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44. Per più fiate gli occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci 'l viso ;

ma solo un punto fu quel che ci vinse.
45. Quando leggemmo il disiato riso

esser baciato da cotanto amante,

questi, che mai da me non fia diviso, 46. la bocca mi baciò tutto tremante: Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:

Quel giorno più non vi leggemmo avante.

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la vita e morale e corporea, il tendersi e allentare alterno della brama e dello sgomento, del· l'amore e del rimorso; hai quella battaglia, che un punto solo da ultimo vincerà « (Tommasèo)». Per più fiate: « La lotta si ripete; è un resistere e poi un obliarsi e poi un resistere ancora » (De Sanctis). Quel fiate, dieresi potente, vi fa sentire come sia dura cosa a ripensare e a dire questa battaglia suprema dell'anima. Ma solo un punto fu quel che ci vinse. Terribilità sublime dell'attimo! Come l'atomo nello spazio, così l'àttimo nel tempo: un solo punto dà la vita, un solo la morte; e in un lampo di riso, in una lagrima, in un bacio si dischiudono talora lontananze e profondità interminate di dolore e d'amore.

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45-46. Disiato riso. Cf. Petrarca, sonetto: « Quel vago impallidir, che il dolce riso D'un'amorosa nebbia ricoperse ». Non la bocca, nè la bocca ridente, e nemmen qualche cosa, che si veda errar fra le labbra, come il De Sanctis vuole, ma una luce d'occulta allegrezza, che, lampeggiando improvvisa dalla bocca e dagli occhi, illumina di sè tutto il viso. Questa gloria di bellezza, questa luce d'amore, quasi visione di cielo, chiama l'anima innamorata ad effondersi nella soavità d'un bacio, che non ha parola. « Quel non lasciar vedere, non che il contatto delle labbra, nè anco le labbra, è ispirazione degna dell' amore rinnovellato da' tempi. (Tommasèo). Cotanto amante: sì grande e glorioso. Cf. Inf., IV, 102; V, 18; Parad., XXXI, 6. Torna a lode e a scusa di Paolo, che solo dall' esempio d' un prode poteva prendere animo al fallo. Francesca, benchè nol dica, in Lancillotto vede specchiato il suo Paolo. Questi, che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò. «Tra l'amante e il peccato si gitta in mezzo l'inferno, e il tempo felice si congiunge con la miseria, e quel momento d'oblio, il peccato, non si cancella più, diviene l'eternità» (De Sanctis). Dentro all'anima dei perduti il sospiro dell' Infinito si muta in rabbia di antiche passioni: però nel motto Che mai da me non fia diviso » è infinità di brama e d'orrore: terra e inferno vi fremono, amore e dannazione, stretti insieme in fiero nodo, come le due anime per l'aria tenebrosa. Cf. di sopra, vv. 200-206. Silvio Pellico, là nella chiusa della sua tragedia, spezzando in due questa terribile affermazione, rende appena un'eco della parola di Dante. La bocca mi baciò. Il desiato riso del libro prende corpo, si fa bocca desiata; non è più immagine voluttuosa, è fremito di voluttà; Francesca sente ancora il vivo tocco di quelle labbra, la fiamma di quel bacio. Tutto tremante: tremante, intendo, di voluttà e di arcano sgomento. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse. Altro grido violento: dopo il traditore Gianciotto Francesca odia il libro traditore: l'uno co 'l ferro, l'altro con la parola insidiosa le tolsero vita e fama. Alfonso de Lamartine nota argutamente che solo il libro è dato per complice della colpa. Io questo grido ravvicino volentieri a quello, ch' altrove (Conv., I, 9) l' Alighieri leva contro coloro, che la letteratura hanno fatta, di donna, meretrice. Galeotti e meretrici ben s'annidano insieme, compagni di colpa e d'infamia! Quel giorno più non vi leggemmo avante. Verso indefinito e pregno di mistero. È come guizzo di luce in abisso di tenebre, o nota potente, a cui segua

un vasto silenzio.

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47. Mentre che l'uno spirto questo disse,

l'altro piangeva sì, che di pietade
i' venni men, così com'io morisse;
E caddi, come corpo morto cade.

