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All' udire il nostro poeta quel doloroso frastuono, non ristette dal subito domandare alla sua guida :

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Sono questi l' ignavi. Quanto a Dante prema di avere spiegazioni sul conto loro, sul tenore di vita da essi condotta nel mondo in relazione a loro. stessi ed agli altri, non è mestieri che noi lo dimostriamo, imperocchè egli si fa dire chiaramente da Virgilio che

Questi non hanno speranza di morte:

e la lor cieca vita è tanto bassa,

che invidïosi son d'ogni altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa: misericordia e giustizia li sdegna.

Il maestro vorrebbe continuare a descriverli per mostrare come grande sia stata la loro abbiezione col non far niente, nè in bene nè in male; ma a che tirare più innanzi, una volta che non ne sono meritevoli ?

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Ecco ciò, di cui sono essi degni. Da tale espressione ben si rileva dunque che la maggior condanna, con cui si possono punire que' tristi, ha da essere il disprezzo e la noncuranza, allo stesso modo col quale essi fecero verso gli altri nella loro vita. Fu detto che

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ed è verissimo, poichè se quelle anime avessero bene operato, sebbene aves

1 Avevamo già scritto il presente lavoretto quando ci venne alle mani il pregevole studio del prof. G. Crescimanno su questo medesimo nostro argomento. A proposito di quel duol si vinta ci piacciono moltissimo le sue osservazioni, alle quali rimandiamo il lettore (Cfr. Figure dantesche del detto autore; Venezia, L. S. Olshki, 1893, pagg. 10 e segg.).

sero commesso qualche lieve fallo, cosa del resto facile ad accadere per cagione della fragilità umana, e sebbene avessero errato anche gravemente, ma che di poi si fossero pentite, Iddio è tale che colla sua grande bontà le avrebbe perdonate e accolte per farle tosto degne del suo paradiso. nando alla misericordia divina, altrove ci avverte :

Ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò, che si rivolge a lei 1.

Dante, accen

Questo non si può riferire al caso di quelle anime tristi, che giammai rivolsero al cielo un pensiero, non che un sospiro per far rilevare i loro propri sentimenti, onde . . . . Quei che volentier perdona, anzichè essere benigno verso esse, « le sdegna » invece, e loro rifiuta ogni commiserazione.

Dicemmo altresì che anche giustizia li sdegna e come può avvenire altrimenti, una volta che que' miseri non dettero di sè nè buona nè mala. prova col loro nullo operare? Iddio, che è la giustizia personificata, come può loro concedere i gaudi ineffabili del suo regno, se non bene fecero ? e se non male fecero, come può egli condannarli alle cocenti pene dell' inferno? Razionalmente non può giudicarli e quindi, o in un modo o in un altro, loro assegnare piuttosto il premio che la pena o viceversa. Onde avviene che li rifiuta e per loro tien sospeso il suo proporzionale giudizio, volendo invece che essi si debbano aggirare per il vestibolo dell' inferno, quale in luogo che non è paradiso, ma neanche tutto inferno: neutro piuttosto, come appunto essi furono 2. Questa maniera di procedere della divina giustizia ci denota chiaramente com'essa sia costretta a far eccezione di tal malnata gente, condannandola a star in quel luogo, lungi dalla regola generale, per la quale sa e conosce di dover giudicare conforme l'entità delle opere. Se però a que' tristi, Iddio come misericordioso non dà il paradiso, perchè non ne hanno alcun merito, se come giusto non li punisce coll' inferno e colle sue più gravi pene, perchè non hanno mal fatto, crede con tutto ciò di dover loro assegnare un castigo speciale, per cui quelle anime, oltre ad essere relegate nell' Antinferno, sono punite con un tormento, eguale per tutte, che mostra di destarle dal loro torpore:

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,

erano ignudi, e stimolati molto

da mosconi e da vespe, ch' eran ivi.

1 Purg., II, 122-23.

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la giustizia (divina) gli

2 Vedasi come in proposito saviamente dice il Boccaccio: « lascia quivi (nella prima entrata dell' inferno), come gittati da sè, miseramente dolersi, come miseramente vissero» (cfr. Commento su la divina Commedia, lez. IX).

Elle rigavan lor di sangue il volto,

che, mischiato di lacrime, a' ior piedi
da fastidiosi vermi era ricolto 1.

Tale tormento è certamente crudele, ma che è in paragone degli altri tormenti, che sono inflitti ai dannati dell' inferno?. . . . Dante, dando quella punizione a que' miseri, vuole interpretare il giudizio divino, il quale ha disposto sì in modo, che, ora morti, essi debbano scontare quell' inerzia e viltà di cui si macchiarono durante la loro vita. Il castigo infatti è tale, che loro non lascia aver posa, anzi li costringe a correre quà e là disperandosi ed urlando, perchè sono molestati senza tregua dalle punture atroci d' innumere voli insetti. Giusta è adunque questa disposizione divina, poichè per essa, come bene osserva il Cesari, « questi sciagurati che non vollero far mai, eran ben fatti fare laggiù » 2.

