Slike stranica
PDF
ePub

ore per Venere, e a 88 giorni quasi per Mercurio; e il Pasqualigo si troverebbe nel vero. Se non che Dante non sembra esser tanto innanzi col suo sapere: «Venere e Mercurio (egli dice), quasi come il Sole (cioè quasi per altrettanto tempo quanto il sole), si celerebbero e mostrerebbero »> : dunque egli credeva che la rivoluzione di Venere e Mercurio sul rispettivo. epiciclo si compiesse all'incirca in un anno. Manifestamente Dante era meglio informato intorno ai pianeti superiori che agl' inferiori, e quanto a Mercurio era più che mai in errore: ed anche della luna sembra ignorasse la rivoluzione siderea, vale a dire quella intorno alla terra, che è di giorni 27 e un terzo. Ma l'importante a sapere, nella presente controversia, è che Venere, secondo le cognizioni dell' Alighieri, impiegherebbe quasi un anno a compiere il giro giro « verso lo suo epiciclo ».

Questo intorno alla seconda supposizione. In quanto alla prima, cioè a quella, giusta la quale il cerchio che fa parere Venere serotina e mattutina, sia non l'epiciclo, ma la terza sfera (il che mi sembra assolutamente inverosimile); ammettendola per vera, i risultati della nostra critica non varierebbero. Difatti, ricordando ancora una volta la distinzione che dei movimenti dei pianeti fa Dante, abbiamo che dessi sono: «Uno, secondo che la stella si muove verso lo suo epiciclo; l'altro, secondo chè lo epiciclo si muove con tutto il cielo ugualmente con quello del Sole; il terzo, secondo che tutto quel cielo si muove, seguendo il movimento della stellata sfera, da occidente in oriente, in cento anni uno grado ». Se, dunque, il primo di cotesti movimenti non è in quistione, tanto meno sarà in quistione il terzo resta senz'altro il secondo. E poichè, in virtù di questo, il terzo cielo si muove « ugualmente con quello del Sole », ne segue che la terza sfera, a mente di Dante, impiega, nel suo movimento che la fa parere serotina e mattutina, altrettanto tempo quanto il sole nel suo giro apparente intorno alla terra, vale a dire, anche in questo caso, un anno.

Eccoci finalmente a conchiudere con tutta evidenza che il periodo di tempo a cui Dante allude nel brano trascritto più sopra, non è del doppio di 225 giorni, ovvero di 13 mesi circa, come pretende il Pasqualigo; ma, bensì, in tùtti i casi di quasi due anni, o di due anni per l'appunto. Onde il secondo dei tre periodi da noi distinti al principio di questo articolo, è anch'esso, come il primo, di un anno.

Questo è quanto voleva conoscersi, e che giova moltissimo a rettificare. la cronologia della vita di Dante, in quanto possiamo con sicurezza ritenere: 1. che nella primavera o principio dell' estate del 1291 egli cominciò a leggere Boezio e Cicerone; 2.° che un anno dopo si diede a praticare le scuole dei religiosi, studiandovi filosofia per forse trenta mesi, fino al cadere del 1294; 3.° che il Convito fu incominciato sul principio del 1295, e la Vita Nuova fra il 1293 e il 1294. LORENZO MASCETTA,

LE CONTRADDIZIONI DI DANTE

Nello stato in cui si trova la critica dantesca, il più grave principio d'incertezza e d'errore consiste nelle contraddizioni che si osservano nelle opere del poeta. Queste possono schierarsi in varie categorie, e considerando piuttosto i fatti che le teorie letterarie, noi dovremo distinguerle come segue.

A) La contraddizione esiste in un solo ed unico e stesso capitolo, dettando l'autore certe cose nel mezzo del capitolo, e cose contrarie al principio del medesimo.

B) Esiste in un' opera determinata, fra un capitolo e l'altro.
C) Esiste fra due opere diverse.

D) Esiste in un punto, in un luogo unico, dove pare che il poeta si metta in opposizione, non solo strana, ma ignobile, non solo con tutte le sue opere, ma anche col buon senso, colla ragione e colla morale.

Poichè queste ultime contraddizioni sono le più spiacenti, ne dirò qualche parola, prima di esaminare le altre, e poi si tratterà delle categorie A, B, C, nell'ordine contrario, cioè, passando alla B dopo la C, e all' A dopo la B.

§. I.

Pare che le difficoltà di cui si tratta possano spiegarsi in due modi diversi, cioè, per impertinenza dei copisti o glossatori, che aggiunsero al testo del poeta le proprie divagazioni, o per errore della critica, che intende Dante nel senso letterale, in modo inesatto e falso.

