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La questione del codice grenobliano è ben lungi dall'essere esaurita, e noi crediamo che ciò che si è fatto finora sia poco, in confronto con quello che rimane da fare.

Qui tratteremo prima dei possessori del codice.

S. I. DI PIETRO DEL BENE

Il possessore attuale è la Biblioteca di Grenoble; ma non si può determinare quale fu l'epoca esatta in cui il ms. venne acquistato.

È da sapere che in quella Biblioteca, sono numerosissimi i libri che si ebbero per legato di monsignor Caulet, vescovo di Grenoble, il quale mori verso la metà del secolo XVIII. Noi credevamo, quando si fecero le nostre prime ricerche, che il codice. fosse cosa del Caulet: ma rifrugando nei suoi cataloghi, che paiono compilati con grande esattezza, non vi ritroviamo niente. Poi, negli anni della Rivoluzione, vennero in biblioteca molti volumi confiscati nelle case e palazzi dei nobili.

Giornale Dantesco

Nell'elenco d'una di quelle casse di libri, si legge il titolo della Monarchia. E questo volume non esiste. Forse ci fu un errore; forse si sbagliava l' Eloquenza Volgare per la Monarchia.

Verso il 1798, certi comissari delegati dall' amministrazione del dipartamento dell'Isère fecero un catalogo generale dei manoscritti, nel quale non si vede quello di Dante.

La prima menzione del documento si ritrova in un catalogo scritto dal Ducoin, non si sa quando, ma sicuramente dopo il 1816 e prima del 1819. Sotto il regno di Napoleone, fu bibliotecario il Champollion, fratello del grande egittologo; nel 1816 fu surrogato dal Ducoin; poi riprese il suo posto nel 1819; lo conservò fino al 1821, ed ebbe per successore il Ducoin, che vi rimase per venticinque anni di seguito e morì nel 1847.

Nel catalogo qui sopra accennato, il Ducoin descrive il codice nei termini seguenti:

Liber de vulgari eloquio sive idiomate. in 8°. Manuscrit qui paraît être du quinzième siècle. Il est sur vélin, doré sur tranche, et il a des lettres initiales coloriées.

Ritornando in biblioteca, il Champollion aggiunse questa no

'tarella:

C. du D. Tasse.

La Dè cancellata. Pare che il Champollion volesse scrivere: du Dante. Poi, credendo che quella idea fosse erronea e degna di correzione, attribuì il libro al Tasso, con tutto che fosse, a suo parere, opera del secolo XV.

Venne a Grenoble non so che professore tedesco, e ricopiò pietosamente le parole del Champollion, di modo che nel gran catalogo scientifico (!!) del Haenel (Lipsia, 1830), il titolo si legge così:

Tasso, de Vulgari Eloquio, sive idiomate. Saec. XV. membr. 8. Finalmente, il Ducoin scrisse in margine « Non, mais du Dante». Questa nota è posteriore al 1821.

Che nel secolo XVI fosse possessore del codice il Corbinelli, è un punto che il Maignien ed io abbiamo stabilito in modo certissimo. E qui mi fermo per osservare che prima delle nostre ricerche, era sragionevole il credere che fosse così. Veramente il modo che tenne il Corbinelli per compilare la sua edizione è stranissimo, ed è cosa che fa poco onore alla sua memoria. Egli nella sua prefazione non dice parola del Trissino, e vuol far credere che nessuno abbia publicata l'opera di Dante prima di lui medesimo. Pure, invece di trarre qualche profitto del documento che aveva alle mani, si accinse a modificarlo bestialmente, per

distruggerlo, e fare sparire tutte quelle buone lezioni, che, per errore dell' altro amanuense, autore del codice trivulziano, rimasero incognite al Trissino. E quando quest'ultimo copista imaginava glossemi stupidi ed inconsistenti per correggere il codice grenobliano, il Corbinelli, invece di lasciar stare quelle baggianate, ritraduceva in latino l'italiano della traduzione, come se fosse cosa sacrosanta, alla quale fosse illecito derogare in qualunque luogo.

Se la scrittura di quasi tutte le noterelle marginali non fosse visibilmente quella del Corbinelli, noi dovremmo credere ancora che il codice trivulziano fosse origine tanto dell' edizione latina come dell'italiana, ed io non so intendere come il Fraticelli, che aveva su queste cose informazioni assai sicure, ma non aveva mai visto il documento di Grenoble, fosse sconsigliato al punto d'imaginare che da questo codice nascesse l'edizione del Corbinelli. Qui, come accade talvolta, il Fraticelli, dicendo cose che dimostravano la più grande ignoranza dei fatti, giunse per combinazione a conclusioni vere. Ma, insomma, se il Corbinelli avesse avuto nella sua biblioteca il codice trivulziano, invece del grenobliano, il suo libro sarebbe il medesimo di quello che è infatti; e per conseguenza io posso dire che prima di me non ci fu mai nessuno che abbia fatto studi su quel manoscritto: giacchè il Rajna si limitò a esaminarlo, ma non vi ritrovò nulla di nuovo, con tutto che per dieci lunghi anni abbia combinato delle riflessioni su quel proposito.

Il Corbinelli dice che acquistò il volume da un certo Pietro del Bene, gentiluomo italiano.

Il ms. si compone di 27 fogli di velino, ai quali si misero, in epoca moderna e probabilmente nel nostro secolo, i numeri 1, 2, e così via di seguito. La scrittura incomincia sul foglio 1, il quale è macchiato, più che ogni altro. Pare che abbia sofferto assai, forse per essersi inumidito, poichè i rabeschi della prima lettera iniziale non esistono più; ma pure se ne vede qualche avanzo, sotto forma d'una piccola e pallidissima macchia in mezzo di quella gran C, che è di colore turchino, e doveva esser adorna di ghirigori rossi. Nella nostra riproduzione fototipica (*) si sono lasciate quelle imperfezioni, e si è riprodotto con esattezza tutto quello che esisteva sulla placca. Si è fatto bene o no?