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47. Mentre che l'uno spirto questo disse, L'altro piangeva sì, che di pietade I venni men, così com'io morisse; E caddi, come corpo morto cade. Anche non accettando l'interpunzione proposta da Teodorico Landoni, che fa pausa dopo piangeva, si può serbare al pianto di Paolo dignità e temperanza virile, purchè sia dichiarato bene quel sì, che non vale copia, abbondanza, ma piuttosto atto e suono di pianto. Del resto, questa immaginazione, che Ugo Foscolo chiama sublime, spiacque a Francesco Domenico Guerrazzi. « Per me non vorrei, egli scrive, che l'uomo piangesse mai nè manco nello Inferno »; parola superba di rètore. Altri, rammentando il giudizio di Benvenuto, a proposito di Paolo: « Homo magis deditus otio quam labori», dirà: in questo pianto l'Alighieri volle rappresentarci una natura molle e femminea; io amo piuttosto darmi ragione dell'alta pietà del poeta e pensare che Paolo non pianga di sè, ma di lei, che amò ed ama più della vita, più della salvezza eterna e di Dio. Quel bacio, in cui si raccolse tutta l'anima nella giovanile baldanza del desiderio, fu bacio di morte e di perdizione! Paolo, che forse guarderebbe con l'occhio di Farinata e di Giasone il proprio inferno, non regge a questo pensiero; e piange di vere lagrime nella parte più riposta e più viva della sua mente desolata. Di pietade Io venni men, così com' io morisse. Qui tutto ha grandezza eroica: l'amore; la battaglia dell'anima innamorata; la pietà del poeta, ben chiamata dal de Sanctis musa di questo canto. Come altrove (Inf., XX, 19-24), per sentimento vivo dell'umana dignità, l'Alighieri piange amarissimamente la nostra imagine travolta dalla colpa; qui, per quell'alta idea di donna, che amoreggia nel suo pensiero, egli piange con Paolo cotanto strazio di bellezza, la più cara forma dell'angelica farfalla eternamente chiusa tra le spire del verme! Non si frantenda per troppo amore di leggiadría, o per vaghezza di contrapposti: Francesca benchè vesta lume di ricordanze gentili, ultimo albore del suo spirito, è pur sempre nella mente di chi la creò fantasma avvolto di tenebre e di procella. Fissiamo l'occhio in quel lume; ma non dimentichiamo che sotto i miti chiarori mugge l'Abisso. Altra volta, contemplando questo fantasma, sì bello d'amore e di poesía, campeggiare nel cupo di sì orribile scena, rammentai la colomba di Virgilio (Aen., II, 516), fuggente il nembo, che dietro mugola e avvampa; oggi, ripensandoci, mi piace meglio assomigliarlo alla nuvola procellosa, che pur s'imbianca di sole. E caddi come corpo morto cade. Nell' Inferno l'umano del poeta è come terra temperata dai geli e dalle tempeste: sfolgorato e vinto di pietà e di terrore, si prepara alle visioni del monte e alle caste ebbrezze dei cieli.

G. FRANCIOSI.

POSTILLE DANTESCHE

DI ALCUNE LEZIONI DEL FRAMMENTARIO USEPPIANO. 1

AL PROFESSORE A. FIAMMAZZO.

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Chiarissimo professore.

Cagioni molte e varie indugiarono la mia risposta; ma tra queste cagioni non fu il mal tardato remo, nè la sconoscente dimenticanza. Tardi, >> molto tardi, ma di gran cuore, io rendo grazie all'opera diligentissima. » di Lei, dantista egregio, che volle e seppe secondare così bene il mio >> desiderio. Pur debbo confessarle, per amore di sincerità, che a note fret» tolose non desideravo si desse tanta importanza; nè certo potevo desi>> derare mi si facesse carico di qualche distrazione, ch' io stesso, pensan>> doci su, avrei corretto. Consigliai, è vero, la distinzione tra varianti ed » errori; ma consiglio non fa legge; e ciascuno può, se il consiglio non » piaccia, allontanarsene. Ella, per soverchio di cortesía, ha mutato in legge » un consiglio, che non Le piacque! A me, non lo nascondo, quel consiglio piacque e piace tuttora; perchè credo che lo sceverare, dopo lunga » e attenta ponderazione, gli errori palesi dalle varianti lezioni rimova un ingombro inutile e dannoso; ingombro che, se non disvìa, ritarda l' oc» chio e la mente nello studio fruttuoso del Testo ». Così cominciavo una mia lettera a Lei, inviata dal Partenio il 12 agosto 1892: poi soggiungevo le postille, che ora Le mando qua e là ritoccate e con qualche giunterella; da ultimo, accennando scherzevolmente alle parole, ond' Ella conchiude la sua notizia sul Frammentario di Casa Useppi, Le dicevo: « Vivendo, quasi come selvaggio, tra' monti dell' Irpinia, ignoro se qualche Ser Ap» puntino abbia ammannito il fardelluccio delle censure! Ad ogni modo

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1 Cfr. L' Alighieri, II, 219.

>> eccomi qua: le spalle sono ancora buone; nè, per sì lieve peso, io mi pentirò dell' avere commesso a mani tanto amorevoli e valenti le mie » povere noterelle sangimignanesi.

