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piede umano, che nel caso di Cacciaguida sarebbe ridicolo a pensare, valse appunto zolla erbosa e piana, proprio di quelle, che l'agricoltore toscano usa a impellicciare gli argini.

5. Nave, che per torrente giù discende.

Parad., XVII, 42.

Torrente ebbe quasi sempre, così nell'uso de' buoni antichi come nel moderno, significato di acque rovinose, che scendon giù dai monti. Però, parlando di Domenico, il santo Atleta, che negli sterpi eretici percosse, l'immagine comparativa di torrente, ch'alta vena preme, tornava al Poeta meglio opportuna d'ogni altra; ma, parlando di nave, gli soccorreva spontanea l'immagine di vasta corrente, su le cui ripe

a specchio siede il paesello, e splendono

lieti borghi e città.

Il verso «< Nave, che per corrente giù discende », ampio e sereno, rende il moto, non di legno travolto da rapina di acque procellose, ma quello di nave, che veleggi a seconda per un bel fiume tranquillo.

6. Temo di perder viver tra coloro,

che questo tempo chiameranno antico.

Parad., XVII, 119.

L'orecchia di Dante, poeta sovrano anche per magistero d'armonia pensata e profonda, poteva mai approvare la cacofonia « perder viver »; tale, che ogni orecchia, un po' educata a bontà musicale di verso, ne sarebbe schiva? E perchè, se l'avo nel suo preciso latino disse VITA, il nipote, quasi correggendo, avrebbe detto VIVERE? Nè Dante, io credo, temeva di perdere una parvenza vana, la fama o il mondan romore, che nell' undecimo del Purgatorio somiglia a fiato mutevole di vento; ma temeva di perdere qualcosa di saldo e vero, la potenza di mantenersi vivo nella mente e nel cuore. degli uomini; cioè virtù di parola, che nutra e rinnovi, di tempo in tempo, le primavere sacre dello spirito. Ora, s' io non m'inganno, ad esprimere. questa virtù operosa e perenne riesce attissimo il vocabolo VITA; così ricco di valore e di nobiltà, che lo stesso Poeta non dubitò usarlo più volte, parlando dell' anima sciolta da materia, rifatta santa e raccesa di novella vista. Cfr. Parad., VII, 149; XII, 127; XIV, 6; XX, 100; XXI, 55; XXV, 29.

G. FRANCIOSI.

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Il professor Oreste Antognoni, richiamando, nel suo bel volumetto di saggi danteschi, l'attenzione degli studiosi su questo verso, fu causa che due altre nuove interpretazioni si aggiungessero alla sua, l'una nel quaderno V e l'altra nel VII di questo Giornale.

In verità non pareva a me che potesse quel verso lasciar campo ad interpretazioni essenzialmente differenti. Intendasi s' adagia per si posa ovvero per indugia, va a suo agio, m'è sempre sembrato che fosse da rifiutar senz'altro la chiosa, che ha del ridicolo, secondo la quale dovrebbe ritenersi che Caronte battesse le anime entrate nella barca, perchè lasciassero posto alle altre, mentre ho sempre inteso che Caronte le battesse per sollecitarle ad entrare. Nè in ciò ho visto mai contraddizione alcuna coi due luoghi in cui Dante afferma che le anime apparivano pronte, cioè disposte e sollecite a passare il fiume. Non c'è, a mio avviso, contraddizione col verso 74, che precede, per la ragione semplicissima che il sopraggiunger di Caronte, il quale spaventa le anime colle sue terribili parole, fa sì che, se prima erano pronte, dopo non lo fosse più. Senonchè questo indugiare, o posarsi che sia, delle anime, fu effetto momentaneo delle parole stesse di Caronte; ma ben presto lo sprone della divina giustizia mutò ancora in disìo la tema, onde esse riappaiono tosto pronte a trapassare, come è detto nel verso 124.

Così inteso il passo, non v'è più contraddizione, mi sembra; e quindi torna inutile il fare quistioni più o meno sottili sul preciso significato del vocabolo adagiarsi.

