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per toccare a coloro fra i suoi contemporanei, i quali non seguissero la sua voce esortatrice 1.

Passiamo ora a parlare di quei versi che dicono:

Guardai, e vidi l'ombra di colui,

che fece per viltate il gran rifiuto.

La maggior parte dei commentatori sono d'opinione che qui Dante intenda alludere a Pietro del Morrone, eremita di santi e insieme semplici costumi, il quale, eletto pontefice col nome di Celestino V, poco tempo appresso dovette abdicare, seguendo gli astuti consigli del cardinale Benedetto Gaetani, che poscia gli successe nel trono e fu chiamato Bonifacio VIII 2.

Oltre quelli moltissimi che vennero dopo, sono da notarsi, in primo luogo, quasi tutti gli scrittori, contemporanei del poeta, i quali, studiando la divina Commedia, furono unanimi nel ritenere come veritiero il parere che sopra. Fra costoro v' ha il Boccaccio, con molta probabilità il Petrarca, Fazio degli Uberti, Jacopo della Lana e con lui l'Ottimo (Andrea Lancia ?), anzi gli stessi figli di Dante, Jacopo cioè e Pietro, ed altri ancora 3. A noi pure sem

1 Degna di osservazione in proposito è la spiegazione che il Boccaccio dà al verso che sopra. Egli dice che quell'« alcun riconosciuto,... non nomina, perciocchè se egli (Dante) il nominasse, qualche fama o infamia gli darebbe: il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto cioè, Fama di loro il mondo esser non lassa, ecc. (cfr. il suo Comento sopra la divina Commedia ecc., lez. IX, loc. cit.).

2 Dopo più di due anni di vacanza, fu creato papa Celestino V, il quale stette in carica soli mesi cinque e giorni nove, cioè dal 4 (?) luglio al 13 dicembre 1294. Ciò attesta Gio. Villani nella sua Cronica, lib. VIII, c. 5.

-

Se

Cfr. Boccaccio, cit. Comento sulla divina Commedia, lez. IX; Petrarca, De Vita solitaria, lib. II, sec. 3a, c. 18; F. degli Uberti, Dittamondo, lib. IV, c. 21, e gli altri scrit tori. già nominati, nei rispettivi commenti alla divina Commedia, ai versi surricordati. vero è ciò che dice il Giuliani, che, cioè, il miglior interprete di Dante è Dante stesso, qui è il caso di vederlo col fatto. Nel c. XXVII dell' Inferno, parlando Bonifacio VIII, fra le altre cose espone:

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Lo ciel poss' io serrare e disserrare,
come tu sai; però son duo le chiavi,

ch' il mio antecessor non ebbe care.

Chi ben osserva le parole di questi versi, trova che sono espresse con un certo disprezzo, per il quale Bonifacio mostra di voler dire: Per chiudere e dischiudere il cielo io ho solo due chiavi, il cui possesso non ebbe caro il mio predecessore, anzi rifiutò per la sua dappocaggine e mala accortezza. Vedasi come tale aperta allusione a Celestino V fatta dal suo successore, ben richiami alla mente quell'altra, di cui trattasi: tanto più che ambedue vanno a ferire quel pontefice per essere stato così di piccolo animo rinunziando al trono. Stando in tal guisa la cosa, ci sembra che essa sia la più bella prova, atta ad autenticare la interpreta. zione più comune circa colui Che fece per viltate il gran rifiuto.

Giornale Dantesco

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bra da porsi fuor di dubbio siffatta interpretazione; ma, nondimeno, diciamo che se, dato che in colui Che fece per viltate il gran rifiuto, non si volesse intendere Celestino V, nessun altro vi si può ravvisare che questo non sia certo uno vissuto al tempo di Dante. E valga il vero. Il poeta, dicendo:

Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,

mostra chiaramente di significare che fra quelli, che erano nell' Antinferno, distinse e vide più d' una persona, la quale aveva precedentemente conosciuta per qualche rapporto. Se Dante avesse con quel verso voluto riferirsi anche ad alcuno, che a lui non fosse stato noto, non avrebbe detto certo di riconoscerlo, ma invece avrebbe usato un altro verbo che non questo, il quale, nel nostro caso specialmente, non può esprimere in modo diverso. Quindi ne viene di conseguenza che Dante, accennando a Celestino V, o a chi per lui, (ma ciò ci sembra difficile) possa dire:

Guardai e vidi l'ombra di colui,

che fece per viltate il gran rifiuto:

con che vuol significare: fra que' miseri, che stanno nel vestibolo infernale, dei quali alcuno scorsi, che già aveva conosciuto, mirai e distinsi l'ombra di colui, ecc. Per la qual cosa è da dirsi che quel « guardai e vidi » è di dipendenza diretta da quel precedente «riconosciuto». — Non vogliamo ora intrat tenerci a dimostrare come male si appongano quei commentatori, i quali, nella persona a cui alluse Dante nei due citati versi, piuttosto che Celestino V preferirono di ravvisarvi, chi Esaù, chi Giuliano l'apostata, chi Vieri dei Cerchi, Giano della Bella, ecc. ecc., perchè altri studiosi del sacro poema già misero in campo più ragioni plausibili, atte a farci comprendere non potersi accettare simili interpretazioni. Invece, poichè siamo per la spiegazione anzidetta, diciamo che a confermarla, oltre il fatto generico dell' enunciato riconoscimento, (il quale, del resto, si presterebbe anche parlandosi di altri individui contemporanei del poeta), v' ha pure il fatto eziandio generico di quel «gran » «gran» aggiunto a « rifiuto», che, dandogli un maggior rilievo, ci muove a credere non doversi cotal « rifiuto» appunto riferire se non a cose parimenti grandi, come al papato o all' impero. Questi due supremi ideali, alla cui restaurazione e limitazione Dante consacrava il De Monarchia e buona parte della Commedia stessa, erano sì fitti nella sua mente, che, riferendoci al primo, dovette essergli di vivo dolore allorquando intese che Celestino V abdicava vilmente al trono pontificio, perchè con tale abdicazione veniva a recare non piccol danno e alla chiesa e alla società civile. Ora, siccome il poeta, per il fine propostosi colla sua opera, volle mettere in iscena quanti

più uomini potè del tempo suo, avrebbe destato maraviglia che avesse taciuto di uno, come Celestino, la cui viltà fu non meno grande, del rifiuto che fece. Costui non poteva egli cacciare nell' inferno perchè non ne conosceva alcuna azione, all' infuori di quella, che fosse riprovevcle, e degna di quel luogo; non mandare in paradiso perchè, quantunque conducesse, del resto, una buona e santa vita, quell' azione medesima compariva innanzi a lui di tale gravità da render nullo qualsivoglia suo pio ed illibato costume. Quindi non migliore destinazione gli poteva assegnare se non il vestibolo infernale, il luogo appunto di coloro che mai, o quando fu tempo, non fur vivi. Laonde pensiamo che, quand' anche non si volesse ammettere che colui Che fece, ecc. sia Celestino, lo dobbiamo certo ravvisare fra quell' « alcun riconosciuto» dal poeta. - Passiamo adesso ad esaminare i motivi che spinsero Celestino alla sua abdicazione. Questi aveva rifiutato il papale ammanto prima perchè, come dicono gli storici, era stato indotto da mali consigli; poi perchè, essendo tutto semplicità e timidezza, reputava di non essere atto a continuare a reggere il primato della chiesa. In lui adunque fu somma pusillanimità e mera mentecattagine, che lo indussero a quella sua gravissima risoluzione, per la quale, oltrechè arrecare del pubblico. danno (e ciò fu il peggio), sapendosi essere la chiesa agitata da varie e grandi turbolenze e, anzi, vacante del suo capo da più di due anni, commetteva anche un atto affatto insolito negli annali del pontificato romano. Ora, ammesso sempre che Celestino sia l' uomo, cui allude Dante nei ricordati versi, si domanda perchè anco il poeta pone quel papa nel numero degl' ignavi? Quali altre sono le ragioni, che pure lo animarono a procedere con tanto rigore verso di lui? Vedasi ciò che riferisce, riguardo a tale argomento, il conte Cesare Balbo nella sua Vita di Dante.

« . . .

