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ste cose intese Dante di dare. Col mostrarci egli la sorte toccata a quegli angeli, e che insiem con loro pure tocca agli ignavi in generale, per la quale essi non sono ricevuti nè dal cielo nè dall' inferno, vuol farci intendere la gravità e l'abiezione, che ha in sè il vizio che quelli deturpa ed avvilisce. Anzi, se riscontriamo tutti quei peccati e peccatori, di cui si ragiona nel resto della prima cantica della Commedia, troviamo che il poeta non ne parla con quel disprezzo, con quel ribrezzo come avviene nel presente caso. E, infatti, a quali altre anime egli rivolge parole tanto spregiative quanto quelle dirette ai vigliacchi, per cui non può intrattenersi a discorrerne più oltre?

Non ragioniam di lor ma guarda e passa.

Lo che dunque ci dimostra che Dante maggiormente apprezzava per un lato l'uomo anche più iniquo, ma che fu operoso, che quello il quale passò la vita senza mai far parlare di sè.

E ciò appunto, per cui egli pensava a quel modo, era il concetto biblico che dice, essere noi stati destinati da Dio a dover lavorare e faticare sulla terra, essendoci però lasciata libera la scelta di operare in male piuttosto che in bene. Quindi l'idea del lavoro è innata nell' uomo, e, quindi, fa d'uopo il secondarla e tradurla in effetto.

Ora si domanda, perchè Virgilio con quel già ripetuto verso:

Non ragioniam di lor ma guarda e passa,

dopo aver fatto capire a Dante che è un perder tempo a parlare di quella gente, pur gli concede di osservarla, ma però di osservarla soltanto? In primo luogo il maestro vuole che quegli comprenda l' orrore, che dee avere

:

dannati. Dunque, questi dannati sono davvero generosi nel rifiutare una tale soddisfazione, tanto più che alcun' altra non se ne concede loro? Dunque per essi non fa il proverbio volgare che dice: « mal comune mezzo gaudio »? Almeno i celesti, se rigettano quegli angeli, non lo fanno che per non esserne deturpati, e, quindi, per una più giusta causa, loro negano l'entrata. Basta alle persone di buon senso lasciamo lo scegliere quale delle due interpretazioni sia la migliore, facendo notare, a proposito della nostra (nonostante le osservazioni in contrario, fra gli altri di N. Zingarelli in un suo recente articolo su Gli sciagurati ed i malvagi nell' « Inferno» dantesco, inserito nel Giornale dantesco, an. I, quad. VI, a pag. 253) che di alcuno » in significato di «nessuno » abbiamo più d'un esempio anche nella lingua nostra e nei tempi più o meno prossimi a Dante, come dimostra, recando appunto esempi S. Betti nelle sue erudite Postille alla divina Commedia, ecc., ultimamente messe in luce per la prima volta (cfr. Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari diretta da G. L. Passerini, n. 1, pag. 17: ediz. S. Lapi, Città di Castello, 1893).

nel trovarsi a contatto con anime cotanto abiette e miserande, quasi che l'intrattenervisi potesse a lui recare sozzura, onde miglior cosa era l'allontanarsene e ad altro rivolgere la mente. In secondo luogo, Dante si fa dare quella concessione per dimostrare, come poi dirà, che fra quegl'ignavi v' hanno persone da lui conosciute, le quali non nominerà perchè vieppiù s' intimoriscano i contemporanei suoi, di cui se v'è alcuno che non vorrà migliorare la propria vita, può attendersi la stessa triste sorte di quegli sciagurati. Grande è perciò l'arte racchiusa nel verso che sopra ho citato, ma, per meglio comprenderla, è necessario osservarla nel fatto dei versi che seguono. Invero Dante, dopo essergli stato intimato di guardare soltanto e di passare oltre, dice:

Ed io, che riguardai, vidi una insegna,

che, girando, correva tanto ratta,
che d'ogni posa mi pareva indegna:

e dietro le venìa sì lunga tratta

di gente, ch'io non avrei mai creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v' ebbi alcun riconosciuto,
guardai e vidi l'ombra di colui,
che fece per viltate il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui

che quest' era la setta dei cattivi,

a Dio spiacenti ed a' nemici sui 1.

Osservisi come Dante, con un colpo d'occhio del corpo e della mente, abbia visto e riconosciuto tante persone. L'ammonizione concisa e, in un tempo, dignitosa di Virgilio fu tale, che lo sollecitò a riguardare e scorgere, in men che non si dica, un vessillifero sì presto a correre, da mostrarsi sdegnoso di ogni dimora: una lunga sequela di gente, cui la morte aveva mietuto alcuni individui, a lui già noti, e, fra questi, colui che vigliaccamente fece il gran rifiuto: ed a comprendere infine che tutti costoro erano i miseri indolenti, da Dio rigettati e dai demonî. Col dare un rapido sguardo ecco dunque che Dante sa vedere distintamente quegli abietti, tanto da riconoscerne alcuno, e così, in modo sollecito, ubbidire all' invito del suo maestro. Passiamo adesso ad altre osservazioni.

