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» Chiesa? Io non so rispondere, nè m' accade di avere trovato si»> nora chi abbia risposto in modo soddisfacente » 1.

Al Poletto, secondo me, si possono fare due risposte. Dato e non concesso che Marco Lombardo alludesse coi versi: Solea Roma, ecc. al tratto di tempo da Augusto fino a Costantino, non si può col Poletto convenire che ai tempi di Augusto non esistesse il sole della chiesa, perchè con Gesù Cristo ebbe principio la chiesa; e da Cristo, primo dei papi, fino a Silvestro, che prese da Costantino quella dote, il pastorale non aveva a sè congiunto. la spada; e quindi i mali, provenienti dalle pretese dei papi di essere la fonte immediata della imperiale autorità e di disporne a loro beneplacito, non esistevano. Sia pure che in questo lasso di tempo gli imperatori abbiano tentato bene spesso di soffocare nelle fascie e spegnere nel sangne la chiesa; ma i due soli non erano ancora confusi in uno; anzi la lotta stessa serviva a renderne più palese la distinzione. Ma, secondo me, ci sarebbe da dare al Poletto un'altra risposta che credo assai meglio fondata sul contesto della parlata di Marco Lombardo. Chi attentamente considera questa parlata si accorge che Marco Lombardo vedeva la cagione che il mondo ha fatto reo nella mala condotta principalmente del pastor che precede, il quale ruminar può, ma non ha l' unghie fesse, cioè, dice il Giuliani, « il Pastore che precede può bene volgersi alla considerazione delle parole di Dio, ma » non le adempie coll'opera 2: sa che il regno suo non è di questo » mondo 3, ma intanto si procaccia pur anche di quivi collocarlo *. >> Vede che si vuol rendere a Dio quel ch'è di Dio e a Cesare » quel che di Cesare 3, ma ad un istesso tempo impedisce a Cesare » di stare nel suo gran seggio: s'arroga l'autorità dell' Impero » e di trasmetterlo cui più gli piace e ritoglierselo a volontà 7 ». Per questi motivi la gente che sua guida vede . . . . a quel ben ferire ond' ella è ghiotta, di quel si pasce e più oltre non chiede. Ora questo disordine aveva raggiunto l'apogeo, secondo Dante, con Bonifacio

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• Purg., VI, 89; XVI, 99, 100. Mon., I. 2, c. 10 Simulando iustitiam, exequtorem iustitiae non admittunt.

7 Metodo di commentare la Commedia di Dante Alighieri, pag. 234.

VIII, perciò l'affermazione di Marco Lombardo intorno ai due soli che l'una e l'altra strada faceano vedere del mondo e di Deo, si riferisce indeterminatamente ai periodi storici anche posteriori a Costantino, nei quali effettivamente il papato non pretendeva alla suprema podestà anche nell' ordine delle cose temporali. Colla donazione di Costantino fu posto il mal seme di quella lagrimevole confusione dei due soli; ina gli effetti, come in ogni altra umana cosa, ebbero bisogno di tempo per svolgersi; e fu ai tempi di Marco Lombardo massimamente che, secondo Dante, l'un sole aveva spento l'altro, e giunta la spada col pastorale. Io non so se altri abbiano trattato questa quistione e vi abbiano risposto adeguatamente se poi questa mia risposta sia sufficente, non spetta a me il dirlo, e ne lascio interamente il giudizio agli uomini spassionati e senza preconcetti.

Prosegue il Poletto passando in rivista il lib. II della Monarchia, ma non vi trova altro che faccia al caso suo se non la chiusa addolorata e minacciosa : « O felicem populum, o Ausoniam » te gloriosam, si vel numquam infirmator ille Imperii tui natus fuisset, vel numquam sua pia intentio ipsum fefellisset!» (Mon., II, 12). Parole queste che indubbiamente alludono alla supposta donazione di Costantino, e richiamano la nota apostrofe del canto XIX dell' Inferno:

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« Ahi Constantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre! »

115-117.

A mitigare, in certo qual modo, l'effetto di queste addolorate parole, il Poletto riporta i versi che si riferiscono a Costantino medesimo da Dante posto tra i beati nel cielo di Giove :

ed aggiunge:

L'altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion, che fe' mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco.
Ora conosce come il mal, dedutto

dal suo bene oprar, non gli è nocivo,

avvegnachè sia il mondo indi distrutto.

