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abbiamo della prima quartina del sonetto Era venuta ne la mente mia), dal poeta rifiutata in cambio dell'altra, Canzone, a' tre men rei, con la quale infatti ha comuni diversi concetti (Spia se far lo puoi della tua setta.... Chè il buon col buon sempre camera tiene.... Con rei non star). O forse, volendo lasciar l'altra dove la colloca il Fraticelli, la chiusa, Canzone, a' tre men rei potrebb' essere un frammento (come lo è l'unica stanza della canzone Si lungamente m'à tenuto Amore); ovvero commiato di canzone andata dispersa; ma dopo tutto può ben lasciarsi dov'è sempre stata, giustificando la sua disformità colle altre strofe col privilegio delle chiuse brevi, e la sua estraneità con la considerazione che qualche volta questi commiati in fine poteansi ritenere simili alle dediche dei tempi posteriori, aventi relazione più che col soggetto, con le persone a cui le opere si

inviano.

Ma v'è un'ultima osservazione da fare, ed è che chiuse, come questa, tutte di endecasillabi, non si trovano, almeno in Dante, se non a canzoni pure di endecasillabi, come (lasciando le due, Donne, che arete, e Morte, poich' io non trovo, ove le chiuse son fatte di strofe identiche), Voi che intendendo e Amor, tu redi ben (6 e 18 Serafini), ove, a strofe di tredici e dodici versi, corrispondono chiuse di nove e di sei; e solo nella canzone 20a La dispietata mente, a strofe di dodici endecasillabi e un unico settenario corrisponde una chiusa di tutti endecasillabi, ma in numero di soli tre. Onde riesce poco verosimile che la chiusa Canzone, a' tre men rei, di ben dieci endecasillabi, si applicasse a canzoni, come Amor che mori, o lo sento sì d'Amor, aventi strofe di quindici e sedici versi contenenti non uno, ma quattro e due settenari; e però in definitiva conchiudo che il meglio da fare sarebbe di non metterla a nessuna, e presentarla invece come chiusa di canzone dispersa.

Spiacemi a questo riguardo di rilevare nel Serafini (o nel suo editore) una fila d'incongruenze, sulle quali non posso non mettere in guardia il lettore. Comincia col dire che « questa chiusa si trova di soverchio nella Canzone terza ». Dovea dire, quindicesima; e non, che vi si trova di soverchio, ma che vi si troverebbe, se (come cominciò a farlo solo il Fraticelli) vi si aggiungesse la chiusa che trovasi a parte nella Bella Mano. « Questa Canzone non potea mancare di chiusa », O perchè no, se ne mancano altre tre o quattro? « e la seguente contro l'usanza comune non ne poteva aver due ». Ma nessuno si è sognato di dargliene due: basta lasciarvi quella sola che ha sempre avuto, Canzon mia bella, secondo il Palatino, Canzone, a' tre men rei, secondo tutti gli altri. « Tale chiusa per la tessitura de' versi può stare, e per la rispondenza di rime sta bene a questa, ma non alla seguente Canzone». Ma, a parte quello che osservai da ultimo della sua disarmonia con entrambe per la misura dei versi, se è di quelle chiuse che io sopra chiamai brevi, tanto potrebbe stare con l'una come con l'al

tra, non avendo nè con l'una nè con l'altra nessuna rispondenza di rime, come non l'ha di concetto. E rispondendo su quest'ultimo punto al Giuliani che in ciò la pensa come me, il Serafini crede dire una ragione ripetendo che la canzone Amor che movi« manca del commiato che l'Alighieri generalmente aggiunge alle sue Canzoni ». Ora generalmente non vuol dir sempre. Nè sarebbe una trovata molto critica metterla qui per non sapere ove metterla altrove. E continua ripetendo non esser <<< vero che la forma di questa chiusa non abbia relazione a questa Canzone, bastandoci notare la corrispondenza delle rime ». E daccapo! ma dov'è questa corrispondenza? Si vede che l'ha confusa con quella, che infatti c'è tutta, dell' altra canzone Io sento si d'Amor, con la chiusa, Canzon mia bella. A provare poi la relazione del concetto conclude «< che nella chiusa la Canzone ha due scopi, uno diretto e l'altro indiretto, e quest'ultimo è quello di trarre di mala setta uno de' tre Fiorentini salvo noi ». Salvo noi? « La Canzone è destinata altrove, e non a costoro ». Benissimo. Essa dunque dovea prima andare a Firenze a convertire al ghibellinismo un amico di Dante, e poi, per un di più, tornare in Casentino ad ammansare la sua bella: viaggio di piacere, di andata e ritorno. « La chiusa poi dev'essere di Dante, perchè ne ha lo stile e i concetti, e perchè dalle antiche edizioni era apposta ad una sua Canzone » O perchè non dire addirittura, qui come addietro, alla canzone Io sento sì d' Amor? Ma che sia di Dante, questo lo ammetto; onde non approvo il Costèro che non le dà nessun luogo. Si fa poi la questione : « Se non si aggiunge a questa Canzone, a quale altra l'aggiungeremo?» O bella! Non vi sono tre o quattro altre canzoni senza chiusa? E se le prime due si possono escludere, cantando di Beatrice, mentre la chiusa sembra appartenere all'esilio, non vi sono le altre due che sono delle morali? Ma di queste il Serafini non si occupa (e, senza volerlo, fa bene perchè anche quelle due son troppo ripiene di settenarii per ammettere una chiusa tutta di endecasillabi), bensì si domanda: «Forse ad una delle nove morali perdute? Sarebbe un metodo facile di sciogliere le difficoltà. Ma osta il fatto che questa chiusa fu scritta da Dante allorchè non era in Fiorenza ». O chi gli dice che tutte quelle nove canzoni (notate) perdute, come le due senza chiusa non perdute, dovessero proprio essere da Dante composte in Firenze? È curiosissimo poi il modo con cui determinal che chiusa (Canzone, a' tre men rei) e canzone (Amor che mori) devono essere state scritte ai principii del 1307 « quando l'Alighieri non avea del tutto separato uno de' tre men rei fiorentini dai due che poi disse i due giusti che in Fiorenza non erano intesi ». Ora, questo, Dante lo dice nel VI d'Inf., 73, e quel canto non può argomentarsi altro se non che sia stato scritto molto dopo il trionfo dei Neri, per quell' Alto terrà lungo tempo le fronti; ma che lo sia poi nel 1305, 0 6, 0 10, questo non si può dav