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« Il tempo e le cure della vita mi fecero dimenticare, a poco a poco, » la mia lettera avellinese sull'Useppiano e il silenzio, che le tenne dietro. » Nato il Giornale dantesco, le cortesi istanze dell'amico Passerini richia» marono alla mia mente, tra molte cose dantesche inedite, anche le postille » su le varianti useppiane; ma io non poteva risolvermi a mandarle in >> luce senz' averne assentimento da Lei1 ».

Foggia, 9 agosto 1893.

1. Ben m'accors' io ch' egli era d'alte lode.

Parad., XIV, 124.

Riconosco probabilissima la generazione grafica di ella da elli o ello; ma penso che il Poeta, volendo indicarci l'inno, avrebbe scritto, per tutta evidenza di legame, esto era, come altrove este parole, esto sentiero; del restó, per ragione di sentimento, vorrei si continuasse a leggere ella, riferito a melòde. Ciò, che non viene al senso o all' intelletto, può essere, anche solo in parte, determinato dall'uomo? Io non credo. L'inno della croce non è raccolto dal Poeta, la melòde sì: però, secondo legge di pensiero, la determinazione suggerita dalle parole « risorgi e vinci » deve riferirsi alla nota melòde, non all'inno ignoto. Nè si dica: qui v' ha del troppo sottile; no, perchè l'uso popolare consuona a quello, che ora affermo. Chi d'un canto, udito per la prima volta, afferra appena una parola, due parole, che accennino a guerra, a fede, ad amore, non dice: è inno, ode, sonetto di questo o di quell'argomento; ma dice: è canto guerresco, canto sacro, canto amoroso. Cfr. Parad., XXIII, 109; XXIV, 114.

2. Se non che dalla parte, onde s'apprende,
nulla sen perde . .

Parad., XV, 17.

Apprende, detto benissimo e di fiamma e di pianta, non isveglia subito, nè di necessità, l'immagine del fuoco: poi, come l'apprendersi della pianta non si può disgiungere dall'idea del terreno, ove la pianta s' attiene e mette radice; così l'apprendersi del fuoco è inseparabile dall'idea della

L'assentimento fu dato e con lieta prontezza.

materia, che lo alimenta. Ma dove, su nelle ampiezze di bella notte estiva, esca visibile al fuoco, che vi s'accende improvviso, corre un tratto e dilegua? Nemmeno del fuoco della folgore altri direbbe che s' apprende là, onde si disserra.

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Meglio che l'enfatica maledizione del padre Cesari (Bellezze, ecc., Parad., dialogo VII), mi piace qui rammentare la sentenza molto giudiziosa del Foscolo (Discorso sul testo del poema di Dante, cap. 196): « Ma da che s'ha da stare a' rischi dell'indovinare (tra le varie lezioni del Poema), la ragione della poesia giustifichi la proscrizione delle prosaiche ». L' « arrosemi un cenno », gelida forma da leguleio, non poteva mai venir fuori dalla Mente innamorata, che, immaginando Beatrice, germogliava e rideva in ogni suo pensiero come giardino al Sole di maggio. Forse alcuno contradirà, allegando il corollario della « donna soletta» (Purg., XXVIII, 136); ma io prego fin da ora il contradittore di considerare che in corollario, spirante tuttora, a' tempi di Dante, la freschezza fragrante dell'ètimo, ben poteva Matelda vagheggiare le corolle de la sua ghirlanda. In vece arrosemi, da arrogere, sapeva, pur nel trecento, di pergamena giallastra e di faccia aggrinzata. Nè l'esempio, citato dal Fiammazzo, di un Cronista, che tocca di priorati e di elezioni, giova punto a dimostrare il contrario. Piuttosto quel del Petrarca (Canz., C. IV, 4, 11): « E duolmi che ogni giorno arroge al danno» parrebbe avere in sè qualche gentilezza; ma, guardando bene, e' si scopre anche nel verso petrarchesco una faccia austera e un registro: la faccia dell'anima dolorosa e il registro della coscienza. Ognimodo l'arrosemi sarebbe fuor di luogo; perchè Beatrice, prima di questo cenno, nulla ha detto o accennato al Poeta. E chi, sano di mente, fa l'addizione del suono col silenzio, del moto con la quiete?

4. O cara piota mia, che si t'insusi, ecc.

Parad., XVII, 13.

Le piote, guizzanti fuor da' buchi della pietra livida e lambite da fiammelle (Inf., XIX, 120), rendono immagine, a cui lì niun'altra precedette; fosca immagine, che si disegna, sola e spiccata, nella nostra fantasia; ma chi, dopo avere immaginato Cacciaguida come radice d'albero (Parad., XV, 88), può immaginarlo mutato in gleba o zolla dalla piota dell' Useppiano? E dico mutato in zolla, perchè piota, quando non significò la pianta del

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