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governo popolare di Firenze simboleggiato nella pelle maculata per i partiti che vi si contendevano il comando, meritava la taccia di leggerezza nel risolvere e di soverchia lestezza nel cambiare gli ordinamenti. Così stava bene al reame franzese l'alterigia e la rabbiosa fame leonina come alla corte romana il paragone colla lupa mai sazia. Ora se le cattive signorie tagliano all'uomo la via che mena al benessere, le passioni lo distolgono dal raggiungimento della moral perfezione nella terra, la beatitudine nella eternità. Ma come l'epiteto di leggiera dato alla lonza s'adatta al vizio dell'invidia, e l'attributo di presta molto al vizio dell'accidia, è da creder che in esse sian moralmente figurati que' due disordini spirituali. Nel ieone che contro Dante si avanza con la test' alta e con rabbiosa fame si ravvisan espresse superbia ed ira; e nella imagine della lupa malvagia e insaziabile le figure tipiche dell'avarizia, della gola, della lussuria che adunano in sè tutte le voglie di cui nella sua magrezza dava mostra la fiera. In conseguenza, la lonza è, nel senso morale, figura dell' invidia e della pigrizia; il leone della superbia e dell'ira; la lupa dell' avarizia, della lussuria e della gola. Come poi per questi sette peccati capitali corrispondenti ad altrettante piaghe (Sette P nella fronte mi descrisse. Purg, IX, 110) a sanar le quali deve l'uomo far penitenza, egli non può arrivare fuori della vita a goder la vista divina, così essi appaiono adombrati in senso anagogico nelle tre belve che gli si frappongono a salir il monte della virtù, o dell' umana perfezione, rischiarato dalla luce dell'eterno Vero. (141 Le chiose latine del codice Ambrosiano C. 198 inf. (In Bullettino della Società dantesca italiana. No. 8. 1892).

Rocca Luigi.

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Una data occorre in queste chiose, nel canto XVII di Paradiso, dove di Arrigo di Lucemburgo è detto Imperatorem, avum presentis karoli imperatoris, m.ccc.lv. La data è chiara ed esplicita; tanto, che il Witte non dubitò di asserire che le postille di questo codice son del 1355. Il Rocca, confermando l'opinione del dantista tedesco, crede che queste postille, composte in quell'anno, avesser a soffrire più tardi qualche interpolazione: come, ad esempio, la nota ove è detto che Cervia semper sub custodia dominorum de polenta fuit, nunc vero a malatestis strenue possidetur, che ci porterebbe, nientedimeno, al 1383, quando, cioè, Galeotto di Pandolfo Malatesta, dopo aver attizzato contro Guido da Polenta l'ira di papa Urbano, ne invadeva le terre, già desolate dalla peste, e gli toglieva Polenta, Cuglianella e Cervia. Secondo il Rocca, adunque, le chiose del codice ambrosiano, composte nel "55, sono trascritte letteralmente da un altro codice: ciò che spiega facilmente l'esistenza in esse di postille di diversa data, sebbene scritte da una stessa mano e senza traccia materiale di interpolazione. Nel manoscritto da cui questo deriva, alle chiose compilate nel 1355 ne erano state aggiunte altre più tardi -- e quella intorno a Cervia, posteriore al "38, è appunto di quelle, che poi entraron nel codice ambrosiano mescolate e confuse colle altre. Quanto al lor merito, queste postille non han maggior pregio delle altre contemporanee. Nessuna larghezza di vedute, nessun corredo scientifico che appalesi nell'autore un uomo dotto. Come i commentatori primitivi, ai quali meglio assomiglia, egli si ferma di preferenza alle spiegazioni allegoriche e alle notizie mitologiche, sorvolando facilmente sulle difficoltà vere del testo. Nulla d'importante d'altronde neppur nel campo allegorico. Il mezzo del cammin di nostra vita è per il nostro chiosatore, che segue in ciò un de' più antichi commentatori, il sonno: la selva oscura lo stato vizioso: il colle è Cristo stesso, via della verità e della vita. Cristo è pur il veltro che caccerà la lupa, e tra feltro e feltro significa in nubibus secundum evangelium Mathei: admodum videbitis filium hominis venientem in nubibus celi; per similitudinem filtrum nubi comparatum, quia utrumque ex condensatione compingitur. Le tre belve son la lussuria, la superbia e l'avarizia, e stanno a significare, secondo il commentatore, che dà all' allegoria generale della Commedia un senso affatto personale, che Dante fu molto lussurioso, superbo ed avaro. La chiosa sulle tre donne del secondo canto, quella su colui che fece

