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32. Di quel ch' udire o che parlar vi piace
noi udiremo e parleremo a vui,

mentre che 'l vento, come fa, qui tace.

33. Siede la terra, dove nata fui,

su la marina, dove 'l Po discende

per aver pace co' seguaci sui.

34. Amor, che a cor gentil ratto s' apprende,

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del poeta, cortese di tanta pietà ai loro affanni: per la pace, non per altro bene; dacchè l'anima affannata, che non ebbe pace in terra, nè avrà pace in abisso mai, sospira appunto la pace come sovrana felicità! Mal perverso: cioè pena orribile, strana, fuori d'ogni umano concetto. Stefano Talice di Ricaldone legge amor perverso »; e della nuova lezione i dotti editori si dimostrano lieti, certo non pensando quanto ella contrasti alla parola e all'inten dimento de' versi, che seguono. Potrebbe mai Francesca chiamare perverso quell'amore, che tutta la possiede e la vince; quell'amore, che si apprende a' cuori, gentili e non perdona mai all'amato di riamare? Con l'antica febbre nell'anima, dar sì freddo e severo giudizio? A me par di no proprio di no.

32. Mentre che il vento, come fa, qui tace. Prendo volentieri dal codice Villani il qui, già registrato ne' margini della Stampa wittiana; perchè rende più agevole e chiara la interpretazione di questo luogo. I poeti sono in disparte, fuori del ciclone infernale, dove non trae vento, e gli amanti, venendo a loro, godono qualche istante di riposo ; ma non son però tranquilli, e temono che da un momento all'altro l'onda procellosa si distenda fin là, e li travolga nella sua rapina. Meglio leggere e intendere così, che ricorrere all'amminicolo de' riposi della bufèra o alla brutta lezione ci tace ». Cf. Castelvetro, Sposizione, pag. 78.

33. Siede la terra, dove nata fui, Su la marina, dove il Po discende, Per aver pace, co' seguaci sui. Di Francesca e de' casi suoi, vedi, tra' molti, il Boccaccio, l' Anonimo pubblicato dal Fanfani, il Fauriel, lo Scartazzini, il Tonini (Memorie storiche intorno a Francesca da Rimini), il Posocco (La Francesca da Rimini secondo la storia e l'arte), il Poletto (Dizionario dantesco) e il Ricci (L'ultimo rifugio d: Dante). L'accenno a Ravenna non è perifrasi di rètore, frasca morta; ma prende radice dal vivo del cuore umano. Francesca ripensa mestamente le ripe del suo Po e rivede in fantasia quel fiume regale, traendo seco i suoi molti seguaci, dilatarsi e posare nelle tranquille ampiezze dell' Adriatico. È come se dicesse: almen tu, materno mio fiume, metti fine al tuo correre affannato ed hai pace; io pace non l'ebbi, nè l'avrò mai, in eterno! Cf. Carrer, Sopra alcuni passi analoghi di Omero, Shakspeare e Dante (Prose e dite dal Le Monnier, I, 85). Nè questo sospiro di pace esce solo dall'anima di Francesca, sì anche da quella del poeta, che nelle aspre contese della mente, ne' travagli della vita politica, negli errori dell'esilio sospirò sempre a una pace lontana : ond' io ravviso l'uomo là dove, filosofando, l'Alighieri scrive: ..... Pastoribus de sursum sonuit, non divitiae, non voluptates, non honores, nec longitudo vitae, non sanitas, non robur, non pulchritudo; sed pax. Inquit enim coelestis militia: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis. Hinc et pax vobis Salus hominum salutabat. Decebat enim summum Salvatorem, summam salutationem exprimere » (De Mon., I, 5). Cf. di sopra, v. 92; Inf., X, 94; Purg., V, 61 e 131; X, 35; XI, 7; XV, 131; XXI, 13 e 17; XXIV, 141; Parad., XI, 89. Bello e nuovo argomento: il desiderio della pace nell'anima di Dante.

