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inaugurative del primo di questi congressi). L'altra, la Società dantesca, che da Firenze annunziò volere avere stanza in ogni città o terra dove nel nome di Dante italiani, o amici d'Italia, si raccolgano insieme, quando assegnava a sè per principal cura la pubblicazione d'un testo critico del Poema e delle Opere minori dell' Alighieri, prometteva (e a ciò ha lavorato pazientemente e lavora) l'autenticazione, tale in fatto vorremmo che fosse, grammaticale e storica di quel supremo monumento dell'idioma d'Italia; l'autenticazione, ripeto, contro le erudizioni e ingegnosità soggettive rivendicata, della parola contenuta in quel libro, del quale possiamo dire, e di esso solo, e forse nessun'altra nazione di nessun suo libro lo può: In questo segno ci conoscemmo gli uni gli altri lungo i secoli della vita nostra gloriosamente travagliata; per questo, disgregati, ci ricordammo; in questo, quando fu l'ora, ci siamo riconosciuti. Sulle pagine di questo libro, che nessuna tirannide straniera o domestica potè mai porre al bando, mantenemmo intatte e vivaci le imprescritte franchigie dell' idealità; a quell'alta stregua, ci educammo liberi mentr' eravamo schiavi; nella decadenza ci ritemprammo, resistemmo alla corruttela: al suono di quella parola, nella illegittima dispersione dell'eredità nostra ci sentimmo famiglia; nel servaggio, nazione.

E in quel primo dei nostri congressi fu pur ricordato, che « a Dante favella e nazione voglion dire il medesimo ». Fermò egli questo principio in quella fra le minori sue opere, il trattato di Volgare Eloquenza, con la quale spera la Società dantesca poter fra breve inaugurare la pubblicazione critica di esse, precedente quella del poema: ma fu il poema, che all'alto concetto diè sensibilmente la forma, e forma immortale. Anzi, mentre nel Trattato il principio della viva e perenne e diffusa nazionalità della lingua rimase in alcuni particolari offuscato da qualche ambage o equivocazione scolastica, o si impigliò in qualche appassionato preconcetto dell'uomo di parte; nel Poema, invece, dove trionfa l'artista sovrano, l'arte assume dal vivo dei fatti la italiana parola tale quale la natura l'ha nel vivo parlare scolpita; e la ferma, suggello etnico non cancellabile, nella espressione di sentimenti, nella significazione di pensieri, nella coloritura d'imagini, che tutti emergono dalla vita reale: dalla vita reale di quel fortunoso medioevo, che l'Italia, prima riflettendo sopr' esso la luce postuma della romanità, poi versandovi a fasci quella della civiltà nuova e del rinascimento, signoreggiò e fece suo per modo, che le libertà italiane e la vitalità, dico la vitalità spontanea ed evolutiva, del mondo medievale si spensero insieme.

E dal medioevo così com'era, rude, e iniziale d'un rinnovamento sulle rovine del mondo antico, trasse Dante quel ch' egli ha di primitivo appunto e di rude: ma il rinascimento, che germogliava precoce come in terreno

Giornale Dantesco

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suo proprio nella penisola latina, anticipò nel discepolo e figliuolo di Virgilio i caratteri dell'umanismo. Così in Dante furono la poesia ispirata e l'industria della parola poetica; in lui si unificarono l'accoglitore e il disciplinatore dell'idioma, il vate sacro e l'artista. Così egli assembrò quanto la vita nuova d'Italia porgeva, destinato a rimanere caratteristico nella tradizione nazionale; e quanto la vita antica, di fra le tenebre della barbarie, trasmetteva ai nuovi tempi di eternamente vivace. Cosi egli conchiuse il medioevo, e preparò l'umanismo. Per ciò stesso i grandi iniziatori dell'umanismo furono o in alcuna parte suoi imitatori, o suoi espositori: e questi dalla età sua stessa, con Giovanni Boccaccio umanista principe, incominciano; iniziatori, nella città esiliatrice presto pentita, di una serie di interpreti e divulgatori, che Firenze poi lungamente continuò e mantenne, siccome uno degli uffici suoi di italianità che trascurare sia colpa; siccome una di quelle funzioni di italianità (inconsapevoli, se vuolsi), per le quali la città nostra parve conservare all'Italia l'unità se non del suo pensiero, almeno del suo sentimento, per tutto il tempo doloroso che fu disdetta e soffocata l'unità di nazione.

