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Or guarda ai due lati della vergine Madre, e vi ritroverai vicinissimi, a sinistra, Adamo e dall'altra parte il Padre vetusto di santa chiesa. Nello stesso superno grado sopra cui sie. dono quei grandi patrizi, e in parte diametralmente opposta vedrai ancora sedenti due donne che ci interessano assai, cioè Anna di fronte a Pietro, e Lucia contro ad Adamo, così che tra loro si trovano vicine.

Accertata la posizione di questi beati, sarà ora molto agevole di conoscere chi sia la Donna gentile, sol che rileggendo la parte del colloquio da Virgilio riferito a Dante di cui è fatto cenno nel principio, si tenga conto com'essa per chiedere Lucia in suo dimando a raccomandarle lo smarrito pellegrino, non si muove dal proprio luogo, onde appare la loro con. tiguità, che poi è resa indubbia dalla espressa mossa di Lucia per andare dov'è Beatrice ad eccitarla in soccorso « di quei che l'amò tanto ». Dunque la Donna gentile non sarebbe già la vergine Madre di Dio quale figura della divina clemenza, sibbene Anna, il cui nome, secondo ne scrive Sant'Agostino (Città di Dio, libro XVII, cap. IV), annunzia la grazia.

A caratterizzare quindi la Lucia pare che si debba procedere per deduzione, traendo, dai passi che di lei fanno motto, quel tanto di cui l'insieme possa guidare alla scoperta di ciò che l'autore abbia inteso di farle rappresentare fra le tre Donne benedette; e dappoichè si è conosciuto che la Donna gentile è Anna il cui nome figura la grazia, rimane ragionevolmente escluso che l'altra possa simboleggiare, secondo che vuole il Bianchi, la grazia illuminante, (la quale non sarebbe che parte emanata da quel tutto che il nome di Anna già significa) ma si rappresentare tal cosa, che colla grazia e la scienza (Beatrice), formi una trinità quasi a similitudine della divina.

Ora, se questa mia idea che prepongo all'argomentare sopra la seconda figura tuttor velata, abbia o no ragione di sussistenza, lo si vedrà dalle spiegazioni, dove occorrono, alle parafrasi dei seguenti passi :

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1.o Riferisce Virgilio le parole dettegli da Beatrice (Inf., II, 94108) « Donna assoluta Signora di favorire secondo il suo beneplacito - la grazia, è magnanima nel cielo, la quale deplora che l'amico mio sia impedito così nel suo cammino che volto è per paura, e tanto deplora questo impedimento a riscontro del quale io ti mando, che severo giudicio - qual'è quello che tienti fra i sospesi lassù frange, interrompe. Questa chiese Lucia che le sedea dappresso, in soccorso del suo volere, e le disse: in questo punto il tuo fedele abbisogna di te, del tuo benigno aiuto, ed io a te lo raccomando pregandoti di averlo in tua cura. Lucia » nemica a qualsivoglia crudeltà di persona o di cosa, tosto si mosse attraverso la massima ampiezza del nostro convenuto per venire al luogo dov'io sedeva coll'antica Rachele, ed ■ esponendomi la penosa condizione di quegli che mi amò tanto, mi mosse in suo soccorso ». Ma Beatrice che in cielo è la scienza divina, pur essa non porge aiuto immediato al minacciato viatore, chè a far ciò sapientemente muove ancora, siccome più affine al di lui intendimento, la ragione arricchita di scienza ed arte nella persona di Virgilio, che deve essergli maestro e guida sino alla soglia della conoscenza perfetta di quel Vero nel quale si quieta l'anima umana.

2.o. (Purg., IX, 19-32 e 55-57). Nella valletta della speranza, là dove a notte già inoltrata era il Poeta stato vinto dal sonno, e quando presso il mattino la mente più dalla carne sciolta e meno occupata dai pensieri,

⚫ alle sue vision quasi è divina,

gli pareva in sogno d'essere sul monte Ida da dove l'uccel di Giove rapì all'olimpo Ganimede, e di vedere un'aquila nel ciel remota con penne d'oro, l'ale aperte ed a calare in» tesa. Fra sè pensava: Forse questa batte solamente qui per uso, e forse da altro luogo

› disdegna di portare in su coi piedi la gente. Poi gli pareva che, terribile come folgore, di>> scendesse e lo rapisse su infino al fuoco, cioè insino al cielo di fiamma, al cielo empireo. » Ivi parevagli ch'ella e lui ardessero, e tanto fu forte l'immaginato ardore che gli ruppe » il sonno ..