34-36. Dal seno dell'amore, che in sè aduna tutta la vita di Francesca, esce una fatale trinità: amore lieto, germinante dall'anima gentile (Amor, che a cor gentil ratto s'apprende); amore, che diventa passione procellosa e toglie il senno (Amor, che a nullo amato amar

prese costui de la bella persona,

che mi fu tolta, e il modo ancor m'offende. 35. Amor, che a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m'abbandona.

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perdona); amore, che si converte in peccato e in pena (Amor condusse noi ad una morte). A questa trinità rispondono le parti di un dramma terribilmente grande e nuovo, ove Eschilo e Guglielmo Shakspeare si dan la mano: dramma, che in un crepuscolo misterioso dello spirito, fuggente come guizzo di lampo nel buio della presente realtà, congiunge la Terra e l'Abisso, il Tempo e l'Eterno. In ciascuna terzina dal giorno, che tramontò per sempre, si torna alla notte, che non si muta. Nelle parole: « Prese costui », « Mi fu tolto », « Mi prese», « Condusse noi », la Terra manda un'eco di sospiri, d'ebbrezza e di vendetta; nelle altre: « Il modo ancor m'offende », « Ancor non m'abbandona », « Caina attende, l'Abisso ci fa udire la sua trina voce: voce d'affanno disperato, di mente cieca per tenebra di passione, d'odio che non s'ammorza. (Cf. di sopra, a pag. 27). Nè tanta ricchezza di pensiero e di sentimento punto scema alla facilità dell'espressione, chiara e profonda come l'occhio d'un eroe. Amor, che a cor gentil ratto si apprende. Leggo, col Mazzuchelliano: A cor; perchè reputo anch'io questa lezione, come parve al Torelli e al Foscolo, più elegante e più schietta. Nel verbo apprende altri può sentire l'immagine della pianta, altri quella del fuoco; ma l'Alighieri certo ebbe a mente il guinicelliano (Canz. A cor gentil, v. 11): Foco d'amore in gentil cor s'apprende ». Altrove (V. N., §. 20): « Amore e cor gentil sono una cosa; Sì come il Saggio (Guido Guinicelli) in suo dittato pone». Cf. Magalotti, Commento sui primi cinque canti, pag. 81-82. Prese costui. Accorgimento delicato e profondo: nè ora, nè poi (cf. v. 104 e v. 135) Francesca pronunzia il nome, a lei tanto soave e tremendo, di Paolo; nome congiunto in eterno con due fieri nomi, morte e dannazione! De la bella persona, Che mi fu tolta. Rimpiange il bel corpo, soprattutto perchè fu caro a Paolo. Nella visione dell'alba Lia (Purg., XXIII, 102) dice belle le sue mani con la semplicità d'un fanciullo, come direbbe bello un fiore, un'ala di farfalla; ma qui l'anima sente sè in quel corpo, l'antica voluttà, la fierezza d'essere vagheggiata da si leggiadro cavaliere, e principalmente per questo ripensa con mesto desiderio, non senza un'ombra di terrore, la bella persona, che le fu tolta. E il modo ancor m'offende. La falsa lezione mondo », tentando invano di scemare offesa a Francesca, offende il pensiero e l'arte di Dante; dacchè rompe la stupenda unità delle tre terzine, e non rispetta abbastanza la legge della sintassi mentale. Mantenendo però la volgata • modo D, io non intendo modo dell'amore, nè modo selvaggio della morte, onde si svegli raccapriccio, nè modo fraudolento di carpire il sì di Francesca (sottigliezza interpretativa tutta moderna); ma intendo (come intese il Castelvetro tra gli antichi, il Blanc tra' moderni) modo repentino e fraudolento della morte, che tolse agli amanti di provvedere alla propria salute, volgendo la mente a Dio. Un àttimo sarebbe bastato, perchè i due cognati, purificati dal pentimento e dalla preghiera, meritassero di avere a compagni Buonconte e la Pia sanese anzichè Tristano e Cleopatra! Gianciotto fu più spietato di Otello, che, già nel pensiero di soffocare Desdemona, pur la conforta a pregare e le dice: «Io non vorrei uccidere la vostra anima prima che fosse preparata: no, io non vorrei uccidere la tua anima» (Otello, V, 2). Il dolce peccato di Francesca fioriva davvero a somiglianza delle biade del maggio, quando Gianciotto, col bieco proposito di Amleto (III, 3), la piagava a morte. Non la legge, citata dal Negroni (Prefaz. al Commento di Stefano Talice da Ricaldone), ma il dèmone dell'odio