(A spése dell'editore Leo S. Olschki, Venise, 1892, 8o.

Osserverò che dal punto di vista della bellezza materiale, era facilissimo cancellare quelle brutture; e nel giornale l' Enlumineur, nel dicembre 1892, si è publicata appunto quella medesima pagina, e appunto con quel medesimo cliché, dal quale, secondo l'usanza dei fotografi, si è corretto ogni cosa che fosse spiacevole a vedere. La nitidezza del risultamento è tale, che veramente non si può desiderar cosa più artistica e più graziosa. E così si fa in generale in quelle publicazioni della Société des anciens textes, che paiono oggetti di trastullo, ma non sono oggetti di scienza.

Quanto a me, ho voluto dare al publico un documento scientifico, e niente altro; verrà un'epoca in cui l'archeologia sarà scienza esatta com tutte le altre; allora si giudicherà se io abbia ragione o no. Ma da quell'epoca noi siamo ancora lontanissimi, ed io ho nella mia povera barba un numero troppo ingente di peli bianchi per sperare di vederla.

Al fine del foglio 12, e nel mezzo del margine inferiore, si vede un quod che è la prima parola del foglio 13. E un segno per riunire i due quaderni dei quali si compone il codice. I fogli I e 12 sono scritti sul medesimo pezzo di velino e anche il 2 e l'11 e così di seguito. Il copista prese dunque prima di tutto quel quadernetto di sei fogli di velino, i quali piegati in due per il mezzo, ne fecero dodici; e poi, per continuare il lavoro, ne prese un altro, che fu preparato nel medesimo modo, e sul quale scrisse, dal foglio 13 al 25, il rimanente del libro di Dante, o, per meglio dire, quella parte del libro di Dante che noi abbiamo alle mani, giacchè più della metà della Volgare Eloquenza è perduta senza rimedio.

Ma qui si vede uno strano accidente.

Il foglio 13 si continua col 26, il 14 col 25, ecc. E il 27 è foglio semplice. Non è foglio doppio come gli altri. Si continua nel mezzo del codice con una listina di velino, di quattro o cinque millimetri di larghezza, la quale è incollata sul foglio 13.

La scrittura finisce al foglio 25. A qualche distanza dall' ultima linea, la parte bianca del foglio fu tagliata con le forbici, e, per riempire il vuoto, il legatore aggiunse un pezzo di pergamena gialla, che nella nostra riproduzione apparisce sotto forma d'una gran macchia grigia. I fogli 26 e 27 sono bianchi.

Che nel codice primitivo rimanesse bianco il 26, è cosa naturalissima, non essendovi più niente da scrivere, e formando quel foglio la continuazione del 13; ma che si venisse ad aggiungervi il 27 è un fatto senza spiegazione possibile.

Inoltre, noi vediamo che prima di esser legati, i due qua

derni non avrebbero avuta connessione di nessun genere, se cuciti nel modo attuale, nel quale l'unico sistema che gli ritiene insieme è la legatura.

Tutto però si spiega egregiamente, considerando che nel codice antico, il quale non aveva la legatura, come più oltre si dimostrerà certissimamente, il foglio 27 era cucito col primo quaderno, e rivolto dall' altra parte del codice, in tal modo che veniva a coprire e a proteggere la prima pagina. Quel foglio, cucito col primo quaderno e incollato sul secondo, era il legame fra tutti e due. Vi fu chi lo rivolse al di dietro, come accade ogni giorno a chi legge un volumetto di quel genere. Poi, rimase rivolto in quel modo, forse per lunghi anni in qualche armadio, e allora si svilupparono a poco a poco le brutture della prima pagina, che non aveva più la necessaria protezione del foglio bianco. Il legatore, al quale fu affidato il manoscritto in quello stato, tagliò i fili antichi e ne mise degli altri, ed ebbe la malaugurata idea di cucire l'attuale foglio 27 col secondo quaderno e al fine del medesimo.

Osservando attentamente quel foglio 27, vi si vede un nome tutto cancellato, nel quale per altro, vicine al principio di detto nome, sono facilmente leggibili le lettere E T, di modo che sarà senza dubbio quello di PiETro del Bene, che consegnò il codice, non legato ancora, al Corbinelli. Il Corbinelli fu dunque colui che fece fare la presente legatura. Di questo è segno evidente il vedersi che tutte le sue postille sono comprese ne limiti degli attuali margini, mentre fra le gotiche, che è forza far risalire al secolo XIV, alcune furono tagliate dal ferro del legatore. E per una di queste, al foglio 13, si vedono aggiunte dalla propria mano del Corbinelli le sillabe e lettere deficienti.

Il Rajna parla di fogli aggiunti al codice grenobliano: ma quei fogli sono un sogno della sua fertilissima fantasia. Pure osserverò che il legatore, non volendo che il volume fosse troppo sottile, giudicò a proposito di mettere da parte e parte del velino due quadernetti di carta comune.

S. 2. DEI GLOSSEMI.

Sono in numero ingente i glossemi dell' Eloquenza Volgare. Il massimo pregio del codice grenobliano è la chiarezza colla quale quel documento ci presenta la chiave di quelle invenzioni abbominevoli che danno al libello aureo di Dante l'aspetto deforme d'un monte di contraddizioni, d'un mucchio di sporcizie

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