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pitore di Elena, morto da Pirro. Tristano: tolse pace a Marco di Cornovaglia, come Paris Menelao. Nomar le donne antiche e i cavalieri. Le donne e i cavalieri si dicono antichi meglio a cagione di fama e di nobiltà, che di tempo. Pietà mi vinse. Qualche testo ha: giunse; modo qui assai men vivo. Cf. Inf., XXXI, 39. E fui quasi smarrito. Pensando come la ragione di sì nobili spiriti fosse abbuiata dal bieco talento del senso e raumiliata nel fango della colpa tanto superba altezza di nome, provai pietà sì viva, accoramento sì angoscioso di nostra povera umanità e di me stesso, che quasi l'animo se ne smarrì.

25. Que' duo, che insieme vanno. Gli spiriti portati dal vento non vanno come compagni, ma seguendo l'impeto della bufèra; or gli uni sugli altri, quasi nuvola su nuvola, ora divisi e sparpagliati nell'aria a somiglianza del grano lanciato dal ventilabro, or l'uno dietro all'altro: solo due non si scompagnano mai, quasi tenuti stretti da un legame invisibile. Il fatto singolare richiama l'attenzione del poeta. E paion sì al vento esser leggieri; ariegando, quasi come la piuma; e ciò per due cagioni: perchè di corpo aereo men grave e perchè menati dall'amore; intima forza, che contrasta alla forza esterna della bufèra.

26. Più presso a noi. I poeti stavano sull'una delle rive, tanto che il ciclone infernale non potesse ravvolgerli nelle sue spire. Per quell'amor, che i mena. Pregali, dice Virgilio, nel nome, terribile e caro ad un tempo, di quell'amore, ch'è come il vento procelloso dell'anima loro, onde e' son vinti e rapiti.

27. Si tosto come il vento a noi li piega, Muovo la voce: O anime affannate, Venite a noi parlar s'altri nol niega. La memoria del cuore ama raffigurarsi come presente questo momento pietoso, in cui la vista degli amanti, appressandosi, parlò dapprima all'animo dell'Alighieri un' istoria affannosa di colpa e di pianto. Piega. « Leggieri al vento », si piegano all'onda turbinosa come la fronda, Che flette la cima Nel transito del vento (Parad., XXVI, 85). Anco del moto del desiderio verso immagine di bellezza, che dentro noi si spiega, l'autore dice piegare: « E se rivolto invèr di lei si piega, Quel piegare è amor» (Purg., XVIII, 25). Muovo la voce. Già l'animo era mosso e mossa l'interna parola: restava che questa si convertisse, palesandosi, in voce viva. O anime affannate. La parola della pietà, quanto è più sentita, tanto è più semplice e breve. Con quell'epiteto affannate» il poeta ben mostra di leggere dentro a quelle anime, d'intendere il lor segreto sospiro. Esse vanno, vanno senza riposo, menate dal vento e più dalla passione procellosa, che le governa!