36. Amor condusse noi ad una morte;
Caina attende chi vita ci spense:

queste parole da lor ci fu pòrte.

armò la mano del geloso marito. Di questo, non della morte, la donna colpevole si chiama offesa. A Gianciotto, ella pensa in cuor suo, era vendetta bastevole svellere da me il mio bel corpo: perchè distendere la sua vendetta al di là della terra e del tempo, uccidendo anco l'anima mia? Amor, che a nullo amato amar perdona. Questa sentenza, obiettivamente falsa, prende verità dalla mente passionata di chi parla. Tutta invasata d'amore, Francesca non sa concepire nemmen la possibilità di non riamare; e l'invitta legge del suo spirito converte in legge universale, forza onnipotente e divina, necessità tremenda, che stringe e affanna tutte le creature: onde il sublime. Sentite la presenza del dio, Quem tremuit ipse Iovis, quo nu mina terrificantur, Fluminaque horrescunt et stygiae tenebrae (Apuleio, IV): dalla nuvola della passione balena l'Infinito. Mi prese. Cf. v. 101. Come raggio riflesso, com' eco di voce, amore naturalmente si ripercuote da cuore a cuore. Del costui piacer. Gli antichi dissero piacere, piacenza, piacimento per bellezza, che piace, amabilità, attraenza. Dante, nel sonetto: Cavalcando l'altr' ier per un cammino: « E recolo a servir novo piacere ». Cf. Parad., XXXIII, 33; dove questa voce, pur nel senso di bellezza, ch' empie l'anima di soavità, si riferisce a Dio. Amor condusse noi ad una morte: « una», s'intende, nel tempo e fuori, morte del corpo e dell'anima. Caina attende chi vita ci spense. La Volgata ha in vita. Il Monti: ⚫ Certamente è meglio detto: spegner la vita a Pietro, che spegner Pietro in vita, meno che non si possa spegnerlo anche morto. Nè qui vita vale soltanto vita del corpo o vita prima (Purg., VIII, 9), ma sì principalmente vita spirituale e seconda (Parad., XXXIII, 24), salute dell'anima (Parad., VIII. 39). Gli abitatori dell' Inferno sono i veri morti (Purg., XXIII, 122). Caina attende. Cf. Inf., III, 108. Il sentimento della vendetta non prorompe sotto la forma dell' imprecazione, ma, pur manifestandosi, prende aspetto solenne di giustizia. Queste parole da lor ci fur pòrte. Le parole (avverte il Castelvetro nella sua Sposizione, pag. 80) non furono porte da loro, ma da una di loro, cioè da Francesca; nè si possono adattare se non a Francesca, per la maggior parte ». La restrizione del Grammatico modenese pone il germe della dissertazione sul verso « Caina attende chi vita ci spense » (Cronaca annuale del R. Liceo Galvani, 1874-1875, pag. 1-18) di Emilio Roncaglia; il quale non teme d'applicare la pena dei seminatori di scandalo e di scisma alla parola di Francesca. Vero pur troppo: nati sotto un cielo divinamente aperto e sincero, i critici italiani son per lo più gente nemica di sin cerità e di vigore; gente, che di rado intende quell'arte che si fa natura! Vinto dal reo costume, il Roncaglia non sa darsi pace del silenzio di Paolo, scrupoleggia sul numero del più ( da lor ci fur porte», anime offense ») e sogna in Francesca una creatura tutta mansuetudine e soavità. E' non sente la divinità di quel silenzio, non gusta la delicata ragione di que' plurali, e prende a dimostrare che il grido Caina attende mal si conviene a Francesca. Ma l'anima della terra non si leva forse in rocce paurose, non gitta fiamme accanto a campi fioriti, a serena bellezza d'acque e di fronde? E l'anima nostra non ha talora impeti strani, non ha contradizioni e battaglie, tanto più degne dell'arte quanto più fiere e improvvise? Francesca appunto è un' anima in guerra con sè stessa; una di quelle nature discordi e affannate, dove Calibano e Ariele, Inferno e Cielo si azzuffano terribilmente tra loro: onde il contrasto drammatico, vagheggiato dal Roncaglia, non è da cercare nell'antitesi dei carat teri, ma nella coscienza di Francesca, paragonabile da questo lato alla coscienza di Riccardo III, di Saul e dell' Innominato manzoniano. Bene il De Sanctis : « E chi è Paolo? Non l'uomo, il maschile, che faccia antitesi e costituisca un dualismo: Francesca empie di sè tutta la scena.