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vero definire; onde la canzone (o piuttosto quella chiusa) dovendo essere stata scritta prima, tanto potrebb' esserlo nel '304 (alla qual epoca l'attribuisce infatti lo Scalvini nel Comento alla divina Commedia del Tommasèo), come nel 1309, o qual altra prossima data. «E poichè siffatta Canzone per noi va esclusa dalle nove morali perdute, trattando di un amore sensibile, di quello appunto che riguarda Gentucca degli Antelminelli, possiamo ancora ritenerla scritta ai principii del 1307, contemporaneamente alla chiusa in quistione ». Dunque, perchè una canzone non è delle morali, dee riguardare Gentucca; riguardando Gentucca, dev'essere stata scritta ai principii del 1307; essendo chiusa e canzone contemporanee, devono appartenere ad un unico componimento! Questo sì che mi pare un metodo molto facile di sciogliere le difficoltà. Ammetto anch' io che questo componimento possa essere stato scritto per la Gentucca alla quale, per le ragioni calzantissime del Serafini nel suo discorso, è a credere che diverse altre s'indirizzino; ma badiamo, per carità, di non aggiungere. alle buone, delle altre ragioni, che facciano scappar la voglia di credere anche alle prime.

1. A' tre men rei di nostra terra Quel nostra par meno proprio, non essendo la canzone di alcuna terra. Ma abbondano in Dante i riferimenti di un complemento, anzichè al soggetto, all'oggetto, o ad altro complemento, o perfino, come qui, a concetto sottinteso, avuto in mente o anticipato.

9. Gli ultimi due versi il Fraticelli li interpreta « che vive in timore soltanto quegli che ha paura di prender guerra contro il male; perchè fuggendo il male si procura il bene ». Ma chi rammenti quel del II, 88 d' Inf., Temer si dee di sole quelle cose Ch'hanno potenza di fare altrui male, Dell'altre no, che non son paurose, e legga tutto il rimanente di questa chiusa, troverà assai più ragionevole quella che abbiamo posto nella parafrasi. Una variante possibile però sarebbe, Che quegli teme, invece di Chè, ove il rincalzo delle persuasioni è maggiore.

Sono ben lungi dal lusingarmi che in questo tentativo di restituzione e comento di una delle più belle canzoni di Dante tutto deva essere accolto; mi basterà solo di avere, e sia pure in piccolissima dose, contribuito al lavoro critico, ancora tutto da fare, sul Canzoniere del nostro massimo poeta.

Roma, 15 di marzo, 1893.

F. RONCHETTI

CHIOSE DANTESCHE

LETRE DONNE BENEDETTE. 99

Inferno, I, 124.

Dopo che Virgilio si fu offerto a Dante di trarlo dalla diserta piaggia, ed essergli guida al suo fatale andare fin dove lo può condurre la sua scuola, accoglie questi premuroso la cortese proposta, e muovono insieme sul cader del giorno alla volta dell' Inferno; ma nel far via per quella oscura costa, pensando all'alta impresa a cui s'accingeva, e che egli stima impari alle sue forze, ritorna dal suo buon volere,

si che dal cominciar tutto si tolle.

A tal segno di scoraggiamento « l'ombra di quel magnanimo», per infondere coraggio nel suo protetto, gli narra come egli venne a lui e come lo mandò in suo aiuto

La donna di virtù, sola per cui

l'umana spezie eccede ogni contento

da quel ciel ch' ha minori i cerchi sui;

e nel ridirgli del colloquio avuto con essa, nota fra altro le seguenti parole di lei:

candida rosa»

Douna è gentil nel ciel, che si comp iange

di questo impedimento, ov' io ti mando,

si che duro giudicio lassù frange. Questa chiese Lucia in suo dimando, e disse: ora abbisogna il tuo fedele di te, ed io a te lo raccomando.