Parad, XX, 55-59.

<< Noto in passando, che se Dante ammetteva la

» buona e casta intenzione in Costantino nel dare, intenzione affatto » consimile parmi doversi ammettere in Papa Silvestro nel rice» vere; e questo è tal punto chè giova ben fissarsi nella mente ».

Osservato che se buona e casta fu l'intenzione di Costantino nel donare, non ne consegue necessariamente che buona e casta fosse del pari l'intenzione di papa Silvestro nel ricevere: pure concesso ad abundantiam che ciò fosse, mi fa maraviglia che il Poletto dichiari essere di grave importanza questa conseguenza, senza poi aggiungere neppur verbo per dimostrare che veramente importa molto questo suo apprezzamento per la interpretazione della teoria politica di Dante. Una osservazione di questo genere si potrebbe fare anche alla Matelda, posto che fosse la contessa Matilde di Canossa; a Roberto Guiscardo ed a Carlo Magno 1, che pure si adoperarono in favore del potere temporale dei papi. È però singolare che in tutta la Commedia non vi sia di Gregorio VII, pel quale tanto s' adoperarono la Matilde di Canossa e il Guiscardo, neppure un cenno.

Il Poletto, proseguendo col paragrafo VI, sempre a proposito di quell' ahi Constantin..., asserisce che in tutti i passi allegati e che si sapessero allegare dagli oppositori del poter temporale, secondo le idee politiche di Dante, il poter temporale non c'entra nè per diritto nè per traverso; non nella parola e meno ancora nell'intenzione dell'autore; che non si parla che d'una donazione, d'una dote in genere (!?) - Ma e Roma, e le altre prerogative imperiali, di cui si parla specificatamente nella Monarchia, dove le mette mons. Poletto? Le prove poi che adduce non valgono per nulla ad appoggiare le sue asserzioni. Termina il paragrafo con una patentissima contraddizione. Io lascio al Poletto di conciliare tra di loro queste due sue sentenze: « Qualunque sia l' opi»> nione religiosa e politica dell' interprete.... la base fondamentale » su cui .... deve poggiare una Cattedra di Dante... è la professione di fede del sommo scrittore: Cum quibus illa reverentia fretus, quam pius filius debet Patri, quam pius filius Matri, pius » in Christum, pius in Ecclesiam, pius in Pastorem, pius in omnes >> Christianam Religionem profitentes, pro salute Veritatis in hoc » libro certamen incipio» con la seguente: « per capire e spiegare >> Dante è cosa indispensabile non già il suo ingegno e la sua dottrina, che è affatto impossibile, ma almeno la sincerità, l'inte

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1 Parad, XVIII, 43, 48.

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grità, l'ardore della sua fede, l'amore alla Chiesa, la riverenza delle somme Chiavi: senza di ciò la limpida parola di Dante, passando per la morta gora di un interprete miscredente, non » sarà più quella, e dicasi pure che ho torto ». Io non mi attento a dare torto al Poletto, ma devo, con mio rincrescimento, avvertirlo che in poche linee espone due sentenze che non si possono

conciliare.

