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invettive contro i papi, deplora l'abuso dei beni temporali; ma nel passo dell' imperatore Costantino ove parla della donazione di Roma (una e principale prerogativa imperiale) riconosce e sfolgora in tale donazione la radice prima di tutti questi abusi; quindi il poeta è tutt'altro che favorevole alla civile dominazione dei papi sopra Roma, condannandola in sè come lesiva delle prerogative imperiali, e nelle conseguenze, come fonte lagrimevole di innumerevoli mali.

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Per ultima prova in favore della propria tesi il Poletto mette avanti l'esaltazione di Carlo Magno, di Matilde di Canossa e del monaco Graziano, i quali avendo, chi in un modo chi nell' altro favorito il poter temporale, non avrebbero dovuto essere stati classificati nel numero dei beati. A questa obbiezione parmi d'aver risposto altra volta: mi sbrigherò quindi in poche parole: Dante, come ha messo in paradiso Costantino che colla sua donazione ebbe scisso l' impero, pur lodandone la pia intenzione, così fece di altri personaggi, senza che da ciò si possa dedurre che il poeta approvasse ogni loro atto.

Un'ultima prova voglio recarla io pure. Dante nella Monarchia dice: « Forma autem Ecclesiae nihil aliud est quam vita Christi » tam in dictis quam in factis comprehensa ». La forma della chiesa, traduce Marsilio Ficino, non è che la vita di Cristo ne' detti e ne' fatti suoi compresa. Da questa dottrina, della cui ortodossia nessuno può dubitare, consegue che la chiesa, governando un regno mondano, si disforma dai detti e dai fatti del proprio modello e fondatore Gesù Cristo, il quale davanti a Pilato disse: « Re» gnum meum non est de hoc mundo; si ex hoc mundo esset regnum » meum, ministri mei utique decertarent ut non traderer Judaeis: » nunc autem regnum meum non est hic ». Nelle ultime pagine dello stesso libro III della Monarchia Dante espone le prove dalle quali risulta che la chiesa non è depositaria della imperiale autorità; nè quindi ha potere di creare l'imperatore. Soggiunge poi che per divina legge il sacerdozio, i pastori della chiesa, e il supremo dei pastori non devono avere sollecitudine delle cose temporali, non possedere regno mondano, non immischiarsi nel civile regime. Questo è più che sufficiente per ritenere che Dante non era menomamente favorevole al dominio temporale dei papi; e questa conclusione risulta appieno legittima anche da questa sola osserva

1 Lib. III, 14.

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zione: la chiesa non ha potere di conferire l'autorità del temporale governo perchè per lo meno nel conferire tale autorità ci sarebbe sollecitudine di cosa temporale, e poi di cautela continua acciò che chi ha ricevuto la temporale autorità non deviasse dal tramite della rettitudine. « Cum saltem in authorizando sollicitudo provisionis instaret, et deinde cautela continua, ne authorizatus a » tramite rectitudinis deviaret ». Che se è sollecitudine temporale vietata dalla divina legge ai pastori il solo designare chi debba esercitare il temporale dominio, non sarà ancora più sollecitudine mondana il reggere uno stato? E questa sollecitudine per parte dei pastori potrebbe conciliarsi, colla divina legge che inibisce al sacerdozio di immischiarsi in cure mondane? lo cambierò volentieri d'avviso quando il Poletto mi dimostrerà che, se è sollecitudine temporale il solo eleggere un principe civile, non lo sia il governare civilmente uno stato. È una fatalità che al Poletto siano sfuggiti questi passi dell' Alighieri, perchè altrimenti la di lui lealtà e l'amore del vero lo avrebbero costretto a modificare di molto le sue idee sull' argomento.

