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nella pena assegnata agli avari, come il poeta stesso ci dice per bocca di Adriano V.

Quel ch'avarizia fa, qui si dichiara

in purgazion dell'anime converse.

La pena dunque degli avari consiste nel vedere e provare in sè figuratamente quegli stessi tristi effetti che provarono realmente nella vita, affinchè si compia in essi la purgazione del vizio.

E forse il poeta dovette in questi due casi ricorrere ad una pena passiva, per dir cosi, non potendone facilmente trovare, come negli altri cinque casi, una attiva, cioè, consistente in atti buoni, opposti agli atti peccaminosi. E infatti, se l'opposto dell'ira è la mansuetudine, se l'opposto dell'avarizia è lo spendere con giudizio (nè poco nè troppo), come poteva ciò esprimersi con azioni che apparissero chiare e che fossero, nel medesimo tempo, pene sensibili?

Queste osservazioni, forse non nuove, ma che io non ho trovato in alcuno degl'interpreti danteschi da me conosciuti, potrebbero servire a far pensare altri, più di me acuto o più erudito, sulla quistioncella proposta? Tale è la mia speranza, od almeno il mio desiderio.

Firenze, ottobre 1893.

R. FORNACIARI.

LE POSTILLE DI GIUSEPPE TAVERNA AL POEMA DI DANTE.

Non occorre che io presenti al lettore il, prete piacentino Giuseppe Taverna, l'autore delle Prime letture, delle Novelle morali, dei Racconti storici, degli Idilli e di altre opere. Egli, insieme col Lambruschini e col Thouar, fu dei primi a pensare all'educazione ed istruzione dei fanciulli e a rivolgere l'ingegno e gli studi a quella specie di letteratura popolare e scolastica, di cui la nuova Italia abbisognava e che col diffondersi dell'istruzione elementare andò sempre più fiorendo e producendo, pur in mezzo a tanto frascame peggio che inutile, copiosi ed utili frutti. Il Taverna, oggi noto soltanto come educatore, ebbe a' suoi tempi fama di let

terato, e Nestore de' letterati italiani potè essere salutato dal Gioberti'. Cresciuto alla scuola del Cesari e del Giordani cooperò a mantenere gloriosamente, massime nell'Emilia, la lingua d'Italia e a ravvivare il culto per i nostri grandi scrittori; fu dei più autorevoli e intransigenti puristi e così infatuato della lingua del buon secolo che preferiva di scrivere pistola invece di epistola e traduceva Sallustio con tale arcaica affettazione di vocaboli e di costrutti che lo diresti vissuto prima di fra Bartolommeo da s. Concordio. Quindi non deve destar meraviglia se un letterato così fatto, quando si accingeva a studiare le opere de' nostri scrittori, sopra tutto vi cercasse col lanternino le parole, come pare dicesse di lui il Monti?. La Biblioteca Comunale di Piacenza, che, con esempio imitabile, raccoglie e conserva tutto ciò che s'appartiene alla storia e alla letteratura locale, ha acquistato recentemente un esemplare della Commedia di Dante commentata dal Lombardi e postillata dal Taverna; io ho disaminato ad una ad una tutte le noticine autografe sparse sugli ampi margini di quell'edizione pregevole, e non vi ho trovato se non raffronti coi noti chiosatori del trecento e, più spesso, come prevedevo, osservazioni di lingua. Egli citerà, per esempio, un passo del Passavanti o di fra Giordano da Rivalta per ispiegare un costrutto o un vocabolo dantesco, o dirà che recente. nel verso 75 del canto IX dell' Inferno significa: più folto, siccome nuovamente prodotto; che nuoro consiglio del verso 47 del I del Purgatorio s'ha da spiegare: nuovo a me: o in cielo è mutato consiglio, non mai statovi, per quanto io so, qual è questo che dannati, ecc.; che m'apprende del verso 133 del canto XIV del Purgatorio si deve leggere « non nel significato di prendere, siccome la Crusca; sì in quello che ha il testo del Genesi qui invenerit me il qual verbo vale quanto scorgere, ravvisare, riconoscere. Niuno inseguiva Caino: egli fuggiva tutti: reputava dover destare colla sua vista odio sì grande da muovere ad ucciderlo ogni uomo che lui riconoscesse, o s'accorgesse di lui 3 ». Le altre postille hanno anche minor importanza di queste, che ho riportato, e non valgono a chiarire nessuno. di quei luoghi oscuri del poema, dove tuttavia pare manco l'ingegno degli innumerevoli commentatori; ma due interpretazioni del Taverna mi sembrano degne di essere sottoposte all'attenzione degli studiosi di Dante. Una