1 Come altra volta dicemmo, la parola « cattivi » non ha, in questo caso, il significato di scellerati, malvagi, ecc., ma, invece, quello di vili, ignavi, e simili. E il fatto lo prova, perchè per chiamarsi quelle anime cattive nel vero senso della parola avrebbero dovuto, facendo il male, dispiacere solo a Dio, e non già ai demoni, che sono nemici di lui, ma invece quì dispiacciono tanto all' uno quanto agli altri.

Le prime due delle suesposte terzine sono degne di essere notate, in quanto che con facilità ci manifestano essere quelle anime gl' ignavi condannati a fare un continuo moto, correndo appunto dietro a un'insegna, e in tal guisa a scontare la vita da loro codardamente passata nel mondo. Siffatta punizione, come analoga e più d'ogni altra ben meritata, è certo la ragione principale, per cui Dante fa fare quella gente laggiù nell' Antinferno. Però havvi ancora un altro motivo per il quale essa è obbligata, nè può diversamente, a correre senza tregua alcuna. Noi già vedemmo ed esaminammo il tormento crudele inflitto a quegli sciagurati, che mai non fur vivi, che consiste nell' esser costoro stimolati molto da fastidiosi insetti e vermi, in modo da farli sanguinare da ogni parte, non che pungere rabbiosamente. Ora, se d' esserne liberati, stando fermi

Nulla speranza gli conforta mai, 1

come possono essi ristare dal far quel perpetuo moto? In questo almeno trovano un certo sollievo, e con questo meglio confidano di potersi sottrarre in alcun modo a quell' infesto sciame. Qui cade in acconcio di osservare come la legge del contrappasso, da Dante altrove dichiarata e da lui, sempre che potè, eseguita nella distribuzione delle varie pene, non solo venga effettuata nel caso sopra detto, contrapponendosi cioè alla viltà e all'inerzia dai miseri summenzionati avuta tra i vivi, un' operosità ed un' energia, che quelli debbono dolorosamente e in perpetuo tenere nel vestibolo dell' inferno, ma ancora nel fatto che, avendo eglino da correre, sono costretti appunto a correre dietro a una bandiera, eglino, che disprezzati dal cielo e perfino dagli stessi dannati, formano l'oggetto di noncuranza e di scherno eziandio dei nostri due visitatori dei regni oltremondani. Riassumendo le cose qui sopra ed altrove dichiarate, rileviamo adunque, che lo contrappasso ben giustamente viene osservato nei versi in parola mediante quattro differenti castighi, che, a tormento ed ad onta di quegli sciagurati, sono loro imposti.

I. Col terzetto: Caccianli i ciel per non esser men belli, ecc., a cui tien bordone il verso: Non ragioniam di lor, ma guarda e passa, i quali, denotando il dispregio che hanno coloro ivi ricordati per quelle anime, le contraccambiano siffattamente appunto per il codardo disprezzo da esse verso tutti e per tutto dimostrato nel mondo.

Inf., V, 44.

2 Id., XXVIII, 142.

II. Col terzetto: Ed io, che riguardai, vidi una insegna, ecc., il quale, col mostrare come i detti miseri debbano adesso venir dietro ad una bandiera, bene sta a significare l'opposto modo da essi tenuto in vita, non avendo allora seguito alcun principio o partito, che esser doveva appunto la loro bandiera, e questo perchè preferirono di starsene inerti, in disparte, per fuggire qualsivoglia occasione di dar prova di sè stessi.

III. Coll' altro: E dietro le venia si lunga tratta Di gente, ecc. », coi quali versi si vuol dire che gli sciagurati erano obbligati a correre precipitosamente dietro la menzionata insegna, senza doversi mai arrestare; e ciò è un' esplicita e ben giusta antitesi del modo da quelli tenuto tra i vivi, tra i quali appunto mai non fur vivi non una volta avendo corso sul luogo, in cui si rendeva necessaria, o poteva esser utile, l'azione loro. Però è da notarsi che la corsa, che quelle anime fanno, o meglio, debbono continuamente fare, resa inoltre vertiginosa, è subalterna a quella di un vessillifero, che, ad esse preposto, non solo ha da correre tanto ratto, facendo il giro («< girando ») del vestibolo infernale, ma anche ha da essere sdegnoso (« indegno ») d'ogni posa, in guisa che quella lunga tratta di gente non abbia occasione di fare sosta alcuna 1. Questo suo correre frettoloso è eziandio motivato dal continuo tormento, che le producono i mosconi e le vespe, che eran ivi, dalle cui punture, correndo appunto ed agitandosi dolorosamente, spera di liberarsi.