per viltade il gran rifiuto, e qualche altra, dan prova della conoscenza che il commentatore aveva di altri commenti anteriori. Talvolta egli rifiuta decisamente le opinioni de' suoi predecessori (canto XIV d'Inferno, X di Paradiso): una volta (Inferno, XX) a proposito di Guido Bonatti rifiuta pur l'opinione del poeta. Hic ego non consentio danti, quia iste fuit astrologus et nihil de eo damnabile fertur. Composuit summam laudabilem in astrologia. Degna di nota la chiosa sulla Fortuna al VII d' Inferno, ove il postillatore accenna aperta. mente alle censure dell'ascolano contro il poema. Cautelose, lector, adverte ne credas errasse poetam, sicut credidit magister cescus de esculo, qui iudicavit non tota comedia prospecta. Loquitur enim dantes de Fortuna tripliciter: hic more paganorum qui eam pro dea colebant, ut recitat Augustinus de civ. dei li. iiij; in purgatorio more philosophico, secundum Aristotelem de bona fortuna; in paradiso more theologico, secundum beatum thomam de Aquino. Et sic in inferno ostendit [se] mere poetam, in purgatorio philosophum, in paradiso theologum ; per quam distinctionem excusatur in multis casibus, in quibus errasse videtur. Curiosa invece per la novità è la piccola chiosa su i due giusti che in Firenze non son intesi (Inferno, VI, 73): Incerte loquitur, et sic ostendit paucos bonos ibi fore. Aliis videtur quod poeta dixerit hic de se et de quodam suo socio qui vocabatur lannes de la bella. Difficile è stabilire con quali commenti anteriori a noi noti queste chiose concordino. All'Ottimo si accosta in qualche passo il nostro commentatore: ad esempio in quello delle tre donne allegoriche. Una chiosa sopra Beatrice nel canto II direbbesi presa dalla redazione ashburnhamiana del commento di Pietro Alighieri; ma queste somiglianze non son tali da poterne accertare una relazione qualsiasi. Ad un risultamento più positivo si giungerebbe forse confrontando le chiose col commento di frate Guido, al quale l'opera del nostro postillatore non pare affatto estranea: ma quel commento giace ancora inedito, e solo si posson far voti che il proposito della Società dantesca italiana di darlo alla stampa abbia sollecito effetto. (142 Rossi Vittorio. Esame dell'opera di G. Castelli « La vita e le opere di Cecco d' Ascoli. (In Giornale storico della letteratura italiana. Vol. XXI, 62-63).

L'opera del Castelli è incompiuta: e per ciò che si riferisce alle ricerche anche l'autore lo pensa; riguardo poi al disegno generale lo danno a conoscere certe ineguaglianze di stile e di proporzione, che l'autore stesso confessa pur confidando che non ne restino menomati l'unità e l'ordine del suo libro, quanto la sconnessione, l'abondanza e la lunghezza dei riferimenti, certe non rare ripetizioni. L'origine frammentaria del tutto si pare nella mancanza di quell'organamento compatto che è pregio essenziale dei lavori storici; è chiaro che all'autore non venne fatto di inquadrare la materia in un disegno netto e ben definito, in uno schema in cui le notizie e le osservazioni faticosamente raccolte venissero adagiandosi come in lor luogo e formando un tutto indissolubile ed immutabile, e che guidasse il lettore senza salti e quasi naturalmente dall' una parte all'altra del tema, porgendogli un filo tenace in mezzo al labirinto delle discussioni e delle ipotesi. Così gli accade di parlare due volte di Cecco alchimista, tre di certe sue profezie, e di riferire due volte uno stesso sonetto; così potè, senza difficoltà, inserire in due diversi luoghi, poco a proposito in entrambi, le vulgate notizie su quel fra Pacifico che pare abbia composto dei versi per Arrigo VI, nè s'avvide che forzata è in certe parti la distribuzione della materia, che, per esempio, la grave questione su la cronologia dell'Acerba era più logico e più conveniente trattarla nel capitolo che dal poema s'intitola, anzi che in quello intorno a le relazioni fra Cecco e Dante. Di tal deficenza di elaborazione e di assimilazione fa fede chiarissima l'abitudine che il Castelli ha di riferire testualmente lunghi squarci di scritture riguardanti direttamente o indirettamente l'ascolano, si che, o qualche capitolo, il quinto ad esempio, si riduca, suppergiù, ad una serqua d'appunti male imbastiti, ovvero che ciò che qui l'autore esprime con parole sue riappaia poco

