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questo principato dei papi non può essere compresa Roma, perchè questa, sede, è vero, del papa, in quanto è Guida suprema sulla via del cielo, doveva essere non meno sede naturale dell' imperatore, del quale è proprio ufficio il reggere politicamente il mondo. Dunque il civile potere sopra Roma era, secondo Dante, dell'imperatore, non del papa; e se l'imperatore l'avesse anche voluto trasferire nel papa, avrebbe esorbitato dai confini stabiliti da Dio all'imperiale autorità, e compiuto un atto nullo. Onde è che di Costantino Dante deplorava l'opera coi versi accorati della Commedia e colle parole non meno lamentevoli che chiudono il secondo libro della Monarchia. Ammesso questo, diventa curioso assai un principato civile nei papi dal momento che il papa doveva risiedere in Roma, avere questo principato civile fuori di Roma, trovarsi necessariamente nella strana condizione di un principe costretto a reggere il proprio stato da una sede non facente parte del proprio stato, e civilmente soggetta ad un altro principe. Lascio al buon senso il decidere se un così fatto poter temporale dei papi potesse essere un ideale possibile nella mente di Dante Alighieri.

Dante poi non ammetteva la necessità di una sovranità temporale nei papi su Roma quale guarentigia della loro indipendenza e libertà nell' esercizio del supremo apostolato. Anche questo riflesso fa rilevare sempre più l'incompatibilità del principato civile dei papi su Roma colle idee politiche di Dante.

(Continua).

GIOVANNI AGNELLI

AMOR, CHE MOVI TUA VIRTU' DAL CIELO. „

(Continuazione e fine 1)

Dunque, Signor (di sì gentil natura
Che questa nobiltate

Che vien quaggiuso e tutt'altra bontate
Leva principio della tua altezza),

5 Guarda la vita mia quant' ella è dura,
E préndine pietate;

Chè lo tuo ardor, per la costei beltate,
Mi fa sentire al cor troppa gravezza.
Falle sentire, Amor, per tua dolcezza,
10 Il gran desio ch' i'ò di veder lei:
Non soffrir che costei

Per giovinezza mi conduca a morte;
Chè non s'accorge ancor com'ella piace,
Nè com' io l'amo forte,

15 Nè che negli occhi porta la mia pace.

4.

Dunque, o Signore (che sei di natura così nobile, che la nobiltà che abbiamo in terra, e ogni cospicua dote che in questa comprendesi, dalla tua eccellenza solo trae origine), guarda come la mia vita è divenuta difficile, e pren. dine compassione; chè infine è il tuo ardore quello che per mezzo della costei bellezza mi fa sentire al cuore tanta oppressione. Fa in cambio, o Amore, per la dolcezza tua, sen. tire a lei il gran desiderio che io ò di vederla: non soffrire che costei mi faccia morire, come indubbiamente accadrà se, giovinetta com'essa è ancora, non verrà a conoscere quanto essa altrui piace, e quanto io l'amo gagliardamente, e come ne' suoi occhi essa porta la pace dell'animo mio.

1. Il Fraticelli, invece della comune lezione, chiarissima, ha voluto, non so perchè, leggere: Dunque, Signor, di sì gentil natura (Chè questa nobiltate Che vien quaggiuso è tutt'altra bontate), Lieva principio ecc., spiegando: Poichè questa nobil donna che si mostra quaggiù in terra è una virtù tutt' affatto celeste: ma quanto male avvisato, ognuno sel vede, e lo dimostra a maraviglia il Serafini; al quale però il suo editore, il Marcucci, ha fatto il mal tiro di mettere nel testo la lezione Fraticelli; e col quale solo non convengo nella utilità di levar la virgola dopo Signor. Io, anzi, la rinforzo con una parentesi. Potrebbe anche proporsi la variante Dunque, Signor, di sì gentil natura Che questa nobiltate Che vien quaggiuso è tutta tua bontate, Leva principio, ecc., cioè, considerando la tua altezza, de

1 Vedi il quaderno II, pag. 76.

gnati di guardare, ecc. Ma non ve n'è bisogno, e se l'ho accennata, è solo nella ipotesi che vi sia qualche codice che l'appoggi.

