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avuto le sue buonissime ragioni a farlo, e potrà trovarle facilmente chi più di me abbia voglia di avvolgersi nelle distinzioni medioevali e dantesche e nel simbolismo dei colori 1. Già, si può dire, Lucifero è tutto un simbolo dal capo alle piante, è una grandiosa figura nella quale s'incarna tutto un sistema morale e si compone tutta una rete di simboli e di allegorie. Nel purgatorio la pena ha un principio affatto opposto a quello dell'inferno, perchè essa deve rifare puri i peccatori, deve ristorare il difetto, e dar tale e tanto patimento quale e quanto è necessario alla purificazione. Ad essa aggiungesi la preghiera che vale a tener desto l'amor divino in essi, l'esempio che li incita all'amore della virtù e quello che li spaventa dal vizio, il rimorso che li fa rimanere nel pentimento. I superbi devono star rannicchiati sotto gravi massi come i re debellati stanno raffigurati in cariatidi a sostentar solaio o tetto, perchè in quella umiliazione e in quell'abbassamento emendino il loro orgoglio e il desio di soprastare. Gl' invidiosi che furono intenti a vedere i beni della terra e la felicità in altrui, ora non vedono più neanche il sole e mortificano così la loro brama. Gli iracondi devono sentire di continuo le punture di un fumo denso e nero ed esercitare la pazienza e la rassegnazione. Gli accidiosi ristorano con la corsa continua il lungo stare e la lunga pigrizia. Gli avari prostrati bocconi per terra se danno immagine del loro attaccamento al denaro, prodotto della terra, sentono pur la miseria dell' esser per terra. I golosi esercitano l'astinenza del mangiare e del bere guardando pomi bellissimi e acque freschissime e limpidissime, onde vengono in estrema magrezza. Infine i lussuriosi purificano con le fiamme il fuoco impuro di cui arsero in vita. Si può dire, anzi si deve, che la pena in tutto il purgatorio è veramente contrappasso, salvo che essa rifà e riabilita la coscienza. Il genio dell' Alighieri ha però saputo conciliare questa espiazione con le disposizioni e il carattere proprio delle singole anime, perchè mentre da una parte Oderisi da Gubbio, Sapia, Adriano V, Forese Donati tengono pur dei discorsi coi quali rimordono e biasimano il loro proprio peccato, d'altra parte Guido del Duca è maldicente, i lussuriosi si baciano e si abbracciano, eppure ciò non dinota ostinazione nella colpa, perchè i loro atti e le loro parole muovono da virtù e da giustizia.

Bisognerebbe anche accennare al paradiso, dove i beati ottengono il premio adeguato della loro carità, ma ormai credo di essermi già troppo allontanato dall' argomento, e temo che il paziente lettore finisca col rimandarmi all'inferno!

Napoli, giugno, 1893.

NICOLA ZINGARELLI

1 Vedi intanto alcune buone osservazioni in Giorn. Dantesco I,

Giornale Dantesco

219.

18

COSE APOCRIFE

Nel numero di luglio del Giornale dantesco (IV), leggo la frase seguente, scritta dal chiarissimo professore Scartazzini:

«Non già perchè crediamo che abbia ragione il dott. Prompt, il quale nel suo recentis»simo e paradossissimo lavoro sostiene che il Trattatello sia apocrifo; il Boccaccio lo ha » citato nel Comento; dunque è roba sua ».

Questo è uno scherzo, e niente altro che scherzo. Non so se lo Scartazzini prenda sul serio l'autenticità del Comento; ma egli non può ignorare che in tal caso, avrebbe per avversari se non tutti i dantisti, almeno quasi tutti; in generale, quella chiosa è conosciuta sotto il titolo di falso Boccaccio.

Ma è ovvio che l'inclito chiosatore vuole sbrigarsi di cose importune, e tagliar netto, con due paroline sprezzanti, un dubbio al quale egli non può ritrovare obbiezioni di nessun genere. La Vita di Dante, attribuita al Boccaccio, è, in certi casi, autorità unica, e in altri casi, autorità massima per dimostrare tutto un mondo di leggende e d'errori; fra queste leggende, lo Scartazzini vorrebbe distruggerne una sola, e lasciar stare tutte le altre. Vorrebbe tagliare un ramuscolo di certo albero, ch'io voglio sradicare per sempre. La questione è grave, e non può decidersi senza esame. Nel libello, che sarebbe opera del Certaldese, si vede: 1.o Che Dante è autore della Monarchia.