In quel sogno, quasi presagio di sua andata al sommo dei cieli a cui gli sono scala le tre Donne benedette, l'aquila vestita di penne d'oro, cioè di splendore della divina bontà, coll' ale aperte in segno di benignità, e con propria virtù affettiva, intesa a scendere per rapirlo in alto, è nella realtà Lucia che lo piglia dormente per agevolarlo nella sua via.

3.o (Parad., XXXII, 136-138). Bernardo venuto a Dante in luogo di Beatrice, gli mostra la disposizione della « candida rosa », e termina l'assunto ufficio di dottore colle seguenti parole:

E contro al maggior Padre di famiglia
siede Lucia che mosse la tua Donna,
quando chinavi a ruinar le ciglia.

4. E per ultimo (Inf., II, 67-69) la donna del contrariato pellegrino ordina a Virgilio di muovere in suo aiuto, e per farlo più pronto ad obbedirla le si discopre dicendo:

Io son Beatrice che ti faccio aadare:
vegno da loro ove tornar disio:

Amor mi mosse che mi fa parlare.

ne

Or a seguito delle spiegate citazioni conviene notare che Anna mosse Lucia, che Lucia mosse Beatrice, e questa per ultimo mosse Virgilio; e mentre si mettono a riscontro le espressioni«Siede Lucia, che mosse la tua Donna », « Amor mi mosse che mi fa parlare deriva per modo quasi assiomatico, che siccome nei due luoghi e per la medesima circostanza, quella che è mossa è la stessa Donna, debba equipararsi il movente quantunque diversamente denominato, così che per conseguenza Lucia debba significare amore.

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A tale intendimento suffraga già, se bene si considera, il fare dell'aquila veduta in sogno dal poeta, l'ardore comunicatogli quando in su l'ebbe tratto, nonchè l'opera e le parole be nevoli della donna. Ma se tuttavia ciò non bastasse a determinare il dedotto significato, spingo la mia investigazione con mettere in rapporto le parole: « Ora abbisogna il tuo fedele di te ed io a te lo raccomando » parte dalla Donna gentile a Lucia, e quelle del Poeta al 3. XII della Vita Nuova, dove, chiamando misericordia alla Donna della cortesia, disse: Amore aiuta il tuo fedele »; dal quale s'induce ancora che la fedeltà di Dante sia nei due luoghi rivolta ad un medesimo obbietto. Laonde Lucia, chiamata pur nemica di ciascun crudele, è proprio figura d'amore, o carità, virtù della quale san Paolo enumera gli attributi nella sua prima epistola ai Corinti. Formato di tal guisa quel trino consorzio di potestà, amore e scienza con sì chiara similitudine alla suprema triade di cui già toccai in addietro, resterebbe ch'io dicessi pure della Beatrice che ho soltanto indicata per quanto conveniva alla dichiarazione delle altre due donne; ma siccome il trattare di questa non comporta brevità, dappoichè s'ha da pigliare nella Vita Nuova, passare con essa attraverso il Convito e spaziare in sua compagnia nella Commedia, mi riservo, occorrendo, di farne soggetto speciale in un'altro studio.

G. G. VACCHERI

SUL VERSO RELATIVO A BONIFACIO ARCIVESCOVO DI RAVENNA

“ CHE PASTURÒ COL RÈCÇO MOLTE GENTI,, I.

Purgatorio, XXIV, 29-30.

A G. L. PASSERINI.

Onorevole signore.

Ho letto nel suo Giornale dantesco (quad. I, pag. 47) che il signor Corrado Ricci ha promesso una chiosa sul verso relativo a Bonifacio arcivescovo di Ravenna (1274-1294) che pasturò col rócco molte genti. Ora io penso che ogni ravennate, un poco istruito sulle cose della sua città, possa dare la chiosa vera. Che cosa infatti sia il ròcco non solo lo sappiamo, ma lo vediamo. Esso è l'antico pastorale dei nostri arcivescovi, il quale è sormontato non dal solito riccio ma da una specie di tempietto o ròcca. Nel nostro museo classense ve ne ha uno visibile a tutti. Il dottor Ricci potrebbe darne la fotografia.