28. Quali colombe dal desio chiamate,
con l'ali aperte e ferme, al dolce nido
volan, per l'aer dal voler portate;

« aer »,

28-29. Quali colombe dal desio chiamate, Con l'ali aperte e ferme, al dolce nido Volan, per l'aer dal voler portate; Cotali uscir della schiera, ov'è Dido, A noi venendo per l'aer maligno: Si forte fu l'affettuoso grido. Virgilio ritrae la colomba, che fugge impaurita dal nido e nell' aperto de' campi tranquilli Radit iter liquidum, celeres neque commovet alas: Dante, con immagine più gentile, la colomba, che ad ali tese torna lieta al suo nido 1. Nel verso virgiliano vedi l'azzurro dell'aria e le ferme ali della colomba fuggente; in quello di Dante è nuova luce d'umanità e d'affetto; meglio che le ali aperte e ferme, noi siamo tratti a pensare il desio, che chiama, il volere, che porta, e quel mirabile istinto della maternità, che si diffonde per tutto l'universo e in qualche animale fiorisce quasi di gentilezza umana. Alcuno vorrebbe far pausa dopo attribuendo la virtù del volere alle anime degli amanti; e ciò per due ragioni: perchè, a suo senno, nelle parole « dal voler portate», se riferite alle colombe, sarebbe qualcosa di troppo e di vano, essendosi già detto abbastanza con le altre « dal desìo chiamate » ; e perchè gli animali propriamente non han volontà. Ma queste due ragioni (sia detto con pace di chi le ama paternamente) zoppicano assai. Chiamate non val punto portate, ch'è parte sì viva del fantasma e del paragone; e desio non tien vece di volere o di affetto, ma sta, come ben dichiara il Giuliani, per cosa desiderata; voce, in questo senso, di elegante toscanità, che nell'uso dantesco dalle colombe sale a' fantolini (Purg., XXIV, 111), all'intelletto contemplante (Parad., I, 7) e a Gabriele (Parad., XXIII, 105). I naturalisti insegnano che le colombe, per una cotale nobiltà di natura, amano di nidificare in alto, su le cime degli alberi e delle torri, perchè sia lor consentito di riguardare anco da lontano il luogo del dolce nido, veramente lor desìo; cioè (secondo l'ètimo di questa voce) segno di contemplazione: onde può dirsi che l'immagine dantesca prende luce di bellezza da intima verità. La nidiata de' colombini chiama, pigolando; e le madri, ormai già presso al nido, udita la cara voce, fan più rapido il volo, fendendo l'aria a mo' di saetta. Nè volere sta sempre ad accennare la facoltà principe della nostra natura, ma talvolta voglia, istinto, impeto primo, amor naturale (Purg., XVII, 93; XVIII, 57-59; XXV, 11; Parad., I, 114-116). Se il verbo « volere », com'è palese per tanti motti e proverbî popolari, si conviene agli animali, alle piante e alla terra, perchè restringere questa bella carità di vocabolo, quando si tratti del nome e non del verbo? Voluntas non fu qualche volta ai Latini forza, valore, natura, anco fuor d'intelligenza e di libera elezione? Dalla voluntas nominis di Quintiliano (VII, 10) si discende al serpyllum voluntarium di Plinio (Nat. Hist., XX. 90) e alla voluntas carnium degli Statuti di San Claudio, che il Du Cange registra. Nell'uso largo di certe voci umane io sento la fraternità delle cose e vedo specchiata quella fiamma divina, che splendeva negli occhi e nella parola del serafico trovatore d'Assisi. Dacchè in Pier Crescenzio (IX, 102) le api si partono di proprio volere, lasciamo che in Dante le colombe di proprio volere ritornino. Aperte e ferme. Lungamente ho dubitato se fosse miglior lezione

I Il buon Salvatore Betti, educato alla scuola dell' imitazione classica, in ogni parte della similitudine dantesca ama di vedere l'orma di Virgilio; però immagina che qualche testo medioevale dell' Eneide rechi: «Fertur in arva volens » ! Cf. Postille edite da G. Cugnoni, in Opuscoli danteschi, ecc., diretti da G. L. Passerini. Città di Castello, 1893, I, 32.

29. cotali uscìr de la schiera ov'è Dido,
a noi venendo per l'aer maligno;

sì forte fu l'affettuoso grido.

