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infedeltà vera e propria: alla prima appartengono coloro «< qui nihil audierunt de fide» e questi si dannano per altri peccati, che non possono esser rimessi senza la fede; ma non si dannano per il peccato d' infedeltà: l'infedeltà puramente negativa non è peccato, ma pena di peccato, perchè « talis ignorantia divinorum ex peccato primi parentis consecuta est ». La vera e propria infedeltà è di quelli che ripugnano alla fede o la disprezzano : « et in hoc proprie perficitur ratio infidelitatis » 1. Dante ha collocati nel primo cerchio gl' infedeli per infedeltà puramente negativa (i bambini non battezzati non sono che dei piccoli infedeli, secondo l'espressione d'un moderno 2), e nel sesto gl' infedeli per vera e propria infedeltà, ossia gli eretici: «< haeresis est infidelitatis species 3 << infidelitas haereticorum est pessima. Ho detto, con le parole di s. Tommaso, che l'infedeltà puramente negativa è pena del peccato originale. Ma il peccato originale è il minimo di tutti i peccati (avuto riguardo all'intensità), perchè meno di tutti gli altri ha del volontario 5: esso, adunque, dev'esser 'punito sì, ma con la minima delle pene, e con una pena che non sia di senso, come scrive s. Tommaso . Non pare dunque che Dante s'allontanasse punto dalle dottrine teologiche, assegnando ai non battezzati dopo Cristo non altra pena che questa, desiderar la visione beatifica di Dio, senza speranza di poterla conseguire. Poichè questa è veramente la pena degli abitatori del Limbo, non « il vivere d'eterni sospiri », come dice il Bartoli : i sospiri non sono la pena, ma l'effetto della tristezza, cagionata dalla pena, cioè dall' esclusione della vista beatifica di Dio.

La seconda categoria degli abitatori del Limbo è di coloro, che, vissuti innanzi al cristianesimo, «non adoràr debitamente Dio». Offrir culto divino a chi non si deve, o al vero Dio, ma in indebito modo (<«< eo modo quo non debet ») è peccato di supersti

1 S. Tomm., Summa, II, II, q. X, art. 1.

2 Gli angioletti e la famiglia, con un' appendice intorno ai bambini morti senza battesimo, per monsignor Andrea Scotton. Torino, tipografia Salesiana, 1883, pag. 16. Cfr. pure pag. 20-26, ove è riassunta la dottrina di s. Tommaso intorno agl' infedeli, con più larghezza che non consentano a me i limiti della presente trattazione.

3 S. Tomm, Summa, II, II, q. XI, art. 1.

Ivi, q. X, art. 6.

5 Ivi, III, q. I, art. 4.

62 sent., dist. 33, q. 2, art. 1-2.

7 op. cit., pag. 49-50.

zione 1. La prima specie poi si divide in più sottospecie, una delle quali è l'idolatria, « quae divinam reverentiam indebite exhibet creaturae ». Alla sua volta l'idolatria è di due specie: l'una consiste nell' offrir culto divino alle imagini; l'altra, nell' offrir culto divino alle creature nell' imagini rappresentate. Ed ancora, questa seconda specie può consistere o nell' adorar le imagini di alcuni uomini, che si creda sieno stati dei, come Giove, Mercurio, ecc.; o nell' adorar tutto il mondo e le sue parti, considerando Dio come nient' altro che l'anima del mondo stesso, o, infine, nell'adorare un solo Dio, causa di tutte le cose, e, dopo lui, alcune sostanze spirituali, create da Dio, che gli antichi chiamavano dei (e che noi chiamiamo angeli); e, dopo questi, l'anime de' corpi celesti; e i demonii, una specie d'animali aerei; e da ultimo le anime degli uomini 3. L'idolatria è peccato ; ed è gravissimo «<ex parte ipsius peccati » ; ma « ex parte ipsius peccantis » la gravità è diminuita dall'ignoranza: « et secundum hoc nihil prohibet gravius peccare haereticos, qui scienter corrumpunt fidem, quam idolatras ignoranter peccantes » 5: poichè una delle cause dell'idolatria è l'ignoranza del vero dio, « cujus excellentiam homines non considerantes, quibusdam creaturis, propter pulchritudinem seu virtutem, divinitatis cultum exhibuerunt ». Considerata, dunque, siffatta causa dell' idolatria, cioè l'ignoranza; e considerato che gl' idolatri, collocati da Dante nel Linbo, ebbero mercedi tali 7, che a Dante stesso dovevano apparire non indegne d'un certo guiderdone, a me pare sufficientemente spiegata (per quanto altri se ne scandalizzi la presenza di Socrate, di Platone, d' Aristotile, ecc. nel Limbo, non che i privilegi onde godono nel nobile castello:

l'onrata nominanza

che di lor suona su nella tua vita

grazia acquista nel ciel che sì gli avanza 9.