2.o Che è autore delle Lettere latine.

3.o E anche delle Egloghe.

4.o Che fece un viaggio a Parigi.

5.o Che fu teologo e filosofo scolastico, e grande argomentatore de quolibet.

6.o Che voleva dettare il divino poema in versi latini, e che veramente diede alla luce alcuni di quei versi, non solo cattivi, ma inconsistenti e stupidissimi.

7.o Che fu uomo di stato, e quasi signore di Firenze.

8.o Che divenne ghibellino feroce, e gettava pietre a chi non era del suo parere.

9.o Che volle dedicare il poema dell'Inferno a Uguccione della Faggiuola, e quello del Purgatorio a Moroello Malaspina.

10. Che scrisse i primi canti dell'Inferno, e poi, perdendoli, non seppe rifarli, e però, ritrovandoli, se ne rallegrò assai, e allora dettò tutti gli altri.

11.o Che, uniformandosi a quell'abitudine di perdere le sue cose, lasciò correre tredici canti del Paradiso, e poi, accortosi, dopo la propria morte, che i figli volevano mettervi le mani, e continuare e finire il poema, subito apparve in sogno a Jacopo Dante e gli fece osservare in una stuoia al muro confitta >> alquante scritture, tutte per la umidità del » muro muffate e vicine al corrompersi se guari più state vi fossero ». Le quali scritture erano i tredici canti in questione.

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12. Che l'Allighieri, piangendo la morte di Beatrice, ebbe la disgrazia di ubbidire ai parenti, i quali, volendo consolarlo, gli fecero prender moglie, per somma sua sciagura e miseria, poichè la donna è « sospettoso animale ed è fatica grande quella di dover « vivere, » conversare e ultimamente invecchiare e morire », avendo tali importunissime bestie in casa, alle quali è d'uopo comprare senza fine « vestimenti, ornamenti e superflue delicatezze › ; e

guai se non si fa tutto quel che vogliono : « nè alcuna fiera è più nè tanto crudele quanto » la femmina adirata; nè può vivere sicuro di sè chi sè commette ad alcuna, alla quale paia » con ragione essere corrucciata, che pare a tutte » !!

Qui mi fermo un momentino, e vorrei che lo Scartazzini, al quale non possono essere ignoti i più belli versi dei maestri tedeschi, mi dica se non gli sembra un po' più ragionevole di quella prosa italiana la poesia di Schiller, che dice così:

Drum soll auch ein ewiges, artes Band

die Frauen, die Saenger umflech en; sie wirken und weben, Hand in Hand,

den Guertel des Schoenen und Rechten.

S'egli mi concede che l'autore della Vita di Dante si diede a conoscere per pazzo e imbecille, quando giudicò a proposito di dettare quel suo vituperio delle donne, vorrei che mi spieghi, come intende che quell'animale sia precisamente il Certaldese, cioè, il più spiritoso e il più piacevole degli uomini.

Ma continuando il mio elenco di assurdità, ritrovo ancora nella biografia maledetta, che la madre di Dante ebbe un sogno, mentr' era gravida, nel quale, dopo varii avvenimenti, vide il figlio in forma di pavone. E il poema è conforme, « ottimamente conforme a quell'uccello per quattro ragioni: 1.o Il pavone ha penna angelica.

Perchè?
Ecco:

« Udendo che gli angeli volano, avviso loro avere penne, e non sappiendo alcuna fra questi nostri uccelli più bella, nè più peregrina, nè così come quella del pavone, immagino loro così doverle avere fatte *.

Poi osserva che tuttavia l'angelo è « più nobile uccello che 'l pavone ».

Orbene, io nella mia povera critica non domando altro se non che si voglia confessare, in cortesia, che il Boccaccio fu più nobile uccello che l'autore della biografia. Ma proseguiamo. 2.o La penna del pavone ha cent' occhi. Cento appunto, e esattamente. E i canti del poema sono al numero di cento.