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dopo nella prosa d'un altro scrittore. A queste osservazioni generali, il Rossi fa seguire una rapida rassegna della contenenza del libro mettendo in luce ciò che di nuovo l'opera del Castelli aggiunge alla scienza e discutendo quelle tra le opinioni dell'autore che paiono o inesatte od errate. Importante l'esame del capitolo nel quale son toccate le relazioni fra Cecco e il nostro poeta. Non si può ammettere col Castelli che l'ascolano fosse amico del grande fiorentino pare bensì certo che fra i due poeti sia interceduto commercio di lettere: ma anche si dee osservare che del carteggio fra l'Alighieri e lo Stabili unica prova restano due versi dell'Acerba (II, 12). Non lode, ma un semplice richiamo ad una nota canzone del Convivio si contiene nel verso Fu già trattato con le dolci rime; non lode suonano le antiche lime con cui, al dir di Cecco, l'autore nostro trattò della nobiltà, ma per il contrapposto delle giuste prove con cui egli si propone di risolvere la quistione, anzi biasimo; similmente per un uomo che dileggia come ciance le più solenni creazioni del genio dantesco (IV, 13) non certo era un pregio l'adornezza ch'ei riconosceva al parlare dell' Alighieri. Le sottigliezze del Castelli non posson convincere che il famoso Qui non si canta al modo delle rane sia semplice affermazione di una teoria o, diciam anche, di un pregiudizio artistico. Il sesto e il settimo verso Qui non si sogna per la selva oscura Qui non veggo Paolo nè Francesca, si collegano, per la loro movenza, sì strettamente ai due primi che non è possibile scinderneli e veder in quelli una frecciata a Dante in questi disprezzo per altri poeti. Dopo tutta quella tirata, che è il più violento, ma non l'unico attacco contro l' Alighieri, non si può parlar di amicizia e di ammirazione di anime fatte, come dice il Castelli, per intendersi e stimarsi altamente. Ma per giudicare rettamente di questi attacchi è necessario determinare se avanti o dopo la morte di Dante il poema sia stato composto; perchè, dice il Castelli, solo nel secondo dei casi la critica avrebbe diritto e dovere di chiedere ragione a Cecco del modo che tiene esaminando la dottrina e le opere di un uomo a lui tanto superiore, quando questi non era più in grado di difendersi. E l'autore si argomenta, naturalmente, a dimostrare che l'Acerba fu intrapresa e continuata innanzi alla data fatale del 13 di settembre 132, fondando le sue congetture su le profezie contenute nel poema dello Stabili. Ora, far tetri pronostici fu sempre mestiere di tutti i profeti: mestiere che, a mantenersi sulle generali, non è poi difficile e può spesso sortire lieto successo; ma che un uomo, sia pure quanto si voglia dotto in astrologia, in geomanzia, in chiromanzia e in tutte le scienze occulte, possa predire fatti determinati, chi non creda a' miracoli non può ammettere assolutamente. Il Castelli conchiude che da nessuna delle profezie contenute nell' Acerba scaturisce un' indicazione cronologica posteriore alla morte di Dante; ma da molte fra esse siamo condotti invece ad un periodo di tempo ch'è posteriore al 1321: da che se non potrem trarre la conseguenza che tutta l'Acerba sia stata scritta dopo morto Dante, dovrem bensì persuaderci che dopo la morte di Dante Cecco abbia dato al suo lavoro l'assetto definitivo. Ma il Castelli obbietta