... A marzo (sic) 1294, egli dice, fu eletto, a malgrado suo, » un umile e santo eremita, che prese il nome di Celestino V. Il quale, provatosi a regnare, e non sapendo parteggiare (ch' era tutt' uno allora)

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1 Non sembrerà arrischiato, posto che Dante con colui Che fece, ecc. abbia alluso a Ce lestino, il dire che se nol volle rammentare palesemente, fu per usargli un riguardo, consi. derata la sua vita del resto irreprensibile: il qual papa, se egli, come uomo di ferrea tem pra e nemico di qualunque bassezza, da una parte condannava, dall'altra però non è a dirsi, egli sincero credente, come ne dovesse apprezzare i santi costumi e le austere penitenze, che non molto appresso lo dovevan condurre all'onor degli altari.

2 Usiamo questa voce sulla scorta del Boccaccio, il quale pure ci sembra. che a Celestino voglia riferirla, allorquando avendo ragionato dell'altra interpretazione di colui Che fece, ecc., per Esaù, conclude che questi « fu reo e malizioso e cattivo uomo, e non fu sem. plice nè mentecatto, ecc. », le quali due ultime qualità aveva poco innanzi nel detto papa riscontrate (cfr. il suo cit. Comento sopra la Commedia, ecc., lez. IX).

» fra pochi mesi rinunciò: sforzatovi più o meno da colui, che immedia» tamente gli succedette, e poi lo trasse in prigione, e vel lasciò morire: » papa Bonifazio VIII. A Dante tal rinuncia, che pose in soglio il suo maggior nemico, dovette, quando scrisse, naturalmente mostrarsi sotto il peggiore aspetto di debolezza e di titubanza: vizi che sogliono particolar» mente dispregiarsi in tempi di parte, e più dagli uomini della tempra di >> Dante >> 1.

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A Dante dunque pesava quella abdicazione, perchè avvenuta in un momento, in cui maggiormente fermentavano le passioni e le ire dei partiti, in un momento, nel quale v' era bisogno non di retrocedere e di ritirarsi, ma di tenere invece alta la fronte per mostrarla quindi negli eventi ; e tanto più perchè, conoscendo i grandi guai che travagliavano la chiesa e massime la « discordia de' cardinali ch' erano partiti, e ciascuna setta volea papa uno di loro », per cui quella era stata vacata dopo la morte di papa Nicola d'Ascoli più di due anni », dovette certo aver provato piacere nel sentire che finalmente que' cardinali « furono in concordia di non chiamare niuno di loro in collegio, e che clessono uno santo uomo, ch' avea nome. frate Piero dal Morrone d' Abruzzi » 2. Ma se per cotali ragioni fu al poeta discara e parve vilissima cosa l'aver Celestino rinunciato alla sede di san Pietro, assai più riprovevole giudicò il suo operato perchè dette egli luogo alla immediata elezione di Bonifazio VIII, del quale era già abbastanza nota la grande astuzia ed arte usata per riuscire ad ottenere quel supremo ufficio 3.

1 Loc. cit., pag. 227-28.

2 Gio. Villani, Cronica, lib. VIII, c. V. A proposito di questo storico notiamo che Dante non dovette, è credibile, veder di buon occhio Celestino e che volle anco, per un motivo di più, gravar la mano su di lui, per il motivo cioè della grande amicizia e partigianeria che quegli ebbe per Carlo II d'Angiò, l'odiatissimo « Ciotto di Gerusalemme », cui il poeta stesso infamia in vari luoghi della Commedia (cfr. Purg., VII, 127, XX, 80-81; Parad., VI, 106-8, XIX, 127-29). Tanto è vero che per que' legami Celestino per riformare la chiesa fece di settembre vegnente dodici cardinali, grande parte oltramontani, a petizione e per consiglio di Carlo re di Cicilia e di Puglia: ciò fatto n' andò colla corte a Napoli, il quale fu da re Carlo ricevuto graziosamente e con grande onore » (cfr. il Villani, loc. cit.).

3 A confermare questo sta il fatto per cui Dante non dubita di dire apertamente a Bonifacio nel XIX dell' Inferno:

Se tu si tosto di quell'aver sazio,

per lo qual non temesti tôrre a inganno

la bella Donna...?

le quali parole ben si collegano colle altre del XXVII del Paradiso, dove il poeta infierisce contro quel papa facendo dire a san Pietro che Bonifacio è

Quegli ch' usurpa in terra il luogo mio,

il luogo mio, il luogo mio, che vaca
nella presenza del Figliuol di Dio.