1 V. Alfonso Testa. La mente dell'abbate Giuseppe Taverna. Genova, Tipografia de' Sordomuti, 1851, pag, 125.

2 Ibid., pag. 15.

3 La Nidobeatina e parecchi codici, come il Cassinense e i Patavini 6o e 67o, leggono mi prende. L'interpretazione del Taverna è stata data anche da altri (v. Scartazzini nel Com mento del 1875).

mi è offerta da una lettera che egli scriveva nel 1844 al signor Sabbatino Sacerdoti, e dalla quale stralcio quanto segue:

« Ora eccole la risposta che pensomi dover fare intorno alla questione che la S. V. mi propose.

Poich' ebbi riposato il corpo lasso 1

ripresi via per la piaggia diserta,

sì che il piè fermo sempre era il più basso.

Ed ecco quasi al cominciar dell' erta

una lonza leggera, ecc. ».

Per ben intendere, ponendoci davanti ciò che il poeta descrive con questi versi, gli è bisogno, che adocchiano i precedenti, prendendo il fatto dal suo cominciamento.

«Dante s'avvede d'andare errando per una selva oscura e in tempo di notte, e d' avere smarrito il diritto sentiero.

Impaurito e oppresso dal dolore e d'affanno alla fin fine trovasi al termine di quella valle, appiè e in faccia ad un colle, cui già vestivano i raggi del sole.

«La paura in lui s'acqueta alquanto, e mentre egli passa, volge l'animo, che ancor fuggiva, a riguardare il mortale pericolo ch' egli aveva corso.

«Indi ripiglia il cammino per quel campo deserto e piano, ma perchè tuttavia stanco e non senza paura, ei se ne va guatando intorno e mutando il passo tanto lentamente, che sempre si ferma in sul piè di dietro, cioè il più basso. E così camminando si conduce in sin quasi al cominciar dell'erta del colle, cioè, dove il passo comincia a mutarsi dal piano all'altura. « Ed ecco quale a me sembra la scena e l'azione cui Dante dipinger volle ne' citati versi.

«I commentatori, al parer mio, errarono in questo, che

་་

presupposero

che Dante ripigliando il cammino all' uscir della selva si desse tantosto a salire, a ciò indotti dal nome piaggia, a cui assegnarono il sentimento di salita di monte, mentre poeticamente usasi per qualsivoglia luogo.

Cesare taccio che per ogni piaggia

Fece l'erbe sanguigne;

1 Il Taverna seguiva la lezione più comune; ma è preferibile quella sostenuta dal Caix : Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso. (v. N. Caix: La storia di un verso di Dante nell'Antologia della nostra critica letteraria moderna compilata dai Morandi). Vedi anche il Commento del Casini nel 2° vol. del suo Manuale.

come usasi per ogni luogo il nome di campo:

Solo e pensoso i più deserti campi

Vo misurando a passi tardi e lenti, ecc.

disse lo stesso Petrarca.