Alla parola pasturò alcuni hanno dato significato di biasimo: ma il verso dantesco riferito di sopra inchiude, a mio vedere, tanto biasimo quanto quello relativo a Martino IV che ebbe la santa Chiesa tra le braccia (Purg., XXIV, 22). E se del nostro arcivescovo la storia non dicesse nulla in proposito, quel verso si potrebbe spiegare ragionevolmente nel significato che Bonifacio, essendo arcivescovo di Ravenna, governò e resse molte popolazioni. Ma la storia vuole che s'intenda la cosa in modo diverso. Ecco quello che ne scrive il nostro storico Girolamo Rossi: «Non desunt qui huius Bonifacii Archiepiscopi meminisse; cum de abdominis voluptatibus addictis, verba facit, in altera sui operis parte, Dantem putent. Sed fuit Bonifacius christiana liberalitate maxime insignis, quod ostendit vel illud, quod in magna annonae caritate, qua haec omnis laborabat Provincia, cum Argentani plurimum afflictarentur, ipse et horrea quae ibidem habebat aperiri, et cum neque illa sufficerent, et opido etiam Chatolica frumentum illuc suum convehi et in populum, ex sui Vicecomitis » (così, o Visdomini si chiamavano gli amministratori della mensa arcivescovile residenti a Ferrara, Argenta, Cattolica, Cesena, ecc. ecc.), « praescripto distribui iussit. Extant adhuc in Ursiano tabulario illius hac de re litterae ad Vicecomitem argentanum Caesenae scriptae ».

Or bene: la fama di questo grande atto di liberalità cristiana non poteva essere dimenticato dai ravennati quando tra loro si rifugiava Dante Alighieri: il quale, facendone memoria ne' suoi versi immortali, pagava un bel tributo di affetto alla ospitale Ravenna, ad onore della quale ridondava la lode data al suo pastore.

1 Publichiamo di buon grado questa lettera del can. Savini, rettore del Seminario arcivescovile di Ravenna, nella speranza di far cosa grata agli studiosi e per ricordare al dr. Ricci la gentile promessa di una sua chiosa a questo verso dantesco.

2 HIER. RUBEI, Hist. Rav. Venetiis, 1589, lib. VI, pag. 186.

La direzione.

Se poi qualcuno trovasse da ridire perchè Dante, mentre racconta i peccati degli altri golosi, di questo, invece, non che narrare i vizi, loda le virtù: io risponderei che, quanto al lodarlo, il poeta ha motivi particolari, e quanto al tacerne le colpe fa con costui nè più nè meno di quello che ha fatto con Bonagiunta (versi 19-20).

Perdoni la libertà che mi sono preso, e mi tenga, onorevole signore, per suo obbligatiss.

FERDINANDO SAVINI.

VARIETÀ

Ricerche piccine, da fare, da poter fare.

To thee I send this written embassage to witness duty, not to show my wit. Shak. Sonn., XXVI, 3.

A conquistare la bellezza si va in frotta, con eserciti di nazioni; ma ciascuna ha il capitano dei capitani, che non cede la bandiera o la spada: il nostro è, sarà, l'Alighieri. Le foglie d'oro della sua ghirlanda le colse e mise in capo da sè; noi gli offriamo, con timida venerazione, le ghirlandelle di stagno e di carta: e c'è chi tiene il registro. Ma anche fuori dell'accampamento, se ne raccontano le gesta altri soldati: si ricombattono, con armi diverse, in terra diversa, le battaglie combattute da quel forte e se ne fanno i commentari. Anche di questa opera, ogni dì cresciuta, di volgarizzatori e di critici, c'è il registro. E non basta: o almeno, non mi basta. Quando, di volo, in una pagina che la rimpiatta ad occhi meno indagatori, una parola d'oro discorre del nostro poeta non vorrei che andasse dimenticata. Bisogna darsi la mano, amicamente e festosamente, a frugare, a raccogliere, a rimettere agli occhi del sole: se molti ci si industriano, si ha di più, si ha meglio, e si fa presto. Non vanno poste che due leggi, due regole: gettare da banda gli scritti che, tutti e dirittamente, si rivolgono a studiare l'uomo e le opere di lui, badando solo all'impreveduto: non tener conto che dei giudici di pregio grande, nei quali sia larga, fonda e feconda la erudizione, sia antica e nuova la sapienza, sia rapido e misurato il volo della fantasia. Qua e là basta un accenno: ora nudo e brullo il pensiero che viene fuori, ora vestito di un po' di commento, alla nostrale: ora le parole schiette di ogni lingua, ora vederle rifatte da un altro che le condensa, le discioglie, le tramuta. Altri vegga che cosa, e quando, giovi di più.