Ma veniamo alla conclusione, e, prima, a quella del Poletto: << Concludiamo dunque che pure poterat Imperator in patrocinium » Ecclesiae patrimonium et alia deputare (e vedete bene che Dante » non solo accorda il Patrimonio, ma anche alia), ma che lo con» cesse davvero (stando alla supposta donazione, creduta a' tempi » di Dante); e in ciò nulla nè di contrario al diritto, nè di cagione di male; il male si fu che l'Impero non abbia fatto ri» serva dell'alto dominio, « cuius unitas divisionem non patitur »; e >> così resta raffermato che tutto ciò che nelle Opere di Dante pare » far contro al civile Principato dei Papi, non è che un' apparenza, » che, alla luce di sereni e irrepugnabili argomenti, come nebbia al » sole tosto si discioglie «<.

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Ed io dagli appunti e dalle osservazioni fatte sono in diritto di terminare questa discussione colla seguente contro conclusione: Dante non ammetteva legittimo il principato civile dei papi in quanto esso si riferiva a Roma, e in quanto questo principato civile non riconosceva l'alto dominio dell' imperatore. Se poi io torno a ricordare che secondo Dante l'imperatore poteva dare alla chiesa un patrimonio ed altre cose al modo in cui disponevano gli apostoli di beni temporali, sono costretto a concludere che Dante non ammetteva un vero principato civile nei papi, ma l'uso unicamente di una sostanza temporale a sussidio puramente della Chiesa e dei poveri di Cristo.

Dopo tutto questo confesso che mi è riescito di sommo rin

crescimento il vedere un esimio cultore di discipline dantesche, quale è certamente il prof. mons, Giacomo Poletto, tirare in iscena, come hanno fatto altri dantisti d'occasione, il sommo poeta, per decidere una quistione che ai suoi tempi non si agitava, e intorno alla quale è vano voler trovare negli scritti di lui una diretta soluzione. E tanto più mi rincresce in quanto che il Poletto, in altri capitoli del suo bel libro, così oggettivo ed imparziale, ha delle osservazioni e pone in sodo delle deduzioni che non si possono conciliare con quanto nel corpo della presente trattazione vorrebbe far dire al poeta. Questo contrasto del Poletto con sè stesso fa torto evidente alla di lui perizia negli studi danteschi, è presso i malevoli lo potrebbe far apparire, ingiustamente, è vero, ma non senza apparenza di verità, almeno in questo punto, un dantista di

occasione.

E terminando questo esame critico intorno al commento del Poletto trovo conveniente di dichiarare che con questo mio scritto unicamente ho inteso di porre in chiaro, come meglio ho potuto, il reale concetto di Dante sui rapporti tra papato ed impero. Se mai alcuno ci volesse veder sotto qualche altro fine meno ogget tivo gli protesto che male si apporrebbe.

Lodi, giugno, 1893.

GIOVANNI AGNELLI.

Per assoluta mancanza di spazio siamo costretti di rimandare al prossimo numero due articoli importanti su la Beatrice di Dante, inviatici, in risposta allo studio di G. A. Scartazzini (Giorn. Dant. quad. III, pag. 97), dai nostri egregi collaboratori prof. Ireneo Sanesi e cav. Ferdinando - Ronchetti.

LA DIREZIONE.

GLI SCIAGURATI ED I MALVAGI

NELL' INFERNO DANTESCO

I.

Nell' interpretazione di Dante due cose inducono frequentemente in errore, l'imperfetta conoscenza della lingua e la considerazione parziale dei passi. Noi crediamo per lo più di conoscere benissimo la lingua di Dante, e invece l'uso più recente ci fa spesso prender degli abbagli. È vero che la lingua di Dante è principalmente quella del tempo suo, e di propriamente personale, dantesco, c'è ben poco, ma non per questo noi siamo più sicuri d'intenderla bene. Inoltre il grande poema, che in così piccolo volume comprende miriade di fatti e di cose e quasi altrettante bellezze, molte volte non si ripresenta tutto chiaro e compiuto alla nostra fantasia quando siamo assorti nella considerazione di un punto singolo. Tanto ciò è vero che il buon Giuliani credette di doverlo ricordare continuamente allo studioso, ponendo sempre in fronte alle sue edizioni il famoso Dante spiegato con Dante.

