali si affaticò il pensiero dell' Alighieri e specialmente collo scopo di porre le teorie di Dante in contrapposto colle aspirazioni e colle dottrine dei guelfi francesi e il suo scritto è riuscito pieno di acutezza e dottrina ed eminentemente suggestivo. Confrontando la Monarchia di Dante col De Potestate di Giovanni da Parigi fa impressione l'incontro, diretto in parte, e in parte contrario, delle due trattazioni. Coincidono mirabil. mente quando si tratta di negare la donazione costantiniana e di impugnare l'autorità imperiale del papa: si escludono invece a vicenda quando indagano la natura e l'avvenire dell'impero. E mentre Giovanni sostiene esser lecito discutere del papa e de' suoi atti, Dante non afferma tale libertà come teoria, ma in realtà ne usa, allorchè vi si crede indotto dalla suprema necessità del bene universale, senza peraltro perdere mai i sentimenti di rispetto. Il De Monarchia conserva l'originalità di un trattato scritto con acutezza d'ingegno, con chiarezza d'esposizione, con libertà di parola e non mori quando l'impero fu snaturato dalla

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