Gli studi fatti intorno all' Alighieri da Federico Cristoforo Schlosser sono conosciuti da un pezzo, ed è bene non trascurarli. Occhio di forestiero vede quello che, a casa nostra, non si vede più e vivo era l'occhio di quel contadino frisone, uomo di ferro e di fuoco. Ma non so che, nella famiglia di Dante, se posso dire così, si rammenti che cosa dell'amico morto, morto appena, scrivesse un altro grande, il Gervinus: parole meditate a lungo, e che la morte dello Schlosser fece tramutare in discorso da funerale, ma di quelli che durano (F. CH. SCHLOS SER. Ein Nekrolog, von G. G. GERVINUS. Leipzig, 1861).

Lo Schlosser s'innamora presto di Dante; è un'anima la sua che non vuole comperarsi il cielo, o raggiungerlo, coi miracoli: un cielo è per lei il conoscersi, nella sua pace. Legge, rilegge: meglio, e più, s' addentra nelle due ultime cantiche, dove è dipinta la beatitudine di intima e pura vita, contemplatrice della divinità, e che insegna a morire alle gioie del mondo. Voli di poeta arditi, franchi passi di filosofo: operare ed intendere; due potenze in un' anima sola; onde l'agitarsi fra le parti della città e insieme levare gli occhi all'amore divino. Dopo l'amore ideale della età prima, Dante è travolto nella fiumana della vita pubblica, ma torna alla poesia nel poema: lo Schlosser, strappato alla vita intima, dalle cose di fuori non riesce più a far ritorno in sè stesso: è un contemplatore che sa tutto essere vanità del mondo, e di esso mondo scrive la istoria. Conoscerlo e poterne far senza, ecco la virtù dell'Alighieri, che il suo fervoroso discepolo ammira di più. Al maestro somiglia, negli alti suoi pensieri, nella sua natura di uomo: e il corpo suo non somiglierebbe? S'accostino le due immagini: ecco lo sguardo acuto e dolce, il maschio naso, il mento in fuori, le labbra affilate e ben chiuse : quello che di Dante il Boccaccio e il Villani tu puoi dire del forte tedesco: alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso e quasi a guisa di filosofo mal grazioso non bene sapea conversare co' laici; come pare a Giovanni Villani (IX, 136) che è laico, e dello Schlosser pareva ai laici paesani. Alla memoria di lui dieno i suoi quel tributo di gloria che Italia diede al poeta, al più fiero di tutti i flagellatori de' costumi.

Dei pensieri del Gervinus questo è lo scheletro; veggano di che carne è vestito quanti ammirano lo storico vigoroso che sa agitare, minacciosa e punitrice, la sferza.

Chi vuole un altro esempio, meno aspettato di certo, legga le parole di Augusto Böckh, uno dei principi delle umanità, erede anche di ricchi italiani, ma, pur troppo, morti da un pezzo. Il cadergli ñella mente il nome del poeta, mostra come nella sua gioventù non lo trascurasse; quando ancora non soprabbondavano i cultori della poesia nostra del trecento di là dalle Alpi: Dantes pontificum larvas delictorum poenas luentium, ecclesiam squalore horridam, flagitiorum pondere obrutam apud inferos monstrat (L'orazione è del 1817 e si legge nelle Orationes, Lips. 1858, p. 49), e Dante e lo Shakespere erano fra i moderni soli degni che il Böckh li comparasse ad Eschilo (Encyklopädie u. Method d. phil. Wissenschaf ten. Leipz., 1877, p. 642). Quando cominciasse a dirlo, nessuno può dire; gli appunti che, morto il maestro, furono stampati dal Bratuscheck, gli avevano servito di guida alle lezioni dal 1809 al 1865.

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E codesto a che cosa gioverebbe? A legare assieme gli intelletti delle nazioni: un nome, una parola basta. Fu detto in molti modi quello che giudica il Taine della Commedia; ma tu godi a sentirlo giudicato da lui: probablement, par l'imagination, encore à présent ce tableau est le plus exact comme le plus coloré du monde humain et divin tel que le conçoit l'église catholique » Rev. d. d. Mondes. vol. CV, pag. 499); allo stesso modo che, giunta improvviso, una voce di commento va sopra le altre, ed è voce del Goethe. Il Goethe, discorrendo alla buona, come egli usava, delle lettere di Fr. H. Jacobi, conchiude: « Ben posso lodare il nostro Dante (unsern Dante) che ci permette di cercare la nipote di Dio », e poi traduce (Inf., XI, 100-105).

ei pochi versi che seguono.

Von Gott dem Vater stammt Natur

E. T.

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