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Ma la ragione di questa sostituzione di parti? Eccola.

La donna gentile «< per chiedere Lucia in suo dimando e raccomandarle lo smarrito pellegrino, non si muove dal proprio luogo, onde appare la loro contiguità, che poi è resa indubbia dall' espressa mossa di Lucia per andar dov'è Beatrice ad eccitarla in soccorso....».

Ma forse che, pur riconoscendosi da Maria il primo impulso, essa, la regina del cielo, avrebbe, per chiedere Lucia, avuto bisogno di alzarsi dal proprio scanno? O non potea far conoscere il suo desiderio anche stando seduta, là nel cielo, dove Presso e lontano.. nè pon nè leva (XXX, 121)? Che se Lucia, invece, si alza per recarsi da Beatrice, ciò ha la sua ragione di convenienza e pratica ed estetica, nella disparità di gerarchìa; al modo stesso che Beatrice, non santa, e però gerarchicamente inferiore alla stessa Lucìa, dovrà, per compiere la missione, discendere fin giù nelle penombre del Limbo.

Un'altra cosa che poco mi persuase nello scritto del Vaccheri, si è il dubbio che la Lucia del poema non abbia ad essere la martire siracusana. O se non è dessa, che altra Lucia sarà? giacchè non vorremo certo collocare in paradiso una semplice allegoria; e non dobbiamo dimenticare come in Dante allegoria presupponga realtà; non è fantasmagoria ma simbolo; e il significato allegorico, non esclude, anzi presuppone sempre, come necessario substrato, uno letterale.

Che poi nel Convito Dante attribuisca a due città imaginate ai poli della terra i nomi fittizii di Lucia e di Maria, ciò, anzichè giovare al suo assunto, mi pare ne sia la condanna; significando, secondo me, la gran propensione di Dante per quelle due donne celesti, e valendo anzi di conferma della associazione che fra di esse egli già istituiva nella sua mente.

Una cosa contraria alla comune opinione e, quindi, bisognevole di più concreta dimostrazione mi sembra anche quella che il Vaccheri, in contradditorio al Bianchi, non ammetta, figurarsi in Dante l'ombra d'ignoranza e di morte in cui siedono gli uomini. La espressione del Bianchi non sarà forse la migliore: ma il concetto ben si accorda con le ripetute imagini che trovansi nella Comedia del mondo tutto diserto, raffrontate con la figura di Dante smarrito nella selva, e che si sentirà dire da Virgilio al Purg., I, 58: Questi non vide mai l'ultima sera Ma per la sua follia le fu sì presso Che molto poco tempo a volger era; e da Beatrice al XXX, 130 E volse i passi suoi per via non vera.

Eppure il Vaccheri su questo suo concetto insiste anche nel VI quaderno alla pag. 273; arrivando per sostenerlo fino a dare ai versi del canto di Forese (Purg., XXIII, 117) Ancor fia grave il memorar presente. Di quella vita mi volse costui, ove tutti intesero che Dante si rimproveri la sua parte di giovanile libertinaggio, un' interpretazione affatto diversa, con grave per

fermo, e volse per persuase; e fino a citare in appoggio La buona compagnia che l'uom francheggia Sotto l'usbergo del sentirsi pura (Inf., XXVIII, 117), quando è chiaro che la coscienza di cui parla qui Dante, letteralmente non è che la sicurezza di non mentire; e pure ammessavi una lontana allusione al sentirsi puro dei delitti che dagli avversari politici gli furono apposti, essa nulla detrae alle colpe delle quali potè egli ben conoscersi reo in faccia alle esigenze della giustizia assoluta. Che se poi Dante al III, 127 si fa, sia pure implicitamente, chiamare anima buona, ciò non può, a scanso di contraddizioni, intendersi che nel senso di eletta, predestinata al cielo, come se lo fa dire sovente, e che non esclude del resto che nel momento possa pur essere carica di peccati.

Ma, tornando al punto principale della proposta innovazione, credo inutile, venutole a mancare il fondamento primo, intrattenermi a discutere sui titoli pei quali, ad Anna, di preferenza che a Maria, sarebbe dato un posto così alto e nella gerarchia celeste e nella allegoria dantesca; e sul significato che alle tre Donne vorrebbe attribuirsi, in corrispondenza quasi alla triade divina, di potestà, amore e scienza.

Al valente illustratore della macchina dantesca preferisco invece chiedere la soluzione di uno o due dubbii che l'esame a cui egli mi ha chiamato ha fatto risorgere nella mia mente e di cui non sono riescito a districarmi.

Posto che i seggi, collocati ne l'ultimo, più alto gradino del celeste anfiteatro che il poeta rassomiglia ad una candida rosa, devono in sè rac'cogliere gli spiriti più elevati, o com'è che a questi vedrebbesi destinato l'ordine ove i seggi son più copiosi? Se il sedere ne l'ordine ov'è Maria è titolo d'onore per l'apostolo Giovanni, Pietro e gli altri cinque che nella successione del nostro schizzo vengono dal poeta nominativamente indicati, e se gli scanni d'Empireo devono tutti essere occupati, com'è possibile che il lettore possa da sè, mentalmente completare quello elenco, con un' altra (data l'ampiezza della rosa) ben più lunga serie di nomi di ugual merito da accompagnarvi?