3. Che vien quaggiuso Questo vien si spiega da la frequenza con che da Dante vediamo usati verbi di moto per concetti di stato, e viceversa. Ed usi insoliti del venire si hanno anche in Purg., XXVII, 135, Mentre che végnon lieti gli occhi belli e in Parad., XXII, 132, Che lieta vien per questo étera tondo.

4. Leva principio Con sintassi analoga in Purg., XXVII,67, E di pochi scaglion levammo i saggi, per dire, prendemmo saggio, fecimo esperimento.

9. Falle sentire Questa ripetizione del verbo sentire, frequente a Dante, e di cui è curioso esempio il XXIV di Purg. (il canto, può notarsi, della Gentucca e dell' Io mi son un che quando Amore spira noto) ai versi 148 e segg., ove essa ha luogo fin quattro volte con riferimento ai tre diversi sensi, del tatto, dell'udito e dell'olfatto, sta qui a rendere più evidente il contrasto tra la gravezza dell' amore non corrisposto, e la dolcezza del desiderio d'amore. E notisi delicatezza. Dante non dice: Fa sentire anche a lei il desiderio d'amore: si contenta di dire: Fa ch'essa sappia cos'è il desiderio che provo io: ben persuaso che appena Gentucca potesse conoscerlo, quella conoscenza, per la forza suggestiva di amore, si muterebbe in un ugual desiderio, e pel noto Amor che a nullo amato amar perdona, nel desiderio appunto della persona amante.

12. Per giovinezza mi conduca a morte Prima avevo inteso, mi faccia morire ancor giovine; meno arguta sembrandomi la interpretazione che la donna lo innamorasse perchè giovine, mentre vecchia non lo innamorerebbe. Ma parvemi poi assai più persuasiva quella del Serafini, alla quale mi sono attenuto. Costèro spiega, quantunque giovinetta; e, come Fraticelli, lo intende della Filosofia, di cui egli erasi da poco invaghito, o (per dirla come taluno intese un noto luogo di Dante) erasi fatto novo peregrin d'amore: ma non si curano poi di trovare il nesso del concetto, perchè l'essere Dante appena penetrato nella Filosofia dovesse condurlo a morte: altra riprova della vanità di siffatti allegorismi.

15. Nè che negli occhi porta la mia pace Quest'ultimo verso della. strofe quarta si rannoda con l'ultimo della seconda, ove dei raggi d'Amore dice che Saliron tutti su negli occhi suoi.

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Da tal, ch' io non ragiono
(Se per tua volontà non han perdono)
Che possan guari star senza finita.
Ed ancor tua potenza fia sentita
10 In questa bella donna che n'è degna;
Chè par che si convegna

Di darle d'ogni ben gran compagnia,
Come a colei che fu nel mondo nata
Per aver signoria

15 Sovra la mente d'ogni uom che la guata.

ch'io non mi riprometto, se per la tua intromissione non son risparmiati, che possano durarla a lungo. Ed oprando perchè io sia corrisposto, ti sarà, come dissi, di onore, in quanto la tua potenza si farà sentire anche in questa bella donna che di sentirla è ben degna; sembrando ben conveniente di darle la compagnia d'amore da cui ciascun bene si move, come colei ch'è nata per signoreggiare gli animi di ciascuno che la guardi.

6. Da tal, o per tal, come dapprima per prima; o per di tal, di tal modo, come dicesi a tal, per, a tal punto.

Ch' io non ragiono è qui usato in senso fuori del consueto, analogamente al verbo stimare in quel d'Inf., XXIV, 25, E come quei che adopera ed istima...

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7. (Se per tua volontà non han perdono) La interpretazione del Costèro, se non ottengono la grazia di rimanersi in vita, non mi pare nè in logica nè in sintassi.