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Paolo è l'espressione muta di Francesca; la corda che freme quello, che la parola parla; il gesto, che accompagna la voce: l'uno parla, l'altro piange; il pianto dell'uno è la parola dell'altro: sono due colombe portate dallo stesso volere, talchè al primo udirli non sai quale parli e quale taccia, ed in tanta somiglianza ti par quasi che la stessa voce parta da tútti e due, e puoi dire con Dante: « Queste parole da lor ci fur porte.... Da che io 'ntesi quelle anime offense ».

37. Da ch'io intesi quelle anime offense, Chinai 'l viso, e tanto il tenni basso, Fin che il poeta mi disse: Che pense? Il modo anime offense risponde all'altro anime affannate se non che l'idea dell'affanno qui si congiunge a quella del tradimento oltraggioso, già toccato nella frase Il modo ancor m'offende». Cf. Inf., II, 45; XXXIII, 21; Parał., XVII, 52. Chinai 'l viso. Fa ora la pietà quello che altra volta (Inf, III, 79) la verecondia. Nel viso chinato del Geremia di Michelangiolo si legge il dolore dei secoli: così nel viso chinato di questo Veggente dell'eterno non è solo pietà de' casi di Francesca, ma pietà di tutti i cuori gentili d'ogni paese e d'ogni tempo; cuori fiorenti e luminosi di giovinezza, che il turbine della passione mutò d'improvviso in buio deserto. Poeta filosofo, l'Alighieri piange nell'anima, pensando il fato, onde sulla terra.

Le più gentili cose han guerra e morte!

38. Quando risposi, cominciai: Oh lasso, Quanti dolci pensier, quanto desío Menò costoro al doloroso passo. Fitto ne' suoi mesti pensieri, Dante non può rispondere che dopo qualche istante. Così l'Amore, veduto dal giovane Alighieri nel cammino de' sospiri, non leva subito il capo a riguardare. Cf., V. N., §. IX. Rispondendo, il poeta dapprima parla con sè stesso, e le sue parole non si connettono al « che pense» di Virgilio, ma sì a quello, che il cuore gli ha ragionato nel suo segreto. Qualche testo reca « dolci sospir»; ma la troppa somiglianza tra sospiro e desio mi fa pensare che questa variante derivi piuttosto da riflessione di rètori sul tempo de' dolci sospiri, che non da ispirazione dello scrittore. Uno de' codici sanesi (I, VI, 31) ha « menàr costoro », che a prima vista parrebbe variante bella e buona. Nondimeno, avvertendo che il pensiero, finchè non si muti in desio, non può condurre all'azione, serbo volentieri menò: i dolci pensieri menarono al desio; questo menò alla colpa. Doloroso passo: dall'innocenza alla colpa, dalla vita alla morte, dall' aer dolce al luogo d'ogni luce muto. Quell'epiteto « doloroso » vi dice che il poeta, mentre pensa la terra, ha dinanzi l'Inferno.