Comunque, accettabile sarebbe, poichè ragionevolissima, l'interpretazione data dal prof. Maruffi, e cosi dicasi per quella del prof. Antognoni. Nè io avrei preso la penna in mano per parlar ancora di codesto già abbastanza tormentato verso dantesco, se il signor Senes non ci avesse mandato da Londra la sua novissima chiosa, la quale è davvero così peregrina, che merita di essere discussa.

Secondo il signor Senes, si tratta dunque di un « qui pro quo di una stonatura, di un enorme granchio, insomma, preso fin qui da tutti i chiosatori: ogni altra lezione fuorchè la sua, è priva di senso comune. Cospetto! Niente di meno!

Quanto a me, ritengo per fermo errata di sana pianta la interpretazione del signor Senes; epperò mi sembra pregio dell'opera il ribatterla brevemente in questo stesso Giornale, dacchè non sarebbe desiderabile, a parer mio, che anche uno solo di quelli che hanno letto l'articolo di quel signore, restasse per avventura sedotto e persuaso dalla novità del commento. « Caron dimonio.... batte col remo (le onde ovvero la barca); qualunque (ognuna delle anime) s' adagia (si pone a sedere). »

Così interpreta il signor Senes.

Or bene: parecchie buone ragioni si potrebbero addurre per dimostrare che codesta interpretazione è inaccettabile; io m'accontenterò di una sola, che è per sè tale da rendere perfettamente inutili tutte le altre.

In quale grammatica o in quale opera di scrittore italiano ha trovato mai il chiosatore che la voce qualunque possa equivalere al semplice pronome ognuno? Sfogli pure tutto quanto il poema dantesco e vedrà la parola qualunque, soggetto od oggetto che sia, usata sempre nel suo unico significato di ognuno che, ogni..., ecc.

Questa semplice osservazione basta, od io m'inganno, a distruggere dalle fondamenta la nuova chiosa; e credo che nè l'autore di essa nè altri possa contrapporre alcunchè all' obbiezione mia. Resta dunque assodato che, per riguardo al verso dantesco:

Batte col remo qualunque s' adagia,

il qui pro quo» spetta al signor Senes, anzichè a tutti gli altri commentatori, cui egli generosamente vorrebbe regalarlo. Non è così, chiarissimi colleghi Antognoni e Maruffi?

Di Potenza, a' 26 di novembre del 1893.

VARIETÀ

UMBERTO NOTTOLA.

OSSERVAZIONI ESTETICHE SULLA DIVINA COMMEDIA

In letteratura vi sono talora delle frasi fatte, de' criteri prestabiliti, che senza piena discussione sono accettati o subiti, perchè avvalorati da valentuomini che li pronunciarono e che non pensarono certo che essi rimanessero intangibili e immutabili sempre. Or questo pregiudica il vero criterio e il senso estetico e sottopone a cosiffatto giudicio anche i più grandi capolavori, come la divina Commedia, che, quale visione - epopea - drammatica, sfugge a tutti i canoni preconcetti de' critici e per esser giudicata a dovere bisogna considerarla da un punto di vista diverso e più alto di ogni altra opera.

La divina Commedia è un poema, come dire di un genere a sè: ha qualcosa di comune e somigliante con tutte le gradazioni del poema, ma, nell' assieme, è diverso da ciascuna di esse. È una visione, ma delle visioni non ha la ruvida ingenuità e la stretta ragione etica : è insieme religiosa, civile ed etica. È un poema, ma del poema non segue appuntino le leggi ; poichè è tutto all'opposto quanto alla contemporaneità e al luogo storico de' personaggi, dacchè esso si svolge ne' tre regni della morte, dove si trovano genti di ogni epoca e nazione e sono gli attori del suo gran dramma; con esso ha comune l'azione e la scena ma non la continuità, perchè nella Commedia c'è l'azione grandiosa, cìi sono molte scene drammatiche, ma intercalate dalla narrazione epica che ne fa il poeta come autore e come protagonista.