Ponendo mente a questi due elementi essenziali, la lingua e il sistema dantesco, io penso adunque che si possa dichiarar meglio un importante episodio del poema e tutta una serie di concetti che gli si collegano.

Quei meschinelli che il poeta incontrò tra la porta dell' inferno e l'Acheronte, nel cosiddetto vestibolo, hanno ottenuto dagli irreprensibili commentatori gli appellativi più fieri: c'è chi li ha chiamati vigliacchi, altri, con uguale intendimento, vili; altri infingardi, poltroni, accidiosi, e lo Scartazzini, con un'acutezza e precisione tutta sua propria, noncuranti. Come vedesi, in questi titoli ce n'è a sufficienza per condannare alle pene del profondo inferno ogni buon cristiano; perchè se la viltà e la vigliaccheria sono qualità basse e negative d'ogni bontà, se la poltroneria è funesta allo sviluppo di quell' attività che nelle opere spirituali e nelle terrestri l'uomo per divino istituto dovrebbe esercitar sulla terra, se l'accidia è quel peccato così cristianamente classico che tutti sanno, non si vede perchè mai queste anime non abbiano potuto trovar posto giù nell'inferno.

La noncuranza dello Scartazzini poi è quella tal cosa che potrebbe essere un vizio ma anche una virtù addirittura, se tale p. es. è quella che Virgilio consiglia a Dante quando gli dice:

Che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

Vien dietro a me e lascia dir le genti.

Se dunque al punto in cui siamo con gli studi danteschi si seguitano a prendere così grossi svarioni, sarà sempre lecito di mettervi bocca! La falsa maniera d' intendere questi veri sciagurati tra i personaggi danteschi, si spinse al segno che molti, pensando, giustamente, al carattere fiero di Dante, a torto vollero credere che contro di essi il poeta avesse accumulato l'odio ed il disprezzo più feroce, e gli fecero dire che i dannati, come un Vanni Fucci, o una Taide, avrebbero avuto a sdegno la vicinanza di quei vili. Doppio sproposito: perchè in primo luogo i rei sono gli angeli rei non gli uomini dannati, in secondo, alcuno in significato di nessuno non c'è mai stato nella nostra lingua, e non c'era neanche nel francese sin dopo Dante oltre di che, come fu bene osservato, è una vera proposizione eretica che i dannati abbiano certa gloria, certo alto e nobile sentimento del peccato commesso, e questo per di più contraddice a quello che Dante fa intendere sempre e in tutti i modi, della coscienza che i dannati hanno della loro tristizia e della loro miseria, sino a sentirne vergogna. Quanto meglio se tutti, dal Monti al Bartoli, si fossero fermati al senso vero, letterale delle parole!

Dante non dà a quelle anime nessun appellativo, e credo che lo faccia a posta, perchè non vede in esse alcuna nota: la coscienza di questi sciagurati è veramente neutra, e però il suo sentimento non può essere nè di odio nè di dispetto, ma di commiserazione mista a disprezzo. Egli accenna ad essi come a cattivi, tristi, sciagurati, e chiama cattivo il coro degli angeli neutrali che tra loro si mescola. Tristi, sciagurati, cattivi, son tre vocaboli che al suo tempo non avevan punto il significato che han preso poi, ma tutti valevano quanto misero, meschino, afflitto. Per rispetto a cattivo richiamerò il verso in cui Dante allude alla povera Ecuba, e, neanche a farlo a posta, con tre espressioni che sono tutte riferite anche agli sciagurati :

Ecuba triste, misera e cattiva,

nelle quali non è nulla che suoni infamia. So bene che qui potrebbe « cattiva valer << prigioniera », « schiava », come trovasi nel Convivio, II, 13: « E misimi a leggere quello non conosciuto libro di Boezio, nel quale cattivo e discacciato, consolato si avea », e in molti autori antichi, e con

Giornale Dantesco

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