39. Poi mi rivolsi a loro, e parla' io, E cominciai: Francesca, i tuoi martirl A lagrimar mi fanno tristo e pio. La donna parlò anco in nome di Paolo; e Dante risponde a lei, ma con l'animo che anco l'altro intenda. Tristo e pio. La morte de' due sciagurati lo attrista; ma il dolce seme di sì amaro frutto lo vince di gentile pietà.

40. Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi desiri?
41. Ed ella a me: Nessun maggior dolore,
che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
42. Ma, se a conoscer la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto,
farò come colui che piange e dice.
43. Noi leggevamo un giorno per diletto
di Lancillotto, come amor lo strinse;
soli eravamo e senza alcun sospetto.

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40. Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri, A che e come concedette Amore, Che conosceste i dubbiosi desiri? Qui torna il dio dell'amore, quel terribile iddio, che Achille non seppe vincere. Dubbiosi desiri; cioè desiderii, che ciascuno degli amanti quasi temeva di confessare a sè stesso; desiderii somiglianti al germe, Che innanzi primavera Dell' involucro suo tenta la scorza.

41. E ciò sa 'l tuo dottore. Penso col Blanc che a raffermare la sentenza di Severino Boezio qui si citi il senno e l'esperienza di Virgilio. Cf. Blanc, Saggio, pag. 66-67. Noto poi col De Sanctis che il sentimento di Francesca prende qui una forma tranquilla e impersonale; e aggiungo di mio che l'antica sentenza, vera in parte se riferiscasi a chi vive nel mondo, acquista piena verità sulle labbra di un dannato.

42. Affetto non è figura retorica e nemmeno vale, come altri pensò, il modo commovente, col quale Dante chiamò Francesca, ma bensì (come talvolta amor ai Latini) desiderio schietto e profondo, che ha la sua radice in una disposizione costante dello spirito, nell'atteggiarsi abituale della mente e dell'animo. Farò come colui che piange e dice. In quest'anima, ebbra d'amore e di voluttà, il femminino eterno si porge nella sua forma più passionata e più stanca: tranne qualche parola, come « Caina attende» o « Galeotto fu' libro », il linguaggio di Francesca è un gemito di melanconica soavità, un non so che di carezzevole e di lamentoso, che invoglia al pianto e popola la fantasía di meste visioni. Tra queste voci di dolore, mosse da senso gentile di riconoscenza, e gli accenti furiosi di Ugolino: « Parlare e lagrimar vedraimi insieme, consigliati dall'odio, è tanta differenza, quanta da 'l sospiro del vento tra le frondi allo schianto della folgore. « Il fiero uomo, il traditore, versa lagrime: la donna amorosa, la tradita, piange senza lagrime, piange con la parola » (Tommasèo).

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43-44. Per semplice diletto, non per trarne esca al fuoco, datisi a leggere degli amori di Lancillotto, tutti soli e rapiti nella tacita lettura, presi come da un dolce sonno dello spirito, pieno di calma ingannevole e d'oblio, i due cognati mi somigliano agli amanti del Sonetto dantesco Guido, vorrei », tolti per incanto dalla terra: l'anima loro va per un mare misterioso, lontano lontano, fra divini bagliori. Nessun fiato maligno, nessun'ombra di sospetto turba dapprima l'incanto: non sospettano di sè, nè d'altri; non del trionfare improvviso dell'occulta passione, nè dell' agguato di Gianciotto. Cf. Tommasèo, Nuovi studi su Dante, pag. 248-250. Per più fiate gli occhi ci sospinse Quella lettura, e scolorocci il viso. A vampate di passione si alternano brividi di terrore; a lieti impeti di senso ammonimenti segreti, voci del cuore o di spiriti fraterni. « Hai nel sospingere degli occhi il contrario dello scolorarsi il viso; in quelli raccolta e vibrata la vita, in questo dipinta e presentita la morte; hai

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