Giornale Dantesco

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Se così è, a me pare che non si possa affermare di essersi detta l'ultima parola nella critica di cotanto monumento estetico; e perciò io, con trepida venerazione e sincera modestia, sottopongo agli ammiratori e agli studiosi di Dante le seguenti brevi osservazioni sulle tre cantiche divine, nella speranza che ne derivi alcun vautaggio così a me come ai miei lettori.

I.

L'Inferno è il regno della gente morta alla vita sensibile e a quella della grazia: è abisso tenebroso e sotterraneo, simbolo del peccato, che è oscuramento della ragione alla luce del vero e subissa l'uomo nell'orrendo baratro. L'Inferno è il regno della materia grezza, bruta, deforme, che imbruttisce la realtà delle cose; quindi le anime ne' lor corpi fittizii e poi quando rivestiranno le loro spoglie appariranno nelle lor reali fisonomie che ebbero in vita, ma ognorpiù imbruttite per due motivi: la bruttezza fisica crescente in proporzione della crudezza della pena deformante le primitive fattezze e la morale bruttezza che rende abbominevoli i dannati. Perciò Dante non riconosce Ciacco e altri, non raffigura Filippo Argenti e ser Brunetto, perchè si ricordano meglio gli avversari e i benefattori. Nel Purgatorio le pene troppo sensibili trasfigurano le ombre dalle prime fattezze. Forese, goloso, è appena raffigurato da Dante, come nel Paradiso Piccarda, che trasfigurata dal primo concetto, e apparendogli assai più bella che nol fu in vita, non è subito riconosciuta dal poeta.

L'inferno è tenebra, bestemmia e tormento: è la sede del male rilevantesi in tutta la sua orrida e brutta realtà.

È un mondo plastico, in cui il peccatore vive nel suo peccato compiacendosene e gloriandosene, perchè solo un momento che avvertisse la sua reità e la orridezza del peccato, in quel punto stesso comincierebbe la sua espiazione che man mano lo riabiliterebbe; e ciò non può essere nè moralmente nè teologicamente. Chi ha coscienza che il male è male, già si comincia purificare; e nell'inferno non ci è redenzione. Che se alcune anime vorrebbero pregare o imprecano al loro uccisore o persecutore o nemico, come Francesca, Pier delle Vigne e il conte Ugolino, non è perché esse sentono abborrimento pel male; ma il groppo si snoda a considerare che il poeta talvolta le fa parlare artisticamente come se ancor fossero in vita; infatto taluna dice io sono come Pier delle Vigne, tanto si trasporta col pensiero al mondo parlando con Dante, mentre le altre dicono io fui: e mostrano così che esse si sentono distaccate dal mondo, dove pur rivivono con la ricordanza. Cosicchè noi seguiamo il poeta nelle scene più meste e patetiche dell'Inferno e del Purgatorio, che oscillano tra i due mondi, della vita e della morte. La differenza delle anime nelle tre cantiche è questa che, nell' Inferno, morte nel male e dannate se ne compiacciono, dimenticando il bene; nel Purgatorio ricordano il male pentendosene e aspirano al bene; nel Paradiso, obbliando il male, rammentano il bene e godono il sommo bene: Dio.

I veristi si pascono di una grande illusione, reputando Dante realista a modo loro nell'Inferno che lodano a coro, dicendolo più poetico delle altre due cantiche. Ma adagio a ma' passi. Dante non avrebbe voluto parlarci del male: ma si determina a farlo per amore del bene che ne deriva dal suo viaggio e lo dichiara innanzi tutto in principio, quando, parlando della selva, dice che

Tanto è amara, che poco è più morte:

ma per trattar del ben ch' io vi trovai,
dirò dell' altre cose che io vi ho scorte.