Le due società nostre, adunque, hanno tanto di comune fra loro, che l'una può dirsi intègri l'altra; e che nate, come sono, senza l'una concertarsi con l'altra, minor decoro della patria nostra sarebbe stato, che l'una, qualsiasi, delle due non fosse sorta. Ma sorsero insieme, perchè ambedue erano nel sentimento del paese. L'una, a promuovere ed afforzare, con l'efficacia d' un' opera comune e concorde, lo studio di quel libro che è il maggior titolo storico di nostra lingua: l'altra, a tutelare di questa lingua il diritto vivo e l'avvenire. La Società dantesca italiana, perchè l'entusiasmo e il culto della nazione verso il suo poeta abbiano alimento durevole e saldo in lavoro di critica consistenza: la Dante Alighieri perchè il sentimento nazionale, che ha in quel culto una delle sue più alte e nobili manifestazioni, operi profittevolmente nella tutela e nella diffusione del suo visibile segno: la lingua. Da un lato gli studiosi, le università, le accademie, la cultura italiana, nella cerchia delle Alpi e oltre l' Alpi ed il mare: dall' altro, tutto quanto, nella vita nazionale ed internazionale, porta italiana impronta, contiene elemento italiano. Sull'una e sull'altra società, genio e iddio d' ambedue gli edifizi, ispiratrice comune, madre nostra e signora, l'Italia. Alla tutela e legittima difesa dell'italianità, la Dante Alighieri non può, se la fraternità civile delle nazioni ha da essere nome non vano, non può nè deve temere che le manchi il consentimento e la simpatìa dei non italiani; specialmente degl'ingegni più eletti: de' quali è pur merito e vanto la cooperazione agli studi danteschi, sia sotto gli auspicii medesimi della Dantesca nostra, che se ne tiene onoratissima, sia delle altre società che del nome di Dante han fatto loro vessillo, di là dalle Alpi,

come in Germania; di là dall' Atlantico, nel mondo di Colombo, d'Amerigo, di Paolo Toscanelli.

SIGNORI,

Una similitudine di Dante, là dove è descritta la pianura sepolcrale infocata lungo le mura di Dite, congiunge le imagini di due sepolcreti romani, giacenti l'uno oltre l'Alpi marittime, l'altro sotto le Alpi Giulie: l'uno « presso ad Arli, ove il Rodano stagna », di là dal confine occidentale d'Italia; l'altro, a Pola, dove « il Quarnaro ne bagna i termini » orientali. Parve forse al poeta, nel consertare in visione da' due punti opposti que' ruderi, che verso ambedue le parti la grande genitrice latina protendesse da quelle tombe le braccia, e si ricordasse alle genti. Ma delle due marine, che da quei seni discendono lungo le prode d'Italia, se in capo all'una stava Venezia, antica e gloriosa vedetta sull' Oriente latino, destinata ad essere nella civiltà cristiana la Roma de' mari; dal fianco opposto, il Tirreno era dalle armi fratricide di Pisa e di Genova insanguinato, e doveva di quel sangue rimanere su quel mare la macchia. Le glorie e le sventure, i trionfi e le colpe del nostro passato sopravvissero nella coscienza dei popoli; e nessuna forza ha potuto, nè potrebbe, spegnere quelle memorie. Quando la grande repubblica marinara soggiacque, furono i fedeli schiavoni che sotterrarono in terra dalmata l'insegna di san Marco: e quell'insegna doveva ancora un' ultima volta, ma nel nome d' Italia e della sua indipendenza, essere drappellata sul palazzo dei Dogi, per mano anche d'un dalmata, Niccolò Tommasèo: del Tommasèo, nel quale altresì aveva il poema sacro un interprete degno, e a Firenze era riserbato un cittadino di elezione. Tali cittadini ha reso alla patria di Dante quella regione italica, che per gli scellerati esilii, consacrati dal canto e dai patimenti di lui, aveva ricevuti, nel Friuli ospitale, i fiorentini Mannini: onde Venezia i Manin, il cui nome segna nell'istoria l'ultimo povero doge della Serenissima che muore, e il dittatore eroico di Venezia che risorge italiana. Oggi un bronzo posto da veneti in una piazza di Firenze ricorda Daniele Manin: e un altro bronzo moverà presto da Firenze, per grandeggiare in una piazza di Trento, ed esservi auspicato e atteso simbolo d'italianità nella persona di Dante. Fregiano la base del monumento, in tre ripiani digradanti dal basso in alto, le imagini della trilogia spiritale: il peccato, l'espiazione, la gloria. E nel ripiano medio sta di prospetto quel magnanimo episodio di Sordello, che fu all'Italia divisa e discorde il canto augurale dell' amor patrio e della civile unità, fondata nell'unità del linguaggio: << sol per lo dolce suon della sua terra». Alle figure dell' alta poesia sovrasta la statua dell' Alighieri, incoronata di lauro; che stringe con la sinistra sul cuore il

libro nel quale quelle figure sono immortali, e sporgendo la destra fatidicamente, e con la faccia levata e gli occhi intenti verso qualche cosa di luminoso, sembra nell' atto di pronunciare la parola italica non peritura. Fecondo di memorie e d'augurio, accompagnano sin d'ora, coi loro voti, alla città destinata quel simulacro nobilissimo, quel simbolo di immanchevoli idealità, la Dante Alighieri e la Società dantesca italiana, fraternamente congiunte.

ISIDORO DEL LUNGO.