Lucia, nimica di ciascun crudele,

si mosse, e venne al loco dov'io era,
che mi sedea con l'antica Rachele.

Disse: Beatrice, loda di Dio vera,

che non soccorri quei che t'amo tanto,
ch' uscio per te dalla volgare schiera ?

Parole che concordate a quelle di Bernardo, là dove questi descrive a Dante i sedenti nella di cui sono più speciale oggetto i versi 4-9 e 118-138 del canto XXXII discoprono, quasi per corrispondenza matematica, col mezzo delle conosciute Lucia e Beatrice, chi sia la innominata Donna gentile, e conseguentemente che cosa rappresenti fra le tre Donne benedette che hanno cura» di Dante nella corte del cielo ».

del Paradiso

Fra i più antichi commentatori, Benvenuto Rambaldi, dopo di aver fatta la distinzione teologica di « grazia operante » e «cooperante la lascia in disparte, e, tacendone il nome, interpreta la Donna gentile per grazia preveniente; predicato che non sembra proprio al caso, poichè veramente la donna non previene, ma scioglie un impedimento. Di Lucia, se non

ho frainteso, ne fa la grazia cooperante, e di Beatrice la teologia. Venendo quindi ai più mo. derni mi restringerò a notare Brunone Bianchi 1, che scelgo spesso di preferenza, siccome quegli che molte cose raccolse dai predecessori, e leggo nelle sue annotazioni al canto II dell' Inferno, che la Donna gentile è la « Vergine Madre di Dio, e figura la divina clemenza, a cui duole » l'ombra d'ignoranza e di morte in cui siedono gli uomini, e il disordine e la miseria che » li contrista, sebbene per giusto giudizio ciò loro avvenga ».

Dimostrerò in seguito come la Donna gentile non sia la «< Vergine Madre di Dio » nè figuri la divina clemenza », ma osservo intanto: che cosa ha che fare quì tutto questo motivare di ignoranza, di disordine e di miseria che contrista gli uomini?.... Dante non è oscurato dall'ombra dell'ignoranza e della morte, chè anzi si accinge ad onorata impresa qual'è quella di volere ammaestrar gli altri coll' esperienza; nella deserta piaggia egli è contristato dalla Lupa che gli impedisce la sua via, non già per colpe proprie giacchè gli è porto dal cielo premuroso aiuto, e Virgilio sulla riva di Acheronte lo dice anima buona; sopra di lui infine non pesa sentenza di castigo divino, e si vedrà più tardi in prò di chi la Donna gentile franga nel cielo il giusto giudizio.

« Lucia, continua il Bianchi, è la santa martire siracusana, a cui un'antica credenza po» polare porta che fossero cavati gli occhi. In altro senso, derivata l'idea da lux, rappresenta » la grazia illuminante che è mossa dalla divina misericordia a soccorso dei ciechi mortali ». Ma come mai si è scoperto che la Lucia della Commedia voglia essere proprio la storica martire siracusana uccisa nell'anno 304? L'autore non ne porge in alcuna delle sue opere il menomo indizio, e nel Convito attribuisce questo nome con quello di Maria a due città che egli immaginava nei due punti opposti della terra, i quali or si chiamano poli2 onde ci vien mostrato che occorrendogli di indicar cose nuove, eleggeva talvolta nomi che non avevano alcuna relazione colle medesime. Così avviene riguardo alla Lucia di cui qui si ragiona, chè da quel nome non si è punto legati per etimologia ad indurre ciò che la cosa possa rappre sentare, siccome intendono molti chiosatori, derivando Lucia da lux, luce, per farne la figura della grazia illuminante.

Premesse queste brevi osservazioni sui commenti più in uso, debbo ora condurre il let tore a rivedere la candida rosa » nel cielo, acciò più fresca ne abbia la immagine, e vi riconosca come siedono a rispetto loro alcuni dei principali personaggi che quivi hanno gloria.

Quella forma generale di paradiso adunque, che nel cielo di pura luce è quasi un grandissimo anfiteatro circolare cui manca l'arena, nel suo visorium conta ben più di mille gradini. Nel più ampio e supremo ha la sua sede augusta la Regina

ai suoi piedi sta Eva, e

di cui quel regno è suddito devoto;

Nell' ordine che fanno i terzi sedi,
siede Rachel di sotto da costei,
con Beatrice si come tu vedi.

I

1 Già nei suoi lavori precedenti, fra i quali è ormai conosciutissima per grande originalità la topocronografia della divina Commedla (La Visione di Dante Alighieri considerata nello spazio e nel tempo. Torino, 1881) l'autore ci ha fatti avvertiti che i commenti da lui citati non devono servire, come alcuno erroneamente ha creduto, di mostra bibliografica, ma soltanto di base e di punto di partenza alla discussione.

N. d. D.

2 La terra nel mondo tolemaico, che é pure il mondo dantesco, essendo considerata immobile nel centro dell' universo, non poteva aver poli, che sono necessariamente le estremità dell'asse di un corpo in rotazione. Non esistevano per gli antichi che i poli del cielo.

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