Per primo esempio, prendo il capitolo 5 del terzo trattato del Convito, dove si legge certa dichiarazione del sistema del mondo, secondo i pittagorici, o in altri termini, di quel sistema che nei tempi moderni ricevette il nome di Copernico. Si dice che la terra, secondo Pittagora, « si volgea » da oriente in occidente, e per questa rivoluzione si girava il sole in» torno a noi, e ora si vedea e ora non si vedea ».

In generale, i chiosatori del Convito, come veri analfabeti nelle cose. matematiche, tacciano sullo sproposito immane che qui si mette in bocca del poeta. Sproposito che del resto non esiste nel Cielo e mondo di Aristotele,

nè anche nelle traduzioni medievali del Timeo di Platone, e che noi non possiamo attribuire all' Allighieri, il quale, tanto nel divino poema come nelle opere minori, si dimostra sempre astronomo dottissimo, e perfettissimo intenditore d'ogni concetto geometrico. Nel sistema pittagorico si ammette che il movimento dei cieli è apparente, e che la terra si muove in senso contrario, cioè, da occidente in oriente, e basta intendere che qui ci sia un errore di glossatori, per metter tutto in ordine.

Dico di glossatori e non di copisti, poichè alla frase seguente si riproduce il medesimo errore, in termini che non si possono vituperare assai: << Platone fu poi d'altra opinione, e scrisse in un suo libro che si chiama » Timeo, che la terra col mare era bene il mezzo di tutto, ma che 'l suo » tondo tutto si girava attorno al suo centro, seguendo il primo movimento » del cielo; ma tarda molto per la sua grossa materia e per la massima » distanza da quella ».

Dice che la terra segue il movimento del primo mobile, e attribuisce quella inconsistenza a Platone; venir poi a immaginare che per la grossezza di sua materia il nostro mondo debba muoversi più adagio del cielo, è un voler dichiararsi per ignorante, per bestia, per impudente e sfacciato chiosatore dei filosofi antichi, e un tale sistema è tanto diverso di tutto quello che si sà dell' Allighieri, delle sue opere e del suo altissimo ingegno, che noi dobbiamo, senz' altro, fare onore di quelle invenzioni ai glossatori del Convito.

È vero che, non essendovi ancora studi paleografici sui codici di quell'opera, la prova materiale dell'introduzione dei glossemi non esiste. Ma per l'Eloquenza Volgare quella prova è ormai fatta, e fatta in modo che non può dar luogo a obbiezioni. E così, noi possiamo, con quel filo in mano, esaminar sicuramente le contraddizioni del libello latino di Dante. Qui tratterò del capitolo 3 del libro II. Prima si dice che nella poesia volgare si usano vari generi di componimenti, che sono le canzoni, le ballate e i sonetti. Poi si vuole dimostrare che il modo delle canzoni è migliore, è più eccelso, più degno, e che lo stile illustre, e che le idee altissime non, possono ritrovarsi nelle ballate e nei sonetti, e sono cose attinenti alla sola canzone. Così si viene a dichiarar per falso e assurdo il sistema della Vita Nuova, quello delle opere liriche di Dante e di Cino e di Guido Cavalcanti e di tutti i poeti classici italiani, che mettono sempre la ballata e il sonetto sulla medesima linea colla canzone, e sono sovra tutto amantissimi di dettar sonetti, e di scriverli nel migliore stile e nel più nobile. Questo si dichiara in un gran capitolo che qui voglio ricopiare, come lo si legge nel codice grenobliano, aggiungendovi alcuni numeri per distinguere le ragioni alquanto imbrogliate del glossatore:

«1°. Prima quidem quia cum quiquid versificamur sit cantio, sole can

Giornale Dantesco

21

» tiones hoc vocabulum sibi sortite sunt, quod nunquam sine vestuta provi»sione processit.

» 2°. Adhne quidquid per se ipsum efficit illud ad quod factum est, no» bilius esse videtur, quam quod extrinseco indiget, sed cantiones per se » totum quod debent efficiunt, quod ballate non faciunt, indigent enim plau soribus, ad quos edite sunt, ergo cantiones nobiliores ballatis esse sequitur » extimandas, et per consequens nobillissimum aliorum esse modum illarum, » cum nemo dubilet quin ballate sonitus nobilitate modi excellant.