3.o Il pavone ha piedi sozzi. Anche il poema posa su certi suoi piedi, che saranno la lingua nella quale è scritto. È la lingua italiana volgare, lingua sozza, lingua, insomma, di porci.

Questo si mette sul conto del Boccaccio. Della quarta ragione non dico niente; il fal sario pretende che la carne del pavone non si corrompa; ed io vorrei fargliela mangiare dopo sette giorni di esibizione all'aria libera, sulla piazza del duomo, a Firenze, nel mese di luglio. Sarebbe premio degnissimo delle sue invenzioni.

Di fronte a quasi tutte le questioni dantesche, noi ritroviamo per imbrogliarle e renderle inconcepibili, l'autorità di quel falsario. Tale è per esempio quella del libro della Monarchia, che per la maggioranza dei dantisti è opera del poeta, mentre noi abbiamo in certo modo ragioni d'ordine matematico per esser sicuri che non lo è.

Il fatto è dei più semplici.

L'autore della Monarchia ammette, per definire la nobiltà, il principio d' Aristotele che si legge nel libro IV della Politica, al cap. 8. La nobiltà consiste dunque nella virtù e nelle ricchezze antiche.

Ora, tutto il quarto trattato del Convito è scritto per dimostrare che quella definizione è falsa. Del resto, il poeta, nei canti VIII e XVI del Paradiso, difende sempre le idee del Convito. Quelle idee sono la fede filosofica di tutta la sua vita; credere che egli le abbia poi rinnegate, e con tanto disprezzo che non si degni nemmeno di accennare ai motivi di quella ritrattazione, è un principio di tale assurdità che nessuno lo ammette. È dunque cosa eviden

tissima che se Dante scrisse la Monarchia, non poteva scriverla dopo il quarto trattato del Convito.

Ma poi, in quel trattato, egli attribuisce la definizione aristotelica all' imperatore Federigo II. Dimostra di non aver letto la Politica d'Aristotele, d'ignorare un fatto che è di massimo momento, e questo è che se veramente Federigo diceva esser la nobiltà

Antica possession d'avere con reggimenti belli,

lo diceva per averlo sentito dichiarare da qualche pedante peripatetico del suo secolo. E Dante, nel medesimo trattato, riconosce per altissima e importantissima l'autorità d'Aristotele nelle cose filosofiche, e, per altra parte, non vuole ammettere quella di Federigo per definire la nobiltà. Il suo ragionamento cade in terra, per chi sa che il principio è di Aristotele e non di Federigo.

Qui dunque abbiamo un punto che è fuori d'ogni dubbio. Quando Dante scrisse il quarto trattato del Convito, egli non conosceva ancora la Politica d'Aristotele, o, almeno, non aveva letto il capitolo in questione.

Ma l'uomo che scrisse la Monarchia lo conosceva, quel capitolo: e lo conosceva pur troppo. Se dunque si crede che quell' uomo fosse Dante, è forza ammettere che Dante non ha scritto la Monarchia prima del quarto trattato del Convito, nè pure alla medesima epoca. Non avendola scritta nè prima, nè dopo il Convito, nè anche mentre dettava il Convito, allora è impossibile che sia autore di quel libro.

A quel ragionamento non vedo obbiezioni, non vedo risposta di nessun genere, fuorchè il darmi del presuntuoso, dell'ignorante, dell'animale, e altre gentilezze alle quali prendo a poco a poco l'abitudine.

Ma il vero ostacolo consiste nella stizza di quelli che, dopo aver vagheggiati per tutta una lunga vita di studi certi errori gravissimi, sono costretti ad abbandonarli, e abbandonarli per ragioni oltremodo semplici, che un ragazzo può intendere in due parole. Per difendersi contro l'impeto della verità, si prende un rifugio; si fa una ritirata in qualche fortezza. Si parla di autorità, si dice che secondo questo o quel chiosatore, le cose dovrebbero intendersi in tal guisa; si vociferano i nomi antichi del Boccaccio, del Petrarca: i nomi moderni di vari professori, quello, per esempio, dello Scartazzini, e così si riesce a rimanere nel buio e nelle tenebre, mentre la scienza e la critica vengono fuori con dottrine chiarissime colle quali tutto risplende più che il sole.

Il medesimo fenomeno si osserva sempre quando le conoscenze degli uomini fanno un gran passo innanzi.