IV. Colle terzine: Questi sciaurati, ecc., e Elle rigaran lor di sangue, ecc., le quali, dichiarando il castigo inflitto a que' miseri, di essere cioè ognora punti dai sopradetti insetti e in guisa che il sangue uscente dalle ferite venga ai lor piedi ricolto da fastidiosi vermi, bene esprimono la degna ricompensa loro dovuta per l'indolente e codarda vita da essi con

A proposito di quel girando» del verso Che girando, correva ecc. v' ha fra i com. mentatori chi interpreta in un modo e chi in un altro. Infatti E. Ruth nei suoi Studi sopra Dante Allighieri, intendendo l'« insegna» del verso precedente (cui riferiscesi il girando ») in sè stessa, e anzi non tanto in sè stessa quanto nella persona che quell'« insegna » appunto reca, spiega « .... una bandiera che si volge ad ogni vento, nè mai si arresta» (cfr. op. cit., vol. I, pag. 127-8; ediz. Venezia e Torino, 1865). Altri, come L. G. Blanc, giudicano quella parola << esser difficile definire », perchè non sanno decidere « se Dante con girando abbia vo luto significare che: girava sopra sè stessa ovvero che: faceva il giro del cerchio» (cfr. il suo Vocabolario dantesco, ecc. »: a pag. 163, ediz. Barbèra, Firenze, 1877). A noi invece pare ab. bastanza chiaro che detta parola voglia dire: facendo il giro (sottintendi del luogo, ch'è il vestibolo dell'inferno) quell' insegna e insiem con essa l'individuo che la portava, ecc. Anzi ci meravigliamo nel sapere che. anche qui, vi sono dei commentatori i quali rimangono perplessi, o se interpretano, interpretano affatto diversamente una voce, di cui pure collo stesso significato, si hanno diversi altri esempi sparsi nella divina Commedia.

dotta su nel mondo, dove se fuggirono tutte le occasioni per fare, non riescono però ora, perchè quella punizione è tale da costringerli a stare in azione anche troppa e, quel ch'è peggio, senza requie tormentosa 1.

Fra la tanta moltitudine di gente che vien dietro alla suaccennata insegna Dante dice poi di aver visto alcuno di sua conoscenza :

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Impossibil cosa è il poter comprendere a chi volesse il poeta alludere. con quell' « alcun », di cui egli mostra aver piena cognizione. Certamente, non sapendosi di chi intendesse ragionare, non dubitiamo che non possa trovare onesta accoglienza in proposito la nostra non mal fondata interpretazione, per la quale pensiamo che Dante si esprimesse a quel modo così generico, più che per voler designare un qualche individuo, per usare invece una significazione qualunque, diretta però al supremo scopo che lo animava. Di tale suo scopo altrove ragionammo assai e mostrammo com'esso fosse rivolto al benessere della patria, studiandosi appunto il poeta di destare specialmente molti de' suoi concittadini dal loro torpore, per disporli quindi a sostenere a viso aperto le fiere lotte del tempo. Per la qual cosa chi può contrastarci la nostra spiegazione, per cui noi dichiariamo essersi Dante voluto pronunziare a quel modo, senza forse aver avuto di mira alcuno in particolare, con quel suo verso? Crediamo inoltre che così vagamente egli cercò di esprimersi per meglio incutere il timore della medesima sorte di quei tristi, che sarebbe

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1 Non ci sappiamo convincere come mai al cit. Zingarelli non sembrino le punizioni che sopra una vera e propria esecuzione del contrappasso, allorquando nel ricordato suo articolo dichiara: «La loro corsa e le punture da cui sono stimolati (gli sciagurati) non sono da intendere come un contraccambio della loro inerzia, quasi per far provare loro col tormento ciò che non hanno sentito in vita con l'operosità, ma come un simbolo della vanità del loro cammino nella vita e della bassezza dei loro sentimenti » (cfr. loc. cit., pag. 258). Anche noi confermiamo la verità di quest' ultima parte, ma come vero è che il fatto del « sangue degli sciagurati mischiato di lacrime, a' lor piedi Da fastidiosi vermi era ricolto rappresenti la viltà di quegli individui, altrettanto non men vero è il fatto che gli altri castighi sono auzi un proporzionato contraccambio della medesima viltà ed inerzia degli stessi sciagurati. A proposito poi delle terzine al n. IV ricordate non troviamo retta la interpretazione dal cit. Ruth data nella detta op. e loc. In quanto alla nudità degli sciagurati, cui accennammo nella prima delle due terzine che sopra, non possiamo accettare il parere emesso da qualche commentatore, perchè se da una parte può essa sembrare esser allusiva alla nudità del loro animo, non avendo operato niente in vita, dall'altra però non è a dirsi come quella nudità medesima sia piuttosto direttamente subordinata alla detta pena delle punture, non potendosi questa senza quella ottenere nel suo completo effetto.

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