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alzate o aperte »; ma da ultimo, osservato e fatto osservare il volo, onde si parla, mi son risoluto di leggere « aperte », che per significato e per suono meglio giova a ritrarre (lo dirò col Magalotti) « il volo delle colombe, quando con l'ali tese volano velocissimamente senza punto dibatterle ». Volan. A « vengon», o « vegnon », che tanto s'aggrava sul verso, e' sarebbe forse da preferire il vanno » di uno de' codici Sanesi (I, VI, 28); ma io, pensandoci bene, non vedo ragione di cacciar via la voce più naturale e più snella, che non isgradì all'orecchia di un Niccolini e di un Foscolo. Stefano Grosso dice: volare contrasta ad esser portato dal volere; e il Giuliani non teme affermare che, accogliendo la lezione « volan », si falsa il concetto dantesco e si smarrisce tutta la bellezza dell' immagine. Or perchè? Forse volare vale solo o principalmente dibatter le ali, e non piuttosto trascorrer per l'aria su le ali o anco muoversi rápidamente dovunque e comecchessia? L'uso dei classici e quello del popolo rispondano per me. Io dunque leggo con la Volgata: Volan, per l'aer dal voler portate » ; e mi compiaccio di questo verso lieve ed aereo, che di rapidità di snellezza pareggia il volo delle colombe. Schiera, ov'è Dido. Intendi, come avvertii di sopra, la schiera delle anime, « che son di fama note », « le donne antiche e i cavalieri ». Aere maligno: generatore di tenebre e di bufèra, contrapposto all'aria serena, che veste di sole le ali tese delle colombe e sveglia il dolce pigolìo de' nidi. Si forte fu l'affettuoso grido. La parola più ricca di sentimento è collocata là dove rompe quasi e rimbalza l'onda viva del verso. Ma qui si leva una difficoltà. Il grido di Dante: O anime affannate, ecc., merita davvero nome di affettuoso ed ha in sè tanta virtù d'efficacia? Dissi già del valore di questo grido; e ora aggiungo che a renderlo più efficace dovette giovare da una parte l'aria del viso, l'atto, la voce del poeta; dall' altra quella sete di benevolenza e di pietà, che le anime af fannate doveano sentire potentissima.

D.

(Continua)

G. FRANCIOSI.

SULLE PENE ASSEGNATE DA DANTE

ALLE ANIME DEL «PURGATORIO ».

Delle pene che Dante nel suo Purgatorio attribuisce alle anime macchiate dai sette vizi capitali, cinque corrispondono chiaramente al concetto allegorico di una volontaria espiazione, ossia dell'esercizio d'una virtù opposta a quel vizio per cui le anime si trovano in purgatorio.

E per verità, i superbi che camminano curvi sotto il peso di grossi sassi, raffigurano, senza alcun dubbio, il penitente che volontariamente si

umilia e si abbassa, mentre un tempo troppo volle inalzarsi. Gl' invidiosi che hanno gli occhi cuciti da un filo di ferro, dimodochè nulla possono vedere, sono immagine, se non evidentissima, pure abbastanza appropriata, della mortificazione degli occhi, con cui l'uomo convertito espia il mal uso che fece di quelli, guardando con soverchio affetto i beni terreni « Là ov'è mestier di consorto divieto » (Purg., XIV, 87). E la parola stessa invidia denota un guardar troppo (ab IN, quod hic auget, et VIDEO, id est ab nimis intuendo fortunam alterius. Forcel.). Gli accidiosi, che corrono assiduamente, i golosi che vedono i pomi e l'acqua senza poterne gustare, hanno un senso anche più chiaro, e rappresentano manifestamente lo zelo succeduto nel penitente alla primiera trascuranza, il digiuno e la sobrietà con cui si espiano gli eccessi nel mangiare e nel bere. Anche la pena, assegnata ai lussuriosi, di passeggiare tra le fiamme, può tirarsi al senso di una espiazione, sia che con la maggior parte de' commentatori prendasi il fuoco come simbolo di cilizj, discipline, catenelle e simili tormenti usati dai flagellanti della propria carne, sia che, con altri, vogliasi interpretare per l'amore divino, l'ardente carità, o, in altre parole, il diritto amore, contrapposto al torto (Parad., XXVI, 62-63), il cui acquisto è veramente lo scopo finale di tutto il Purgatorio, come si vede dal canto XVII di questa cantica. Ed io, più che all' altra, inclinerei a questa spiegazione, considerando che tutte le anime indistintamente, per entrare nel Paradiso terrestre, debbono passare tra le fiamme (Purg., XXVII, 10-11).