1 S. Tomm., Summa, II, II, q. XCII, art. r.

2 Ivi, art. 2.

3 Ivi, q. XCIV, art. 1.

▲ Ivi, art. 2.

5 lvi, art. 3.

6 Ivi, art. 4.

7 Cfr. nel commento del Tommasèo il discorso Il Limbo di Dante.

8 Cfr. nel commento del p. Cornoldi la nota 112 al c. IV dell' Inferno. 9 Inf., IV, 76-78.

Tra' quali privilegi è da annoverare ancora la mancanza di tristezza (« sembianza avevan nè trista nè lieta dice Dante a proposito d' Omero, d'Orazio, d' Ovidio e di Lucano mossi ad incontrar Virgilio 1); onde è logico concludere, che gli abitatori del nobile castello non sospirino; chè chi sospira non può non aver tristo sembiante. Nè ciò solo mi conferma in tale opinione. Nel prato di fresca verdura Dante trovò genti, che «< parlavan rado, con voci soavi » 2: or come s'accorderebbero le voci soavi con i sospiri? Inoltre, quando Dante abbandona il « luogo aperto luminoso ed alto », dal quale gli « fùr mostrati gli spiriti magni », dall' aura queta vien nell' aura che trema 3: or quest' aura, che trema, non è, come interpetra lo Scartazzini, l' aura agitata dalla bufera nel secondo cerchio, ma l'aura che i sospiri « facevan tremare », fuori della dimora degli spiriti magni, nello stesso primo cerchio. Si rassicuri adunque il Bartoli 5; Omero non « sospira per tutta l'eternità », Omero non è « grottesco », come nessuno degli alti personaggi accennati da Dante ne' versi 88-90 e 121-144 del canto IV dell' Inferno: essi non hanno tristezza e quindi neppur motivo a sospirare. Nel che, dovrebbero aver pure compagni i bambini, i quali, come insegna s. Tommaso, non conoscendo che il bene perfetto consiste nella vista beatifica di Dio, non possono rattristarsi, che di tal vista sieno privati. Ma veramente, che i bambini del Limbo dantesco non sospirino, non si ricava dalle parole di Dante.

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La seconda causa di peccato è, secondo s. Tommaso, il defectus appetitus sensitivi; e i peccati, che da questa causa hanno origine, si dicono peccati ex passione o ex infirmitate. Essi cor

1 Inf., IV, 84.

2 Ivi, 114.

3 Inf., c. IV, 150.

▲ Così interpetra pure l'Antognoni in Saggio di studi sopra la Commedia di Dante, Livorno, Giusti, 1893, studio 3. Anche questa nota è di quelle che vado aggiungendo sulle bozze, per il ritardo nella pubblicazione del pres. scritto.

5 Op. cit. pag. 50.

62 Sent. Dist. 33, q. 2, art. 2, De Malo, q. 5.

rispondono ai peccati d'incontinenza in Aristotile ; e in essi << passio minuit peccatum, in quantum minuit voluntarium » 2. E perciò, non col solo Aristotile, ma anche con s. Tommaso, Dante scrive: «< incontinenza men Dio offende e men biasimo accatta >> ; e la punisce fuori della città roggia. Che se rammentò, a tale proposito, piuttosto l'uno che l'altro, ciò fece per più motivi e perchè era richiesto dal precetto oraziano, sulla coerenza de' personaggi in un poema, che Virgilio citasse l'autorità d'Aristotile, anzi che quella di s. Tommaso, vissuto più secoli dopo (non dimentico che Virgilio <«< tutto seppe »; ma qui non ne è il caso); e perchè Virgilio, come rappresentante della ragione umana, poteva citare un filosofo, non un teologo; e, infine, perchè lo stesso s. Tommaso sull'autorità d'Aristotile si fonda.

Peccati ex passione sono i sette vizii capitali: lussuria, gola, avarizia, ira, invidia, accidia e vanagloria e si badi che dico vanagloria, non superbia: perchè, se la superbia è da alcuni compresa tra i vizii capitali, è però esclusa da s. Gregorio, col quale s'accorda s. Tommaso. s. Gregorio, dunque, pone l' inanis gloria come uno de' vizii capitali, e la superbia come regina omnium vitiorum. Ma su questo importantissimo punto avremo occasione di ritornare. I peccati ex passione poi si suddistinguono in carnali