E come non poteva Dante lagnarsi della rinuncia di Celestino, e perciò tacciarlo di vigliacco, una volta che, col succedergli Bonifazio, per causa di questo avvennero i tristi fatti che desolarono la sua Firenze, avvenne la cacciata della sua parte, dei bianchi vogliamo dire, una volta che per l'opera di tal papa dovette egli stesso esulare dalla sua patria?.... Non è, quindi, come vedesi, senza forte ragione che egli caccia quel pontefice nella ignobil

setta dei cattivi,

a Dio spiacenti ed a' nemici sui 1.

E giacchè parliamo di Bonifacio VIII, non sarà fuori di luogo l'accennare, per la verità sto rica, che, se vi furono scrittori contemporanei o quasi di quel papa, i quali furono dello stesso parere di Dante giudicandolo, vi furono altresì altri scrittori, non solo contemporanei, ma eziandio testimoni dei fatti che raccontarono, i quali invece asseverarono in maniera af fatto diversa la notizia del modo con cui il detto Bonifacio potè salire al pontificato e anzi della condotta da lui in prima tenuta verso Celestino suo predecessore in occasione del suo « gran rifiuto»; facendo conoscere che come non fu il favore di Carlo II d'Angiò che lo condusse ad afferrare le sospirate chiavi, perchè v' era tra loro in quel tempo inimicizia, così non ebbero luogo pressioni ed artifizi particolari da lui usati presso lo stesso Celestino perchè abdicasse, essendogli piuttosto stato a quel fine un consigliere al pari di altri, medesimamente interpellati. Cotali cose furono modernamente sostenute con buone e convincenti prove dal p. Luigi Tosti nella sua dotta Storia di Bonifazio VIII e de' suoi tempi (ediz. di Monte Cassino, 1846), a pag. 73 e segg. e a pag. 77-8, lib. I, e in nota (E), a pag. 231 e segg. Alle quali prove serie, rispondendo poi l'erudito prof. L. Scarabelli, ci pare, non seppe opporre altrettanti argomenti seri, atti a renderle nulle. (Cfr. la sua Rassegna alla cit. Storia in Appendice all' Archivio storico italiano, tom. V, pag. 299-301: Firenze, 1847).

IV'ha chi crede ed asserisce che il fatto della rinuncia di Celestino V sia da attribuirsi non alla sua debolezza, ma sibbene alla sua grande modestia e santità, per le quali egli si giudicò di non esser degno di reggere più oltre le veci di Cristo in terra. Di tale opinione è, per citare uno, il Fraticelli, che nel suo noto Commento alla divina Commedia così espone: « Dante fu forse indotto dallo spirito di parte a così parlare di lui, poichè (Celestino) colla sua rinunzia, fatta non per viltà, ma per somma umiltà, diede, ecc.» (cfr. loc. cit., pag. 57, not. 59: ediz. Barbèra, Firenze, 1879). Ora domandiamo noi: come mai quel pontefice prese quella risoluzione più tardi, e non appena che fu eletto? Dunque erra il Boccaccio, insieme con tanti altri commentatori autorevolissimi, quando egli, avendo raccontato il modo, che riteniamo non del tutto veritiero, onde avvenne quell'abdicazione, esplicitamente riassume il suo ragionamento in proposito, dicendo: « Pare perciò Dante qui volere lui per questa viltà d'animo, in questa parte superiore dello inferno, tra' cattivi esser dannato »? (Cfr. loc. e lez. cit.). È inutile poi che noi ripetiamo quanto difficili si fossero i tempi che allora correvano e come si richiedesse non solo non poca attitudine a governare uno stato, quale appuuto era la chiesa, ma anche una grande esperienza da usarsi verso la parte guelfa, o, meglio, nera, che nel pontefice riconosceva il suo capo e la sua guida. In tal modo stando le cose, è chiaro di per sè stesso che il rifiuto di Celestino V piuttosto che un atto di umiltà, di viltà somma

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