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aria più decisamente letteraria presso alcuni poeti del cinquecento. Ma non è difficile che rimaniamo al significato di meschino e di vile, che del resto si accompagna sempre a quello di prigione e di schiavo tutte le volte che è usato dagli antichi in questo senso. Il provenzale e l'antico francese non intendono per caitiu e chétif altro che misero e infelice, ed il siciliano chiama cattiva la povera vedova. Io non conosco che siasi mai adoperato dagli scrittori anteriori a Dante altrimenti che per « misero» la parola <«< cattivo ». Anzi, un solo esempio ci resta da aggiungere a quelli testè citati per comprovare che anche in Dante stesso, in prosa ed in poesia, è sempre così adoperato. Esso è in Convivio, I, 11: «E tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo volgare », dove si parla di pusillanimità e di viltà d'animo, come chiaramente risulta dal contesto, e non di malvagità. Nè solo in Dante, ma nel Petrarca stesso cattivo ha solo questo valore. Il verso del Petrarca, (Trionfi, I, 4), così spesso citato, ma dagli antichi nel significato giusto, e dai moderni nell' erroneo, sino il verso

Che par dolce ai cattivi, ed ai buoni acra,

ci dà pienamente ragione perchè vi si parla di cosa

Ch'ogni maschio pensier dell' alma tolle.

Sicchè non v'ha dubbio alcuno che da captivus « prigioniero » si venisse a « prigioniero di guerra », « schiavo », e quindi a « infelice » e « misero ». Ma accanto a questo significato si sviluppò ben presto e crebbe per proprio conto quello di « vile », « basso ». È come uno sdoppiamento del concetto di servo fra la specie degl' infelici e quella degli spregevoli. C'è già un po' nel verso citato del Petrarca, ma è nel Boccaccio che per la prima volta. si trova chiaramente quest' ultima accezione del vocabolo, insieme con la prima più comune e più frequente, ma pur non si trova quella di malvagio, delinquente come ai giorni nostri. Io non posso costringere qui il lettore a seguirmi in una disamina di tutti i luoghi del Decamerone in cui trovasi la parola di cui ci occupiamo, per mostrargli che essa dall' accezione primitiva di «< misero » venga nel Boccaccio da una parte a (( compassionevole», dall' altra a « spregevole per vizio d'intemperanza», come quello di Pietro di Vinciolo perugino: una volta sola apparirebbe nel senso vero, proprio di malvagio, cioè nella nov. 10 della 4a giornata: « Era costui chiamato Ruggiero da Ieroli (che sia d' Ajeroli, Agerola ?), di nazion nobile, ma di cattiva vita e di biasimevole stato »; nondimeno qui si trova più nel senso di vile, sudicio, come donnajuolo, anzichè di malvagio. Una rondine non fa primavera, e ad ogni modo noi qui appunto, e in passi

somiglianti di altri scrittori, dobbiamo trovare i vari gradi per cui è passato captivus da «< prigione » a perverso ».

Trapasso curioso, ma naturalissimo. C'è una famiglia di vocaboli che ci attestano come all'idea di tristo si venga movendo da quella di infelice. E primo di tutti il nostro stesso tristo, poi lo sciagurato, poi il cattivo, poi anche meschino, che prima valeva « servo »; poi fello e fellone, i quali da infelice, afflitto, son passati al senso di traditore, cioè malvagio della peggior specie, o finalmente miserabile ai giorni nostri. Si può ricordare analogamente il zazóg e il vilis. Così i cani danno addosso al poverello, e così il povero mendicante fa spavento ai bambini! Ma lasciando gli scherzi, è noto che ai concetti astratti e morali si sale da quelli concreti e materiali, e che la virtù e la bontà trovansi espresse con parole che prima significavano forza e gagliardìa.

Dunque nel passo dantesco in quistione cattiro non può avere altro significato all' infuori di quello di misero ed infelice, o, tutt' al più, di vile: ma questo come suonava anticamente, cioè dappoco, piccolo, basso.

Dell'uso di tristo è inutile portar esempi: nel poema, fatte alcune poche eccezioni, val sempre melanconico, misero, e nei pochi passi che rimangono non vi è mai la significazione di malvagio isolatamente, ma insieme anche la più comune.

Non v'è proprio da dir verbo per sciagurato, che il Boccaccio nel commento spiega risolutamente per sventurato; troppo manifesta è la sua origine, troppo usuale nel suo significato etimologico: anzi il trovarlo qui una sola volta in tutto il poema, ci illumina veramente tutto l'episodio. Ed a rincalzo di tutte queste espressioni sopraggiunge il misero modo che quelle anime tengono nell' antinferno.