1 Ciò si rileva, per tacer d'altro, dai seguenti passi di s. Tommaso : « Philos. dicit in 7 Eth. (ca. 3, to. 5) quod syllogismus incontinentis habet quatuor propositiones, duas particulares et duas universales; quarum una est rationis, puta nullam fornicationem esse committendam, alia est passionis, puta delectationem esse sectandam. Passio igitur ligat rationem, ecc. Summa, I, II, q. LXXVII, art. 2 quando extra ordinem rationis vis concupiscibilis aliqua passione afficitur, et per hoc impedimentum praestatur modo praedicto debitae actionis hominis, dicitur peccatum esse ex infirmitate. Unde et Philos. in 7 Ethic. (cap. 8, cir. prin. to. 5) comparat incontinentem paralytico, cujus partes moventur in contrarium ejus quod ipse disponit ». Summa, I, II, q. LXXVII, art. 3 « Philos. in 7 Ethic. (cap. 8 in princ. to. 5) comparat intemperatum, qui peccat ex malitia, infirmo, qui continue laborat; incontinentem autem, qui peccat ex passione, ei qui laborat interpolate». Summa I, II, q. LXXVIII, art. 4.

2 S. Tomm. Summa, I, II, B. LXXVII, art. 6.o

3 L'appetito sensitivo, o sensualità si divide in due specie o potenze, la concupiscibile e la irascibile per la concupiscibile l'anima tende a ciò che conviene secondo il senso, e rifugge da ciò che nuoce: per la irascibile, resiste a ciò che nuoce; onde si dice che il suo obietto è l'arduo, « quia scilicet tendit ad hoc quod superet contraria et superemineat eis ». (Summa, I. q. LXXXI, 2). La lussuria, la gola e l'avarizia sono passioni della potenza concupiscibile; l'ira, l'accidia, l'invidia e la vanagloria sono passioni della potenza irascibile. 4 In s. Tomm., Summa, II, II, q. CXXXII, art. 4.

e spirituali: «< septem capitalium vitiorum quinque sunt spiritualia, et duo carnalia»: « illa peccata, quae perficiuntur in delectatione spirituali, vocantur peccata spiritualia: illa vero, quae perficiuntur in delectatione carnali, vocantur peccata carnalia: sicut gula, quae perficitur in delectatione ciborum; et luxuria, quae perficitur in delectatione venereorum » 2. I peccati spirituali son più gravi che i peccati carnali : « quod non est sic intelligendum, quasi quodlibet peccatum spirituale sit majoris culpae quolibet peccato carnali; sed quia considerata hac sola differentia spiritualitatis et carnalitatis, graviora sunt quam caetera peccata, caeteris paribus » 3. Infine, anche ne' peccati carnali c'è una gradazione: « specialiter in fornicationis peccato servit anima corpori, in tantum, ut nihil in ipso momento cogitare homini liceat. Delectatio autem gulae, etsi sit carnalis, non ita absorbet rationem » : quindi il peccato di lussuria, perchè men volontario, è men grave del peccato di gola. E così è, a farla breve, anche de' peccati spirituali: quando è men forte la passione e quindi più libera la volontà, tanto più grave è il peccato 5. L' avarizia dunque (che ha del carnale, ma è peccato spirituale ), è peccato men grave delf' accidia, l'accidia men grave dell'ira, l'ira men grave dell'invidia : ed è questo, infatti, l' ordine con cui questi peccati son disposti nel Purgatorio di Dante, ove, come si sa, il peccato più grave è nel girone più basso, e gli altri, a mano a mano, secondo la gravità, ne' gironi superiori. Nell' Inferno, ove, a misura che si scende, più grave peccato si punisce, troviamo bensì nel secondo cerchio la lussuria, nel terzo la gola, nel quarto l'avarizia; ma nel quinto troviamo tutti e tre i

1 S. Greg. cit. da s. Tomm., Summa, I, II, q. LXXII, art. 2.

2 S. Tomm., loc. cit.

3 S. Tomm., Summa, I, II, q. LXXII, art. 5.

4 Ivi, art. 2.

5

« Peccatum

.....

ex eo vero quod est ex passione, diminuitur tanto magis, quanto passio fuerit magis vehemens ». S. Tomm.. Summa, I, II, q. LXXVIII, art. 4.

6 « Res, in qua delectatur avarus corporale quoddam est: et quantum ad hoc connumeratur peccatis carnalibus: sed ipsa delectatio non pertinet ad carnem, sed ad spiritum : et ideo Gregorius dicit (l. 31, moral. c. 17. ante fi.) quod est spirituale peccatum ». S. Tomm., Sum. ma, I, II, q. LXXII, art. 2.

* Credo di potermi dispensare dal dimostrar la maggiore o minor gravità di questi peccati ad invicem tale dimostrazione, per quanto non difficile, riuscirebbe un po' lunga; ed io cerco di dicer poco ». Non posso però tacere, che mi sorprende il leggere nel commento del p. Berthier, che nell'ira, nell' accidia, nell' invidia e nella superbia (sic) « non c'è propriamente gerarchia da osservare », pag. 124.

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