In questi cinque tormenti, adunque, il concetto dell' espiazione è ben chiaro. E se si pensa che il purgatorio dantesco è appunto un'immagine della penitenza, o della volontaria espiazione fatta in questo mondo dall' uomo convertito a Dio, vedesi la convenienza di tali pene, a differenza di quelle assegnate ai dannati, che, più o meno chiaramente, raffigurano, in generale, la bruttezza ed i funesti effetti dei peccati.

Ma due ve ne sono nel Purgatorio, che sembrano ribellarsi alla regola veduta di sopra, paiono, cioè, rappresentare piuttosto la natura e gli effetti del vizio, che la volontaria correzione di esso. Son esse le pene assegnate agl' iracondi ed agli avari (e prodighi).

Gl' iracondi, infatti, camminano a tentone, tribolati da un denso fumo, che li accieca e li punge. Nel quale gastigo i commentatori vedono (e certo è questo il primo senso che si presenta) la natura e gli effetti dell'ira, che offusca la ragione e manda i suoi fumi inebrianti al cervello. E non solo sentenze di scrittori, ma anche modi proverbiali diversi favoriscono tale interpretazione.

Gli avari hanno per pena di dover giacere a terra volti in giù, senza potersi muovere, ed esclamano: « Adhaesit pavimento anima mea ». E papa Adriano V, spiega così questo genere di purgazione:

Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion dell'anime converse:
e nulla pena il monte ha più amara.
Sì come l'occhio nostro non s'aderse
in alto, fisso alle cose terrene;
così giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia spense a ciascun bene
lo nostro amor, onde operar perdèsi;
così giustizia qui stretti ne tiene
ne' piedi e nelle man legati e presi.

Qui dunque non solo la qualità della pena, ma il poeta stesso interprete di quella, ci manifestano chiaramente le proprietà e i tristi effetti dell' avarizia. Una specie di legge del taglione determina il gastigo riserbato agli avari, come avviene per alcuni dannati dell' Inferno.

Il poeta avrà certamente avuto le sue buone ragioni per uscire, in questi due casi, dalla norma tenuta negli altri cinque. E il savio interprete non deve, come pur troppo si è fatto da certi commentatori, stiracchiare il senso del testo per aggiustarlo ad un preconcetto sistema.

Ciò premesso, e bastandomi di aver fatto notare agli studiosi del gran poema questa differenza di criterio tenuta, per quanto apparisce, dall' autore nello stabilire le pene delle anime purganti, non voglio però tacere che una più matura riflessione sui passi relativi agl' iracondi ed agli avari potrebbe forse reintegrare anche in essi l'unità di concetto.

Io ho pensato per lungo tempo che il fumo sì grosso e « di così aspro pelo » (notisi quest' espressione) invece di rappresentare l'offuscamento della ragione, indichi le molestie, le punture, le piccole inquietudini, che l'iracondo pentito deve affrontare per esercitar la pazienza. E mi faceva forza, fra le altre considerazioni, quel detto popolare « Avere a noia una cosa o persona come il fumo agli occhi» (vedi il Vocab. della Crusca, V. impressione, §. XXXII). Dante, guidato, anzi sorretto, dalla Ragione ritratta in Virgilio, sfida il fumo, ossia, affronta le piccole ma assidue contrarietà e seccature, che di per sè offendono e turbano la naturale suscettività dell'animo umano. Interpretando così, il sistema generale delle pene purgative non sarebbe violato.

Quando pure tale spiegazione paiá stiracchiata e sforzata, o, se non altro, molto meno spontanea della comune, può ricorrersi ad un ultimo rifugio; cioè supponendo che questa volta la purgazione si faccia col meditare sugli effetti del vizio. Quel buio che opprime gl'iracondi ricorda. loro con dolore gli eccessi di collera a cui si abbandonarono ciecamente nella vita peccaminosa menata per l'avanti, e ne mostra la follia.

E non altro che una profonda meditazione, può riscontrarsi significato

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