Nel nostro secolo noi abbiamo veduto, a Parigi, l'Accademia delle scienze dichiarare impossibili e ridicoli i progetti di costruzioni delle ferrovie. Francesco Arago dimostrava alla Camera dei deputati come i suoi colleghi dell' Accademia fossero concordi per stabilire mediante i principî della fisica e della fisiologia che la ferrovia da Parigi a Saint Cloud non poteva esistere; diceva che, mettendosi in quei vagoni, era forza che i viaggiatori fossero assaliti da varie malattie gravissime. Dovevano morire tutti senza eccezione.

Era pazzo Francesco Arago? Era imbecille?

Di certo no. Ma era stizzito. Era uomo dottissimo, studiosissimo, vecchio assai, e si ri trovava, con grande sua maraviglia, in un mondo nuovo, in un ambiente scientifico strano e incognito, ch'egli non aveva mai contemplato nemmeno in sogno.

Lo stesso avvenne in altri secoli più rozzi del nostro. Chi non sa quanti nemici ebbe il Galileo, e con quante autorità moderne e antiche si seppe resistere alle sue idee?

Gli studi danteschi sono, attualmente, in una crisi di quel genere.

I professori medioevali, uomini superbissimi, sicurissimi d'ogni cosa, prontissimi a far lezioni ai giovani, trattavano con disprezzo immenso i Kepleri, i Galilei, insomma tutti quelli che, mediante osservazioni nuovissime, ritrovarono la chiave degli antichi errori e si spinsero su quella via di progresso, che, per i peripatetici, non poteva esistere.

Il risultamento fu il medesimo di quello che ebbero gli sforzi di Francesco Arago per impedire che si facessero ferrovie in Francia e altrove.

Fu il medesimo di quello che aspetta gli attuali dantisti, se vogliono ostinarsi nelle leggende e nelle favole, e calpestare, con rabbia inutile, le regole d'ogni scienza, continuando, come gli antichi chiosatori, nel sistema di confondere il polo e il zenit, di attribuire ai primi anni del trecento i codici del quattrocento o quelli dei falsari moderni, di considerare come opere di Boccaccio o di Dante, libelli bestialissimi, indegni d'ogni esame serio.

Vuole lo Scartazzini affidare alle fiamme, come faccio io, tutta quella falsa scienza che per il volgo si chiama dantismo? Vuole egli conservare il suo disprezzo per l'errore, i suoi studi per la verità? Allora avrà nell'avvenire la sorte di Stephenson e di Galileo. Nel caso contrario, la sua gloria sarà quella di Francesco Arago o del padre Grassi, o di quei sofisti greci che negarono l'esattezza delle proposizioni d' Euclide.

È una gloria come le altre, e fra le scuole filosofiche tedesche è noto a tutti che ve n'è una, e non la meno autorevole, che crede utilissima per l'avvenire della scienza, l'azione dei sofisti.

DOTTOR PROMPT

CHIOSE DANTESCHE

DI ALCUNE PAROLE CHE FAN PARTE DEL TRATTENIMENTO

FRA DANTE E FORESE AL CANTO XXIII DI 66

PURGATORIO

Per discorrere un poco, secondo quanto ne ho compreso, intorno alla sostanza della conversazione che ebbe luogo fra Dante e Forese nel sesto girone del Purgatorio a darle maggiore evidenza mi giova far menzione della chiosa che il Giuliani fa sopra la selva oscura, a ribatterne la storta significazione, che egli applica tutta a carico del poeta, rappresentandolo qual vizioso, ed associato quasi a scostumatezza con un suo caro amico e parente. Non so invero come si possa portare un sifatto giudizio, sia pure per male interpretate parole, tanto discordante e dalla realtà storica, e da quel profumo di maschio sentire che le opere del nostro Dante esalano, e che dev' essere norma a rinvenirvi gli elevati pensieri a cui s'inspirano. Ciò premesso, trascrivo ne' suoi veri termini la chiosa in questione sulla quale farò in seguito opportune osservazioni: «La selva, dice il Giuliani, significa lo stato dei vizii, o vogliam dire la vita viziosa in che Dante sonnolento si giacque sino all'età di 35 anni, del

D

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