che in due luoghi lo Stabili nomina Dante come persona viva (II, 1 e III, 1). E sia: ciò vorrà dire che il poema fu cominciato prima che l'Alighieri scendesse nel sepolcro e continuato dopo il "21. Ciò che non pare assolutamente indiscutibile si è che Cecco, rimaneggiandolo e modificandolo largamente dopo quell'anno, non soppresse gli attacchi contro il gran fiorentino, forse anzi ne aggiunse di nuovi che egli aveva in animo uscissero alla luce e corressero il mondo pure allor quando l'emulo non avrebbe più potuto rispondere. Il Castelli non è solo di opposto avviso, ma pensa anche che Dante fosse pienamente consapevole della superba impresa che il povero astrologo aveva ideata e veniva faticosamente compiendo, e nel ricordo del mito delle Pieridi al principio di Purgatorio, del mito di Marsia al principio di Paradiso vede un avvertimento dato, con decoroso riserbo, al poeta che stava meditando opera che potesse competere colla Commedia, e nel discorso di Marco Lombardo nel XVI di Purgatorio la risposta giustificativa alle censure che Cecco aveva mosso al VII dell' In

ferno. A parte le obbiezioni, che pur nella incertezza in cui siamo sulla cronologia delle due prime cantiche dantesche sarebbe agevole movere al Castelli, le son queste ipotesi che, a lasciar libero il freno alla fantasia, potremmo moltiplicare. Se pochi giorni prima del supplizio di Cecco l'Acerba era una vera novità come poteva il divino poeta averne piena conoscenza sei anni prima? La fama di cui già in suo vivente Dante aveva goduto dopo la publicazione dell'Inferno e del Purgatorio e la gloria che poi raggiò fulgida dalla tomba di Ravenna suscitarono lo spirito di emulazione e l'invidia dell' astrologo d'Ascoli, e l'Acerba nacque. Cfr. ni. 2, 54 e 70. (143 Sestini Bartolommeo. La Pia de' Tolomei: leggenda romantica con introduzione, note e commenti per cura di P. Spagnotti. Torino, G. B. Paravia, 1893, in 16o, di pagg. 88. (144

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Spagnotti Pio. Cfr. no. 144.
Spangeberg Hans. Cfr. no. 122.

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Supino Igino Benvenuto. - Il pergamo di Giovanni Pisano nel duomo di Pisa. (In Archivio storico dell'arte. Anno V, fasc. 11).

Fa la storia del monumento, dalla primitiva e originaria costruzione al disfacimento avvenuto per l'incendio del duomo (1320-1595), e discute intorno al disegno di ricomposizione del pergamo ideato dal Fontana ed affidato dal comune pisano, per la esecuzione, allo scultore Tito Sarrocchi di Siena. (145 Una nota dantesca. (In Giornale storico della letteratura italiana.

Tamassia Nino.

Vol. XXI, 62-63).

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A proposito del passo del canto VI di Purgatorio (versi 1-6) Quando si parte il giuoco della zara...., riferisce il seguente delle letture sul codice e le pandette di Odofredo: Item sicut videmus in lusoribus ad taxillas vel similem ludum, nam multi stare solent ad vi dendum ludum, et quando unus lusorum obtinet in ludo, illi instantes solent petere aliquid sibi dari de lucro illo in ludo habito, et illi lusores dare solent, et si de suo patrimonio aliquis ab eis peteret alias si in ludo, reputarent eum fatuum. Quivi alcune delle figure del superbo quadro dantesco sembrano al Tamassia delineate nelle parole di Odofredo ; i soliti appassionati del giuoco che non possono giuocare e circondano i giuocatori, per chiedere a colui che riesce vincitore una piccola parte della vincita; il vincitore circondato da questi che instantes solent petere ed ottengono, di fatto, qualcosa da lui, còlto in un momento di emozione e di generosità. Odofredo non ricorda l'altra figura con breve tocco animata dal sovrano poeta, cioè il perditore: ma ciò non toglie che la analogia fra le due situazioni sia, ad ogni modo, sorprendente. Non pare inverosimile che Dante, così versato anche nel diritto come è provato dalla sua Monarchia, abbia potuto rammemorare un esempio del maestro di Bologna, che, se non fu un giurista della forza di Azzone, ebbe pure una certa voga, e le cui lezioni, complete e ricche di citazioni di vecchi dottori, divulgaronsi abbastanza largamente per opera de' suoi scolari. (146 L'esilio di Dante nella divina Commedia. (Recensione in La Cultura. Anno II della nuova serie, ni. 17-18).