9. sia sentita

legge, non so su che fondamento, l'edizione Serafini. 11. Chè par Qui si (a differenza della 4a, 2) mi par da adottare il Chè del Fraticelli a preferenza del Che del Costèro. Tutto il seguito però è il solo punto che mi lasci nel dubbio, o di non avere ben afferrato il concetto del poeta, o che questi non l'avesse ben chiaro dinanzi alla mente. Tra l'esser nata per aver signoria su tutti, e l'esser conveniente ch'essa ami, non ci trovo infatti un nesso sufficiente. Nello invito ad Amore perchè pieghi quella bella donna al suo impero, ci si può ben sentire forse, velato, l'orgoglio del poeta nel pensiero ch'ella dovesse andar lieta e superba di essere da lui amata; ma ciò non basta a spiegare il complesso del concetto. E siccome dove la lettera è oscura, sia per completarla, sia per dar ragione della oscurità, fa capolino l'allegoria, potrebbe darsi che qui Dante, come fece con Beatrice e altre donne, si valesse, per nascondere (pur manifestandolo) il suo amore per la Gentucca, di espressioni che potrebbero avere un significato allegorico. E Fraticelli infatti trova la conferma che vi si alluda alla Filosofia, per ciò che questa, non sopra i cuori ma tien signorìa sopra le menti degli uomini: che è però una ragione troppo debole, frequentissimi essendo anche in Dante gli esempi, ove mente trovasi usato nel significato complesso di anima, comprendente cuore insieme e intelletto; basti quel di Parad., XXXII, 64, ove Dio Le menti tutte nel suo lieto aspetto Creando, a suo piacer di grazia dota Diversamente.

In mezzo però a tutte le bellezze di questa canzone, una certa oscurità e ripetizione e intralciamento che vi si notano lasciano pur comprendere come nella trattazione del tema esclusivo di amore quel gran genio si sen

tisse ristretto e quasi a disagio, obbligato qual era a rannicchiare in piccolo campo vastissimi concepimenti, e provasse quindi il bisogno di spiccare quel volo più libero ed alto, che per fortuna sua e d'Italia e del mondo spiccò poi nel divino poema. E in questo infatti le oscurità sono assai più rade, e maggiore in chi legge il compiacimento del risolverle.

CHIUSA

Canzone, a' tre men rei di nostra terra
Te n'andrai anzi che tu vadi altrove:
Li due saluta, e l'altro fa che prove
Di trarlo fuor di mala setta in pria.
5 Digli che il buon col buon non prende
guerra

Prima che co' malvagi vincer prove;
Digli ch'è folle chi non si rimove,
Per tema di vergogna, da follia;
Chè quegli teme ch' ha del mal paura,
10 Per che, fuggendo l'un, l'altro si cura.

O mia canzone, tu te n'andrai, prima che altrove, ai tre meno rei della mia città: due, salutali, e il terzo pròvati prima, di trarlo dalla rea fazione cui è addetto. Digli che il buono non prende a guerreggiare contro il buono, prima che non abbia vinto le sue prove contro i malvagi (e di malvagi ve n'ha sempre): digli che veramente stolto è colui che per timore della vergogna (che per l'implicita confessione del fallo sempre accompagna il pentimento) non si rimove dalla stoltezza: perocchè teme a ragione solo colui che ha paura del male; per lo che, fuggendo il male, si guarisce anche della paura.

Ho messo anche questa licenza o commiato, perchè la mettono Fraticelli e Serafini, ma a me pare abbia a fare col resto come i cavoli a merenda. Nel comento all' altra canzone lo sento sì d' Amor, Fraticelli dice che nelle edizioni antiche, a questa andava annessa la chiusa, Canzone, a' tre men rei, in luogo di quella ch'egli v' appose, Canzon mia bella, se tu mi somigli. Egli operò la sostituzione appoggiato, all'autorità del codice Palatino, alla conformità di quest'ultima chiusa con la fattura della canzone cui egli l'appose, e aila necessità quindi di espungere l'altra per non fare che una canzone avesse due chiuse. E questa chiusa così espunta egli appose poi alla canzone Amor che movi, per non fare ch'essa ne restasse senza. Non è però un criterio troppo decisivo, quando vediamo senza chiusa anche le canzoni 3, 5 e 9", Donna pietosa, Quant' unque volte, ahi lasso, e Poscia che Amor del tutto; e per alcuni anche, Doglia mi reca nello core ardire (10"). E anche la conformità di fattura della strofe, sebbene sia la ragione più convincente, non è per altro esauriente del tutto, essendo anzi quattro sole sopra ventuno le canzoni in cui tale conformità si verifica (2, 7, 12 e 21 del Serafini), a fronte della maggioranza in cui la chiusa è più breve.

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La mia opinione quindi è che la chiusa Canzon mia bella (che nelle Giunte alla Bella Mano, Firenze, 1715, trovasi col titolo, Stanza di più nella Can.... Io sento sì d'Amor), altro non fosse che una variante (come ne

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