1 Non sappiamo qual valore possa avere l'opinione di A. Bartoli (cfr. St. della Lett. ital., tom. VI, p. I, pag. 171-2: ediz. Sansoni, Firenze, 1887) e di A. Graf (cfr. Miti, leggende e superstizioni nel medioevo, vol. II, pag. 137, not. 217: ediz. Loescher, Torino 1893), per la quale non sono alieni dall' ammettere che que' mosconi e vespe» di cui sopra, pos. sano essere diavoli trasformati. Cotale supposizione, che ha tutta l'aria di una sottigliezza, a noi pare che non avrebbe avuto luogo se si fosse pensato che, trovandosi nell' Antiinferno e a contatto con gente spregevole sì, ma non peccatrice, non poteva Dante logicamente porre ad essa per ministri di pena i demoni, sieno pure trasformati nella causa della pena istessa, una volta che la divina giustizia ha loro assegnato per domicilio eterno l'inferno e per gente da tormentare i peccatori che ivi risiedono.

A. Cesari, Bellezze della d. C., tom. I, pag. 36: ediz. Silvestri, Milano, 1845. Il Bartoli, a proposito del verso Misericordia e giustizia li sdegna trova da osservare che: Non fare il bene è già un male, e il poeta lo sente perchè chiama (i vili) cattivi. Ed infatti che cos'è in sostanza quest' Antinferno? È un' inferno bell' e buono, dove si ha una pena di senso, non inferiore a quella d'altri cerchi più bassi. Le morsicature continue di mosconi e di vespe, che fanno uscir sangue da quei corpi nudi, e il correre perpetuo e vertiginoso dietro l'insegna, sono punizione cruda. Perchè dunque dire che la giustizia li sdegna? Se li punisce così acerbamente, non sembra invero, che li sdegni troppo. E perchè, se soffrono eternamente, come si soffre nell' inferno, porli fuori di esso?» (cfr. op. e loc. cit., pag. 48). A quanto pare, il Bartoli non ha compreso il significato di quel « cattivi », poichè non avrebbe detto esser tali que' tristi, per la ragione appunto che non avendo operato il bene, simil fatto è per sè stesso un male, ed hanno essi quindi commesso una colpa se non direttamente, indirettamente certo. La parola « cattivo », sappia adunque il Bartoli, per quel senso che in questo caso le ha dato il poeta, non significa iniquo, perfido, ecc., ma ha il significato invece di vile, codardo, ecc., e per tale l'hanno interpretata, crediamo noi, tutti i commentatori. È vero poi che giustizia li sdegna, in quanto che se li punisce per la loro viltà ed abbiezione, li punisce però con una pena generica, la quale per gli altri dannati è invece proporzionale, come sopra dicemmo, all' entità delle loro opere. Quì non può essere tale per il fatto appunto che quei miseri non fecero niente. E poi non è vero forse che . . . . Giu

....

Dante poi ci dimostra che quegl' ignavi non sono soli, ma sono bensì in compagnia di una moltitudine di quegli angeli, che, secondo racconta la Bibbia, prima della creazione del mondo furono formati da Dio per popolarne il suo cielo. Una parte di essi sappiamo che si mantenne fedele e fu grata al Creatore; l'altra invece si ribellò e, sotto la scorta di Lucifero, che era ap-. punto il più bello di quella fattura divina, tentò di muovere guerra e di abbattere il Signore. Sappiamo ancora che questa parte fu da Dio fulminata e cacciata nell'inferno, dove tali angeli regnano come altrettanti demoni. La prima poi formò in nove cori la nobile milizia del paradiso. La moltitudine di angeli, insieme colla quale

l'anime triste di coloro,

che visser senza infamia e senza lodo,
mischiate sono

e di cui accennammo, è quella schiera vile, che da Dio non tenne nè da Lucifero, ma invece stette a sè, rimanendosi neutrale . Dante la dichiara.

quel cattivo coro,

degli angeli che non furon ribelli,

nè fur fedeli a Dio, ma per sè fôro 2. Caccianli i ciel per non esser men belli: nè lo profondo inferno gli riceve,

ch' alcnna gloria i rei avrebber d'elli.

Significantissima questa seconda terzina, colla quale (estendendone il sen

stizia li sdegna, quando si sa che, essendo suo ufficio o di mandare in paradiso in compagnia dei beati, se buone furono le anime, o, se cattive, nell' inferno insieme coi demoni, quei vili invece priva dell' uno e dell' altro luogo? Non l'ha detto pochi versi innanzi il poeta il modo di procedere del giudicio divino verso costoro? Diversamente intendendosi quel giustizia li sdegna, bisognerebbe allora riconoscere Dante in aperto controsenso con sè stesso: lo che, almeno in questo caso, non ci sembra invero.