Trenta Giorgio.

Il Trenta opportunamente ha raccolto i passi ove il poeta ha accennato al proprio de stino, come prova del desiderio che l'Alighieri nutrì di far a tutti conoscere quale ricompensa avesse data la patria ai benefici ch'ei le aveva recati. Cfr. no. 76. (147 A Ravenne. (In Revue des deux mondes. Vol. 117, 15

Vogué (De) Eugène-Melchior.

di giugno, 1893).

Vi si accenna, fra altro, alla tomba di Dante e alla storia del ritrovamento delle ossa del poeta. Ravenna è alquanto vergognosa del modesto refugio ch'ella offre alle reliquie del suo gran morto; essa vorrebbe onorare Dante Alighieri d'un mausoleo più degno. A tale

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scopo, nel 1888, la città gittò un appello a' monarchi e a' popoli della terra : ma un solo sovrano rispose subito: e per avventura il più povero, il principe spodestato, Leone XIII, che da Roma mandò diecimila lire pel nuovo sepolcro. Gli altri monarchi tacquero: poco o niente si fecer vivi i privati. Forse il modo con cui fu presentata l'idea generosa fu causa di questa indifferenza generale, altrimenti inconcepibile. Ma perchè Ravenna non pensa a consacrare a Dante la tomba di Teodorico? Il mausoleo è antico, illustre, magnifico: da' secolari alberi che lo circondano scendon sul monumento la pace e la poesia; dalle rose e da' garofani del propinquo giardino sale alle mura superbe un dolce profumo. Se sulla tomba di Dante fosse concesso di scrivere altri versi che i suoi, al piede d'una colonna presso al sepolcro si potrebbe incidere il verso byroniano I sepolcri ereditano i sepolcri.

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G. L. Passerini.

Perchè questo bollettino riesca, quanto più è possible, completo, la direzione prega vivamente autori ed editori di inviarle libri, opuscoli, riviste o giornali letterari e politici contenenti cose dantesche. Di tutte le publicazioni inviate in dono sarà sempre data notizia ai lettori: e delle opere più importanti sarà fatta sempre la recensione nel Giornale dantesco.

NOTIZIE E APPUNTI.

La Società editrice Dante Alighieri, recentemente costituitasi in Roma (via delle Convertite, N. 8), ci manda la seguente circolare che di buon grado publichiamo:

« L'Italia è in Roma da oltre un ventennio, e da Roma attende ancora ogni più alta e ardita ispirazione. Ma, per una strana fatalità, in mezzo a tanto concorso di forze nazionali, non è sorta finora, nella capitale del regno, alcuna gran casa editrice, la quale risponda alle aspettazioni che, anche nell'ordine degli studi, destò la presenza dell'Italia nella città dei Cesari.

A Roma, dove si converse tutta la luce intellettuale del mondo antico, dove il genio di Dante mirò a ricostituire, con un imperio ideale, la civiltà moderna, dove, finalmente, con la maestà regia dell'Italia, rifatta signora di sè stessa, risiedono il governo della pubblica istruzione ed i maggiori istituti scientifici, doveano naturalmente prepararsi le opere letterarie più geniali e meglio ispirate, i migliori libri per le scuole, e la biblioteca scientifica nazionale più universalmente accessibile.

E pure è mancato fin qui l'editore coraggioso, che, al di sopra di ogni volgare speculazione, mirasse serenamente, con la pubblicazione di opere originali, dilettevoli e sapienti, a promuovere ed innalzare la coltura della nuova Italia, e con una serie di libri scolastici, informati ad alto concetto educativo, procurasse di migliorare l'insegnamento nelle nostre scuole, dove corrono ancora troppi libri mediocri, e dove urge rendere l'istruzione più viva, più efficace, e più salda di quello che non sia attualmente. È mancato altresì l'editore, il quale, nell'ordine scientifico, segnasse un indirizzo preciso e costante a maggior decoro della scienza italiana.

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