POLEMICA

ANCORA SULLA "MALEBOLGE,,

(Cfr. L' Alighieri, Anno IV, fasc. 3-4, pag. 151).

Lette le contro osservazioni del dr. Prompt al mio esame critico al suo Studio sulla Malebolge pubblicato nel numero 3-4 dell' Alighieri, perchè possiamo meglio intenderci, mi par necessario, prima d'ogni altra cosa, distinguere nel viaggiare dei poeti per l'inferno, dirò così, due momenti, cioè il voltarsi e il girare che essi fanno nel loro cammino non solo nell'inferno, ma anche nel regno dell' espiazione. Voltarsi a destra o a sinistra vuol dire volgersi verso destra o verso sinistra, facendo centro del movimento la destra o la sinistra, il che è, in altre parole, la descrizione dataci del voltarsi da Dante medesimo:

Fece del destro lato al mover centro

e la sinistra parte di sè torse. Purg., XIII, 14-15.

Girare a destra o a sinistra, per lo più significa camminare attorno ad un luogo nella direzione di destra o di sinistra; e questa definizione del girare è pure di Dante, che così si esprime:

Se voi venite dal giacer sicuri,

e volete trovar la via più tosto,

le vostre destre sien sempre di furi. Purg., XIX, 79-81.

e troviamo indicati contemporaneamente il voltarsi e il girare nei versi seguenti:

Io credo che allo stremo

le destre spalle volger ci convegna,

girando il monte come far solemo. Purg., XXII, 121-123.

Il girare implica un movimento di traslazione; voltarsi non è altro che volgersi sopra sè stesso con movimento soltanto di rivoluzione. Il girare a destra o a sinistra implica movimento in relazione ad un luogo; voltarsi a destra o a sinistra non è che un movimento di relazione alla destra o alla sinistra della persona stessa che si rivolta. Quando uno entra in un cerchio, non nel senso della tangente, ma del raggio, se lo vuol girare deve roltarsi sulla propria destra o sinistra; se si volta a destra, gira il cerchio a sinistra, in quanto che, camminando, ha la sinistra verso il centro del cerchio, e viceversa, se si volta a sinistra, si gira a destra, in quantochè si tiene la destra verso il centro del cerchio.

Orbene la circostanza che nel viaggio dantesco decide sulla direzione che i poeti prendono nel loro cammino sta nelle voltate che essi fanno a sinistra, poichè il girare, ossia percorrere un arco di cerchio a destra, anzichè a sinistra, dipende di necessità dall' essersi voltati a sinistra o a destra. Perciò è naturale che il poeta si limiti, descrivendo il viaggio infernale, ad indicare le voltate: del resto del movimento giratorio sui vari cerchi il poeta non fa menzione quasi mai, sia per l'ampiezza degli archi percorsi, che quasi potevansi considerare come linee rette, sia perchè l'accennarvi era superfluo, in quanto che il movimento stesso era determinato dalla voltata.

Posto ciò, è mestieri che facciamo ad intenderci riguardo alla base su cui il dr. Prompt ed io fondiamo l'itinerario del viaggio infernale. Il dr. Prompt si ferma sulla voltata a destra eseguita dai poeti appena oltrepassata la porta di Dite, davanti agli eresiarchi, dicendo che i poeti, voltando a destra, giravano a sinistra, cioè esponevano la loro sinistra verso l'asse del cono infernale, eseguendo il movimento dell' altro. E i poeti, secondo il dr. Prompt, tennero questa direzione per tutti i primi sette cerchi fino al momento in cui scossi dalle spalle di Gerione, presero contrario cammino. In questo punto adunque i poeti voltarono a sinistra, e quindi, invertendo anche il movimento giratorio, tenevano la loro destra verso l'asse del cono; giravano perciò a destra, secondo il movimento del medesimo. I poeti adunque eseguirono in Malebolge, fino ad Anteo, un movimento giratorio a destra, mentre nell' inferno superiore tennero contrario cammino; ciò sempre secondo il dr. Prompt, s' intende, il quale, secondo me, cade in inganno scambiando il girare col semplice voltarsi.

Io invece, almeno in quanto riguarda l'inferno superiore, sono di avviso contrario, ed in questo mi trovo francheggiato da valorosa compagnia, il che è cosa tutt' altro che da disprezzarsi.

Dante, nella discesa dei cerchi infernali, non accenna mai alla direzione dei movimenti giratori; sempre, invece, a quella delle voltate. L'unica eccezione a questa regola sarebbe là ove i poeti girano l'ultimo arco, tra Nembrotte ed Anteo, ove è detto

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ma anche in questo punto non è precisato il senso giratorio se non in forza della voltata a sinistra che fecero i poeti di fronte a Nembrotte. Il poeta, se avesse voluto tener conto dei movimenti giratori, e dar a questi quell'importanza a loro attribuita dal dr. Prompt, avrebbe dovuto dire volti a destra giacchè voltando a sinistra, come fecero i poeti appena giunti a Nembrotte sul limitare del pozzo, dovevano girare a destra, perchè da

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