La difficoltà è eliminata dal Balbo, il quale in quel primo ordine non colloca che quelle otto persone (comento al II dell'Inferno, in fine alla sua Vita di Dante); e con ciò si presenterebbero anche sotto aspetto di maggiore evidenza altri fatti, come quello delle posizioni, cui Dante accenna quali diametralmente opposte, di Pietro ad Anna e di Lucìa ad Adamo, che in una quasi immensità di diametro non rappresenterebbero invero che una precisione meramente astratta e matematica; e di Maria che per chiamar Beatrice a lei vicina si sarebbe invece rivolta a Lucia tanto distante; e di Anna, Tanto contenta di mirar sua figlia, Che non move occhio, per cantare Osanna ch' essa faccia. Ma oltrechè, come dissi, tutto è spiegato col

Presso e lontano lì nè pon nè leva; e alla precisione geometrica Dante ha ben avvezzi i suoi lettori; e la ragione del volgersi Maria a Lucia anzichè direttamente a Beatrice, può anch'essa trovarsi nella posizione gerarchica di questa, due gradi sotto di quelle due sante; nasce però un'altra difficoltà, ed è che per ottenere simile distribuzione di posti, dovrebbesi supporre Maria non già nelle più ampie ed elevate ed estreme foglie della rosa, bensì nelle più piccole e basse ed interne. Rimarrebbe, ripeto, con ciò, salva la proporzione, di fare gli ordini celestiali tanto più ristretti quanto più si accostano alla perfezione, a pochi sempre accessibile; e si avrebbe anche un altro vantaggio; che dovendo la rosa celeste dividersi in due regioni, sopra e sotto la metà del suo asse longitudinale, una occupata dai bambini, l' altra dagli adulti (Vedi canto XXXII, 40), si verrebbe con questo sistema a dare ai bambini, che per la maggiore loro mortalità sono effettivamente il maggior numero, la regione più alta, e conseguentemente più ampia.

Ma è un sistema al quale non è possibile pensare, vuoi perchè ripugna il collocare i più eletti più in basso, vuoi perchè vi osta la stessa parola del poeta, collocando Eva ai piedi di Maria, mentre con quel sistema si avrebbe invece Maria ai piedi di Eva.

Si potrebbe allora pensare ad una rosa capovolta, nella quale i gradini, invece di scendere verso il centro, si espandono verso la periferia; ma anche a ciò, tacendo altri riflessi, osta il collocarsi che fa Dante Nel GIALLO della rosa sempiterna, da tutti inteso pel centro di essa, dal quale ne scorge l'estremo ciglio lontano, nel mentre invece, in una rosa capovolta, il centro sarebbe alle foglie più interne vicinissimo. Alcuni, in luogo di giallo leggono bensì giglio, che non avendo senso potrebbe lasciar supporre una vera lezione ciglio; ma anche con ciò non sarebbero forse vinte tutte le inconseguenze.

Per me anzi la difficoltà di ben intendere tutta la vera configurazione dell' Empireo, comincia fin dal XXX, 100: Lume è lassuso che visibil face; difficoltà che non valsero a dissiparmi nè il Ponta, nè il Lanci, nè il Caetani. Se fosse possibile avere una dimostrazione dell' Empireo dantesco, che ne porgesse una completa, evidente e ragionevole imagine, credo che non io solo ma molti studiosi del divino poeta ne sarebbero riconoscenti.

F. RONCHETTI.

GLI IGNAVI E GLI ACCIDIOSI

DELL' INFERNO DANTESCO

l'anime triste di coloro,

Che visser senza infamia e senza lodo.
Inf., III, 35-6.

Tristi fummo

Nell' aer dolce, che dal sol s' allegra,
Portando dentro accidioso fummo.
Inf., VII, 121-3.

È ben noto che molti sono i commenti apposti alla divina Commedia per dilucidarla non soltanto nel vero senso che il suo autore le dette, ma ancora nella quantità di quei sensi, che da un luogo o da un altro derivarono, sì perchè differirono i pareri dei dotti e sì perchè anche si prestò l'occasione di diverse interpretazioni. Leggendo adunque quei commenti, nessuno ci sembra che abbia sufficientemente svolto il senso che ha in sè l' ignavia di cui trattasi nel canto III, e quello dell' accidia, nel canto VII dell' Inferno, le quali ignavia ed accidia certo se non sono egual cosa per le circostanze appunto che le accompagnano, sono però in ultimo ambedue. noncuranza o pigrizia che dir si vogliano. Laonde reputiamo lodevole il dare in proposito opportuni schiarimenti e in tal guisa mostrare quali si furono, a parer nostro, le veraci intenzioni del sommo poeta.

Spettatore esso delle divisioni guelfa e ghibellina della sua cara Firenze e del resto d'Italia, consapevole, per triste esperienza, delle grandi nequizie a cui si abbandonavano li cittadin delle città partite, coll'animo in un disposto a compassione, ma insieme ripieno di nobile sdegno, ideò di comporre un poema, dove, « sollevando i buoni e calcando i pravi », intese disvelare i suoi alti concetti di rigenerazione e di pace per vedere restituita l'Italia all'antica grandezza. Tale idea gli venne vie maggiormente caldeggiata dal fatto della venuta in Firenze dei neri e dei bianchi (an. 1301), i quali portando dissapori nella parte guelfa la suddivisero, e furono causa di altre nuove brighe. Dante, nato da famiglia guelfa, allevato e cresciuto a virilità nei sentimenti del guelfismo, sebbene moderatissimo sembri si fosse, pur non ostante non dovette certo ristare dall' indignarsi vedendo scindersi la sua parte medesima. Aggiungi che nuove gravi turbolenze, nuove empie scele

Giornale Dantesco

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