Meschini sono questi spiriti, misero è lo spettacolo che di essi si offre. Sicchè noi non troviamo qui nel poeta nessun rilievo di sentimento: innanzi ad essi l'animo dello spettatore prova un' impressione vaga, indecisa, e se egli pur intende con disdegno la loro sorte e la loro mena, non è però mosso decisamente allo sdegno; se egli nell'infelice condizione di quelle anime, che corrono nude dietro ad un'insegna la quale anch'essa corre, vede qualche cosa di comico, pur non si sente mosso al riso come. innanzi agli avari ed ai prodighi che contendono per i loro sassi; se la pietà si suscita necessariamente ad una vista tra spregevole e comica, essa è come rattenuta e quasi contaminata dalla bassezza di quegli esseri. Non sono peccatori, sono dei cattivelli, degli ignavi, come ben li qualificarono gli antichi chiosatori 1.

1 II Boccaccio dice di loro, non molto esattamente: « Questa mi pare quella maniera d'uo• mini, li quali noi chiamiamo mentecatti o vero dementi, li quali ancorachè abbiano alcun

In tutto l'episodio non vi è nessuna espressione forte. C'è generalmente la negazione piuttosto che l'affermazione: mai non fur vivi, per non esser men belli, fama di loro il mondo esser non lassa, non hanno speranza di morte, la lor cieca vita, non ragioniam di lor ma guarda e passa. Così pure quando Virgilio dice che visser senza infamia e senza lodo; dove non sarei alieno dal leggere, con la massima parte dei codici, senza fama, che è espressione più temperata, più vaga e meno positiva che non senza infamia, checchè ne dica lo Scartazzini, il quale, in questo terzo canto, è davvero molto negligente e inconsiderato. Nè il poeta, per conseguenza, ha voluto notare il nome di alcuno di essi, onde le eterne dispute sul gran rifiuto, e le candidature di Esaù, quasi che Dante potesse dir di lui vidi e conobbi (la variante di pochi codici guardai e vidi ha contro di sè anche il fatto che non ci sarebbe stato, nel caso di Esaù, chi l'avrebbe indicato a Dante, perchè Virgilio non vuol ragionarne), e di Giano della Bella (oh) il gran rifiuto!) e finalmente di Vieri dei Cerchi, che certo fu messo innanzi da qualche burlone che avrebbe voluto morto il Cerchi prima del tempo!

Con questa intenzionale indeterminatezza di colorito si accorda la risposta di Virgilio a Dante che gli avea domandato: Che è tanto grere A lor che lamentar gli fa sì forte? In altri termini: perchè si lamentano, qual è il loro tormento? Virgilio infatti non risponde a tono, e mentre dice di voler esser breve, gira la risposta, in maniera che non tutti l'hanno intesa bene. In sostanza egli conchiude, « guardalo da te!» Onde l' altro soggiunge: « Ed io che riguardai.... » Perciò le parole di Virgilio non rispondono alla domanda di Dante, ma gli spiegano meglio la condizione di quegl' infelici non solamente in quel luogo ma anche in vita, in modo che fanno come la biografia di ciascuno e di tutti.

Questi non hanno speranza di morte,

e la lor cieca vita è tanto bassa
che invidiosi son d'ogni altra sorte,

Il tempo presente qui, hanno, è, sono, è come il presente delle sentenze, e potrebbe sostituirvisi il passato.

senso umano, per molta umidità di cerebro hanno sì il vigore del cuore spento, che cosa alcuna non ardiscono di adoperare degna di laude, anzi si stanno freddi e rimessi, e il più del tempo oziosi, quantunque talvolta sospinti sieno dal desiderio di dovere alcuna cosa adoperare.

E lo stesso valore ha nei versi:

Caccianli i ciel per non esser men belli

nè lo profondo inferno li riceve

che alcuna gloria i rei avrebber d'elli;

nè in luogo del comune caccianli è esatto leggere con pochi codici cacciarli per la ragione che i cieli li discacciarono una volta per sempre, come dice lo Scartazzini, perchè allora dovremmo trovare anche ricevette, mentre la condanna divina, sebbene emanata ed eseguita in passato, si attua in ogni tempo. Il medesimo stato di continuità, non per l'inferno, sibbene per la condizione di queste persone nel mondo. è indicato col tempo presente nella risposta di Virgilio. Insomma qui si parla di ciò che soglion fare queste persone nel mondo, non di ciò che fanno e pensano nell'inferno. Nè è da ravvicinare a questo luogo l'altro del canto primo:

Vedrai gli antichi spiriti dolenti

che la seconda morte ciascun grida,

a proposito dei quali non si dimentichi che qui gridare vale invocare, non piangere, come intende lo Scartazzini, e mi soccorre proprio l' apocalittico « Et in diebus illis quaerent homines mortem et non invenient eam » (IX, 6), e di più un passo provenzale : Cridon et queron mort e no la podon aver, car las animas no podon morir. Tornerebbe qui Dante ad accennare alla seconda morte? In primo luogo sarebbe troppo evidente la contraddizione tra la promessa di Virgilio che Dante vedrà gli spiriti che invocano la seconda morte, e le parole da lui dette per i primi dannati che s'incontrano, cioè che la loro afflizione provenga dal non aver speranza della seconda morte. Inoltre qui si parla di morte in generale, non di seconda morte, e nel verso seguente si accenna alla lor cieca vita. O perchè questa sola dovrebbe dirsi cieca rispetto alle altre condizioni della vita infernale? Non si parla piuttosto della vera vita, cioè della prima? E se si dice che questi sciaurati invidiosi son d'ogni altra sorte, come mai essi che da Dio non sono stati giudicati peccatori debbono invidiare la sorte dei più grandi malfattori? Basterebbe che Dio desse loro la coscienza di questa inferiorità rispetto ai grandi malvagi, perchè essi avessero una condizione morale inferiore, peggiore di qualunque dannato. Per le quali cose qui si parla della vita nel mortal secolo non nell' eternità.

Il significato delle parole di Virgilio sarebbe dunque cotale: «< Dalla morte costoro non attendon nulla, la loro cieca vita è tanto bassa che invidiano ogni altra sorte, il mondo non fa sussistere di loro alcuna fama,

e non meritano perciò nè misericordia nè giustizia: neanche noi ce ne occuperemo, ma volgi loro appena un'occhiata e passa!». Conseguenza della loro vita grama e vacua rispetto al mondo e a Dio, è l'oblio del mondo stesso e la noncuranza di Dio: è però giusto che il savio insegni a non farne maggior conto che il mondo e Dio non ne facciano. In tal modo Virgilio senza rispondere precisamente alla domanda del suo alunno, gli dà la ragione della pena che pur soffrono quelle anime e che Dante può vedere egli stesso da sè. E che Dante abbia inteso bene, ce lo mostra nelle parole con cui chiosa il testo del maestro, dicendo « questi sciaurati che mai non fur vivi», che per me val tanto quanto « non hanno speranza di morte ».

II.

Il senso di fastidio che destano tali esseri in ciascuno e maggiormente nell' anima grande di Dante Alighieri è espresso anche nella pena che è loro assegnata; ignudi e tormentati da noiosi insetti corrono dietro ad un'insegna, e il sangue è ricolto ai lor piedi da fastidiosi vermi. Sebbene gli sciaurati non sieno dei peccatori, hanno anch' essi una pena, la quale è come per tutti i dannati l'immagine della vita passata. La loro corsa e le punture da cui sono stimolati non sono da intendere come un contraccambio della loro inerzia, quasi per far provare loro col tormento ciò che non hanno sentito in vita con l'operosità, ma come un simbolo della vanità del loro cammino nella vita e della bassezza dei loro sentimenti.

Si suol dire generalmente che il sistema penale di Dante sia poggiato sul contrappasso, cioè contrappeso, contraccambio, ma nei casi particolari si nota che la pena non è sempre di contrappeso, ma spesso di analogia. Ora è proprio necessario che le parole di Bertran de Born

Così si osserva in me lo contrappasso,

debbano valere per tutti gli altri dannati e darci appunto la chiave del sistema penale dantesco? Il vero principio fondamentale del castigo divino mi par che si ritrovi in un'idea più alta, e che nella Commedia rifulge dappertutto, nell'idea che la vera pena consista nella continuazione del peccato stesso. L'uomo che è morto nella colpa, rimane eternalmente in essa, colà dove non risplende mai più Iddio e nel buio eterno l'anima non può mai ravvedersi il dolore deriva appunto dalla coscienza dell'eterna abiezione, e ciascuno rimane lontano da Dio nella maniera e nella misura che se ne allontanò in vita. Qui la pena non è espiazione, non è ristoro, ma morte eterna ed eterno dolore perchè la colpa rimane sempre illesa,

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