«Non osservarono manco che i due versi :

Ripresi via per la piaggia diserta

Sì che il piè fermo sempre era il più basso»,

recitati artatamente, come richiede la tarda e simmetrica cadenza dei loro accenti, figurano a meraviglia col suono la lentezza del camminare, e che il secondo altro non esprime se non la irresolutezza e la paura che consigliavano cotale lentezza, come se egli avesse detto: io camminava sì lentamente, che nel mutare il passo mi fermavo sempre in sul piede di dietro, onde vedere se cosa, o persona, o animale alcuno appariva. Questa parte che non abbiamo dal significato delle parole, ci è messa dinanzi dall'andamento quasi sospettoso e a tentone di tutto questo verso. Il qual verso sembra forse presente all' Ariosto, allorchè nella novella dell'Ostiere (XXVIII) 1 egli racconta del Greco che:

Tien l'uscio e lo spinge, e quel gli cede;

entra pian piano e va tenton col piede.
Fa lunghi i passi e sempre in quel di dietro
tutto si ferma e l'altro par che muova

a guisa che di dar tema nel vetro,

non che il terreno abbia a calcar, ma l'uova ».

Amendue, Dante ed il Greco, fanno i lor passi in simil guisa, perchè temono entrambi; ma il Greco per tema di essere sentito; Dante per tema di alcun sinistro incontro.

« Si disamini ancora il costrutto grammaticale nella proposizione il piè fermo era più basso. Il soggetto è piede più basso, cioè il piede che camminando rimane addietro; l'attributo è il piè fermo. Dante, adunque, dei due piè che l'uno dopo l'altro si muovono nel dare il passo, non ragiona che di un solo, lasciando intendere e immaginare a chi legge che l'un piede non rimarrebbe più basso, se l'altro non si levasse. Quanto poi sia

1 La citazione non è esatta; i primi due versi sono della stanza 62a e gli altri della 63a.

irragionevole il pensare che Dante descriva quivi il suo salire, lo dice il verso che segue:

Ed ecco, quasi al cominciar dell' erta.

«L'erta non è la più alta parte del monte, come sembrano vedere i commentatori. Erta, dice il vocabolario, e lo stesso dicono gli esempi che vi si adducono, non è che luogo per lo quale si va all'insù, contrario di scesa o china. Senz' erta non si può salire, e Dante colla voce quasi c'insegna che non era ancor giunto al cominciar dell' erta.

« Nè giovò, a mostrar loro il vero, d'incontrare al verso 22 dello stesso canto il rimprovero che Virgilio fa al nostro poeta:

Perchè non sali il dilettoso monte.

« Dante non avrebbe meritato un tal rimprovero se piaggia significasse salita di monte, poichè egli aveva già ripresa via per la piaggia diserta1».

Per far risaltare i pregi di questa interpretazione io non istarò qui a notare i difetti delle altre, che si leggono sparse nei molti commenti e raccolte nel Manuale del Ferrazzi (vol. IV pagg. 365-66) e nel Dizionario dantesco del Poletto (vol. V, pag. 171). Prescindendo dal senso allegorico che Pietro di Dante, il Tommasèo e il Buscaino-Campo vollero scorgere nel passo in questione, onde il poeta, a detta di Pietro, camminava per la piaggia diserta a guisa di zoppo (sicut claudus ibat), confesso di non aver mai potuto comprendere come sia proprio di chi salga il tener sempre basso il piede fermo, a meno che non si tratti di un modo di camminare irregolare e strano; neppure saprei acconciarmi a vedervi indicata la continuità dell'andare, come vuole il Clerici2 (sì ch' io sempre poi continuai a camminare); non parlo poi di chi fa andare Dante a passo di corsa o di chi lo fa affondare nella sabbia. È manifesto che il poeta, colla sua perifrasi, ha voluto indicare o una condizione speciale della piaggia diserta o un modo particolare d'andare; nel primo caso, egli verrebbe a dire che la piaggia era così fatta, da permettere al piè fermo di essere sempre il più basso; cioè che la piaggia era piana o lievemente inclinata, perchè solo in piano o in salita leggiera il piè fermo è sempre il più basso, seppure chi

1 V. Lettere dell'ab. Giuseppe Taverna raccolte e pubblicate a cura di Virginio Cor. tesi. Torino, Loescher, 1889, pagg. 156-58.

V. G. P. Clerici, Studi vari sulla divina Commedia. Città di Castello, S. Lapi, 1888.

Giornale Dantesco

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