1 Questa terza parte di angeli è noto che non trovasi ricordata dalla Bibbia, ma però non è a dirsi che sia stata per la prima volta immaginata da Dante (come fu ritenuto fino ad oggi da più d'uno). Tal classe ebbe già luogo in alcune leggende medievali, anteriori alla divina Commedia, tra le quali v' ha quella del Viaggio di san Brandano, una appunto delle più conosciute al tempo di Dante e, quindi, credibile che possa essere stata dal poeta pure conosciuta. Ciò lo avverte il cit. Graf nell' anzidetta op. e vol., pag. 82-3, dove troverai accennate anche le altre leggende, in cui ricorre quella finzione, sempre però formata innanzi alla finzione dantesca.

2 Qui la voce cattivo», come testè avvertimmo, non ha il senso di malvagio o simili, ma sibbene quello di pusillamine, vile, ecc.

so, riferentesi a quegli angeli in particolare, a tutti indistintamente i vili) vule il poeta far comprendere quanto turpe sia l' ignavia, di cui quelli che sono macchiati, non sono ricevuti dal cielo, perchè i suoi abitatori si vergognerebbero di dover stare insieme con gente, che passò la vita tutt'altro che virtuosamente operosa. Non sono poi ricevuti dall' inferno, perchè eziandio í dannati non avrebbero ben donde di che vantarsi, se eglino venissero tra loro, in quanto che potrebbero dire di sè medesimi essi dannati che, se furono cacciati nel più profondo dell' inferno, ciò avvenne perchè operarono iniquamente ma pure operarono, e sostennero, fino all'ultimo, la parte loro. Non così potrebbero dire degli ignavi, i quali invece trascorsero il tempo oziosamente, è per la loro più grande pusillanimità non seppero far fronte ai pericoli. Quale soddisfazione adunque riceverebbero da questi se i dannati li accogliessero in loro compagnia, quando conoscono che eglino non furono de' loro sentimenti, del loro colore?. Osservisi ora l' importante lezione, che per le suespo

D

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1 I commentatori della divina Commedia sono in generale dello stesso avviso nel dichia rare che la parola alcuna del verso Ch' alcuna gloria i rei avrebber d'elli, s' ha da in tendere per alcuna e non diversamente: quindi il terzetto di cui sopra, verrebbe a spiegarsi : Il cielo rifiuta gli angeli, che non furon ribelli, Nè fur fedeli a Dio, ma per sè fôro, per non esserne bruttato; non li riceve l'inferno perchè, ricevendoli, i dannati ne avreb bero avuta una soddisfazione, per la quale avrebbero potuto dire: Noi, è vero che siamo stati puniti, ma ce lo siamo meritati col condurre una vita tristamente operosa: non così voi altri, o vili, che non avete fatto mai nulla, e siete stati sempre a voi, e con tutto ciò do. vete subire su per giù la stessa sorte di noi. Se gli uni dovessero stare insieme cogli altri, ecco che i dannati se ne potrebbero gloriare. Tale è l' interpretazione comune. Ma quanto non ci sembra migliore la nostra, la quale è del resto appoggiata sull'autorità di V. Monti, che primo la diè? Egli dichiara, nell'appendice alla sua Proposta, ecc., a pag. 271, che quel l'a alcuna devesi intendere per « niuna », conforme il significato che ha nel provenzale aucune ». Per questa ragione spiegando la cosa, possiamo rilevare che quella parola non è la prima, della quale, per bene interpretarla, bisogna derivare il senso dalla detta lingua. Vedasi, per citare un esempio, quel verso del canto I dell' Inferno che suona: Questi la caccerà per ogni villa: «Villa» qui esprime città, secondo appunto l'accennata derivazione. In italiano non ha quel significato, ma, invece, il senso di villaggio, di casa di campagna, ecc. Così potrebbe dirsi di altre parole, di cui più d'una trovasi sparsa nella Commedia. Del resto poi la seconda parte della suesposta terzina, e, cioè: Nè lo profondo inferno gli riceve Ch' alcuna gloria, ecc., troviamo che, al modo nostro, meglio risponde alla prima parte: Caccianli i ciel per non esser men belli, intendendosi dire che, come gli abitatori del ciclo non vogliono seco quegli angeli vili, pensando che eglino non operarono virtuosamente come loro, così tale negativa fanno a quegli angeli pure i dannati dell' inferno, i quali non potreb bero vantarsi di essere a contatto con gente che passò la vita nella abiezione di non aver fatto nulla. Anzi, potremmo aggiungere che la comune interpretazione della seconda parte, di cui sopra, non ci pare tanto assennata, in quanto che per essa verrebbesi a dire che l'inferno non riceve que' tristi giust' appunto perchè essi apporterebbero una soddisfazione ai

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