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Nel paragrafo VII il Poletto confuta il significato allegorico del Sole, della Luna, dei due Soli, della Spada e del Pastorale, escludenti, secondo il suo modo di argomentare, l'idea del potere temporale, e si appoggia fieramente alle parole del lib. III capo X della Monarchia: « Dicunt quod Constantinus imperator, mundatus a lepra intercessione Sylvestri, tunc Summi Pontificis, Imperii Sedem, scilicet Romam donavit Ecclesiae, cum multis aliis Imperii dignitatibus. Ex quo arguunt, dignitates illas posthac neminem adsumere posse, nisi ab Ecclesia recipiat, cuius eas esse dicunt. Et ex hoc bene sequeretur, Auctoritatem unam ab alia dependere, ut ipsi volunt ». Ed aggiunge: Qui si parla non solo di Roma (Ah! si parla anche di Roma adunque, mons. Poletto!) « ma di molte altre dignità del» l'Impero; e dalle parole, che a queste seguono, chiaro si comprende che si credeva che Costantino, a dir breve, ritirandosi >> a Bisanzio, avesse concesso al Papato la supremazia sull' Occidente, cioè Romanum Regimen (ivi); del che più tardi si valsero » i Papi per creare al tempo di Carlo Magno il Sacro Romano Impero, dal Papato gli Imperatori dovendo riconoscere la co» rona e l'autorità. Di qui, per Dante, ogni male; ed ecco la Spada giunta al Pastorale; ecco il mistico Carro della Chiesa ricoperto delle penne dell' Aquila; ecco l' ahi, Costantino e la dote » al primo ricco Patre, e l'infirmator Imperii; e l'Italia fatta fiera fella, e il mondo distrutto; e del Poter Temporale neppur parola. » Di qui innanzi, come vedremo, il nostro Autore non fa altro che repulsare o accampare a sua volta argomenti e sottigliezze » sia rispetto al Papato che rispetto all' Impero; ma sempre improntando il suo ragionare al suesposto supremo principio della conseguita supremazia del Papato sull' Impero; onde ogni argo>> mento, ch'egli addurrà, siam costretti dalla logica, dall' ermeneutica, dalla critica, e anche dall' equità, di ridurlo alle sue giuste proporzioni, raffrontandolo attentamente all' allegato principio, dal quale scaturisce e a questo ne obbliga lo stesso Allighieri D in queste sapientissime parole: « Quia omnis veritas, quae non » est principium, ex veritate alicuius principii fit manifesta; necesse » est in qualibet inquisitione habere notitiam de principio, in quod

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))

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D

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>>

» analytice recurratur pro certitudine omnium propositionum, quae » inferius adsumuntur (Mon., I, 2, cfr. ivi 6). E i termini di tale principio ben dovrebbero, più che non siasi fatto finora, essere rispettati come norme imprescindibili dai chiosatori e dai critici >> di Dante, senza ampliarli, senza restringerli, e lasciare una buona » volta in pace il Potere Temporale, del quale Dante nè nel Poema, » nè nelle altre sue Opere non s'è mai occupato, tranne, come » vedremo in un sol punto, per ammetterne, sotto certa condi» zione, la piena legittimità e chi negli allegati passi della Commedia, o in qualsiasi altro delle Opere Minori vuol persistere >> a intendere del Poter Temporale, non dantista o dantofilo s'ha » da dire, ma (sit venia verbis) o ignorante, o di mala fede ».

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A mio avviso c'è una insuperabile difficoltà che vieta di concedere al Poletto non aver Dante mai condannato il civile principato dei papi, ma solo la conseguita supremazia del papato sul l'impero, e deriva dal fatto innegabile che più volte, e sotto forme diverse, l' Alighieri dichiarò essere Roma, politicamente considerata, la propria sede dell'imperatore; e il Poletto lo sa, e lo ha detto diverse volte in quei luoghi dove non era quistione di poter temporale. Stando così la cosa, si conceda pure che Dante mai non parli ex expressis verbis del potere temporale; ma col riprovare la cessione di Roma ai papi, condanna, almeno in questa parte, il potere temporale. Credo che la logica, l'ermeneutica, la critica, e anche l'equità, di cui il Poletto è cosi strenuo osservatore, mi costringa a questa conclusione senza meritarmi la patente d'ignorante o di uomo di malafede, ben inteso che per questo io non abbia la pretesa di passare per dantista o dantofilo.

Sempre a mio avviso, adunque, per due capi il principato civile dei sommi pontefici, quale fu di fatto, è inconciliabile colla teoria politica di Dante; e cioè:

1. Il possesso di Roma: perchè Roma è la sede naturale dell' imperatore, e, quindi, non soggetta al dominio civile di altri che non fosse imperatore.

2. Perchè il papato considerava come al tutto indipendente. dall' autorità imperiale la propria civile sovranità, sempre secondo

Dante.

Dal primo capo d'inconciliabilità dell' autorità temporale dei papi colla teoria politica di Dante risulta una conseguenza meritevole di considerazione. Come il Poletto crede d'aver dimostrato un po' più innanzi (§. VIII, pagg. 166-167) l'imperatore poteva benissimo donare al papa un patrimonio, che, per il Poletto, equivarrebbe ad un principato civile. Ma nel territorio formante

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