[ocr errors]

» 3°. Prae illa videntur nobiliora esse quae conditori suo magis honoris » afferunt, sed cantiones magis differunt suis conditoribus quam ballate, ergo » nobiliores sunt, et per consequens modus earum nobillissimum aliorum. 4. Prae que nobillissima sunt carissime conservantur, sed inter ea » quae cantata sunt, cantienes karissime conservantur, ut constat visitanti» bus libros, ergo cantiones nobillissime sunt, et per consequens modus earum » nobillissimus est.

[ocr errors]

5. Ad huc in artificiatis illud est nobillissimum quod totam compren» dit artem ; cum ergo que cantantur artificiata existant et in solis cantioni» bus ars tota comprenditur, cantiones nobillissime sunt et sic modus earum » nobillissimus aliorum.

6°. Quod autem tota comprendatur in cantionibus ars cantandi poetice » in hoc palatur quod quidquid artius reperitur sed non convertitur.

» 7°. Hoc signum autem horum que dicimus promptum in conspectu ha» betur nam quidquid de cacuminibus illustrium capitum portantium profuxit » ad labia in solis cantionibus invenitur ».

Della prima ragione si può dire che nessuno la intende. Perchè sarebbe canzone ogni componimento poetico? E se fosse così, perchè chiamar canzone un genere particolare? Che sarà poi la Vestuta provisione?

Della seconda, che non si vede perchè la ballata non potrebbe esistere senza musica. Per le ballate di Dante medesimo, noi non abbiamo musica, e non c'è prova che dimostri che uomo al mondo le abbia mai accompagnate con istrumenti.

La terza ragione la immagina il glossatore. E immagina anche la quarta con impudenza e sfacciataggine incredibile, mentre noi vediamo che, nei codici del trecento, le ballate e canzoni, e anche i sonetti, si riscontrano nei medesimi fogli e non possono conservarsi più o meno karissime, poichè son cose che si conservano tutte insieme.

Il quinto articolo si schiera col sesto, che è puro guazzabuglio e non ha senso di nessun genere.

Quanto al settimo, è una maledetissima menzogna, poichè tutti i trecentisti dettarono sonetti e ballate e nessuno di loro volle limitarsi nella sola canzone.

Prendo ancora un terzo esempio nel divino poema; sarà il verso del canto V dell' Inferno:

Amor che a nullo amato amar perdona.

Qui si vede come la maggioranza degli interpreti vogliono intender che, secondo Dante, ogni persona amata deve amare. E allora come va che Dante medesimo, nelle opere liriche, si compiange con tanta asprezza del modo di certa donna, che ha un cuore di marmo e di pietra e non risponde alla sua passione?

Del resto, quell' idea è contraria al buon senso e all'esperienza quotidiana. Noi osserviamo ogni giorno come accade che le donne siano insensibili all'amore dei giovani e viceversa. Quindi nascono atti di grandissima disperazione, assassinamenti e suicidi.

È contraria ai principi d'ogni moralità. Poniamo che uno scapestrato qualunque voglia fare a suo modo con qualche fanciulla onesta, o qualche madre di famiglia; questa dovrebbe ubbidire e poi risponderebbe ai romproveri del padre o della madre o del marito: «Non si poteva fare altri» menti. Lo dice il poeta: Amore a nullo amato amar perdona. Mi amava quell'uomo, era forza amarlo. Abbiate pazienza, che un'altra volta farò lo stesso e anche peggio ».

[ocr errors]

E così l'Inferno di Dante sarebbe opera pornografica di prim' ordine. Ma il poeta si oppone a tali contraddizioni e ci mette in mano egli medesimo la chiave del mistero, quando dice:

Amore

acceso da virtù, sempre altro accese,

pur che la fiamma sua paresse fuore.

E che l'amore del virtuoso debba sempre destare in cuori gentili non dirò amore materiale e vizioso, ma amicizia purissima e amore tenero e leale, è un fatto che Dante non fu il primo a osservare. È cosa che si dimostra nell' Etica di Aristotele, e in quel libro dell' Amicizia di Cicerone, che l'Allighieri dice di aver letto e ammirato tanto per consolarsi della morte di Beatrice.

Francesca ebbe in primo per Paolo, quell'amore che a nullo amato amar perdona, cioè, l'amore virtuoso che la sorella deve al fratello. Poi, coll' imprudenza, colla solitudine, e con altre circostanze pericolose, l'amore si fece colpevole, e Francesca, nel suo racconto, dichiara in modo certissimo che veramente così avvenne, poichè non conobbe i dubbiosi desiri prima del giorno in cui leggeva.coll' amante la storia di Tristano e d'Isotta.

« PrethodnaNastavi »