Ora questa è una bella e chiara protesta, che ei, per tanto ci parla del male in quanto ce ne venga un bene, che è la legittima conseguenza del suo pellegrinaggio per l'inferno e

gli altri due regni, E quale è questo bene? È Virgilio che lo guida e ammaestra, illuminato da Beatrice, il cui raggio spesso lampeggia nelle tenebre infernali e sorregge Dante nella perigliosa via; è il Limbo, dove sono le anime de' bambini e de' sommi che non adorarono debitamente Dio: è la contemplazione delle adeguate pene de' dannati, i cui orribili e nuovi martirii sgomen. tano, ritraendo dal male. Dante perciò prima compassionevole ne piange, ma alle parole di Virgilio :

Qui vive la pietà quando è ben morta,

diviene, poco a poco, più saldo e indifferente, considerando che la divina giustizia rimarrebbe offesa dalla sua compassione; e finalmente arriva non solo alla insensibilità ma financo al disprezzo verso i traditori, insultandoli, calpestandoli, mancando lor di parola e facendo di tutto ciò un canone di galateo sgarbato :

Fu cortesia con lui esser villano.

Gli antichi e moderni veristi, per progetto non per necessità, parlano del male come male e se ne pascono e deliziano e lo rivestono delle forme più belle e delle immagini, più abbaglianti; onde essi non han la pur menoma intenzione del bene, trattano del turpe per voluttà e avidi gavazzano nella belletta sozza del laidume, cercando di abbellirlo e' inverniciarlo.

Ma Dante esce a dire nel cerchio degli avari che ei non vuole imbellettare il male parole non ci appulcra; come nella bolgia de' ladri chiede venia se ivi la penna fiori aborra, per dir le cose nuove nella lor nuda verità. Ei non si studia di abbellire o esagerare il brutto, il laido e il deforme, come, pur troppo, si affaticano a fare i cosidetti realisti, ma spiattella le cose come sono nella lor cruda realtà, quando assegna le pene più sozze e appropriate alle colpe; ma poche volte adopera immagini basse e parole sconce per rappresentare le cose nella lor laidezza e destar raccapriccio in chi legge, che ha presente la scena per la sua evidenza e sente già il lezzo disgustoso di cortigiane e adulatori immersi nello sterco. Dante non illustra le turpi orge e le sentine del vizio, come pur sogliono i veristi di ogni tempo, e circonda i dannati più volgari e cattivi di un manto d'ignominia pari alla lor tristizia, e li stimatizza di un anatema incancellabile, designandoli alla celebrità dell' infamia. Nè pago di ciò, con sennato criterio, berteggia i più sozzi peccatori, i golosi, g'i iracondi, gli adulatori, i barattieri e i falsatori; Ciacco, Filippo Argenti, Çaccianimico, Interminei, Ciampolo, maestro Adamo e Sinon greco da Troia, e i diavoli azzuffantisi nella impegolata pece e la nuova cennamella con cui si movono. sono figure comiche indimenticabili. Ei crea così.delle scene varie e piccanti, che eccitano il riso e ridondano a maggior dispregio del male e de' peccatori e dei diavoli, su' quali trionfa la giustizia divina che è l'eccelsa insegna del poeta e rivela la sua alta concezione etica e artistica.

II.

Il Purgatorio invece è il regno della vita: vi si alternano pianto e speranza, pena ed espiazione, tenebre e luce. La realtà vi comincia a diventare idealità: la materia, poco a poco, si sprigiona dal suo involucro: la natura ivi si spoglia della sua ruvidezza e, ingentilendosi, ivi appare più bella alla luce del sole. L'abisso è restato giù; quì siamo sul monte, che è, insieme, realtà e idealità. Sul monte si anela all'infinito, a Dio. L'oceano sottostante rappresenta le tempeste della vita: nel vero purgatorio non dominano le intemperie; non vi piove, nè tira vento; sull' Eden l'acqua sorge spontanea da viva vena, non ristorata da vapori conversi in acqua, ma arrivata da Dio, come la pietra mirabile del deserto figurante Gesù Cristo.

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