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medievali, che racchiude in se, come altrettanti diamanti, i pensieri slegati del sommo poeta.

Si legga quel capitolo che nelle edizioni è il nono del libro II. Vi si dice che volendo determinare tutti i principii dell' arte della stanza, si tratterà in primo luogo del canto, poi dell' abitudine, e con questa, della rima, e in terzo luogo del numero dei versi e delle sillabe.

Passando poi al capitolo 12 delle edizioni, noi vediamo che l'abitudine è cosa che si riferisce ai versi; è lo studio del genere di versi che si dovranno adoprare nella stanza, della scelta degli endecasillabi, eptasillabi, ecc.

Nel capitolo 10 si ripete quella divisione e si dice ancora che si tratterà, prima del canto poi dell' abitudine e poi del numero. E veramente in quel capitolo 10 si segue l'ordine prescritto, e anzitutto si parla del canto.

Ma passando al capitolo 11, quando si aspettava che l'autore dicesse quello che vuol dire sull' abitudine, si vede, con somma ammirazione di chi legge, che il testo si riferisce al numero dei versi e delle sillabe e a niente altro. E poi, i capitoli 12 e 13 parlano dell' abitudine e della rima. Dunque, è ovvio che qui abbiamo un' aperta e fortissima contraddizione, che il capitolo 11 delle edizioni non è al luogo suo, e che doveva venire dopo il 12 e il 13 è prima di quell' avanzo di capitolo che è l'ultimo e che nelle edizioni ha il numero 14.

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I

Nel codice grenobliano la prima frase del predetto capitolo 11 dice così:

« Videtur nobis hec quam habitudinem dicimus maxima pars ejus que artis est hec est enim circha cantus divisionem atque con» textum carminum et rithimorum relationem consistit qua per diligentissime videtur esse tractanda. Incipientes ergo dicimus» ecc.

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Questo esordio è bestiale in estremo. Si dice che l'abitudine comprende lo studio delle divisioni del canto, quello della scelta dei versi e quello delle rime, e che il capitolo presente ne tratterà diligentissime. Ma poi il capitolo non dice pure una sola ed unica parola di quelle cose. Tratta solo del numero, cioè precisamente di quello che si omette nell'esordio. E come va che nei capitoli 9 e 10 si considerava l'abitudine come cosa separata dal canto, e qui si pretende che comprenda il canto? E come va che qui si vuole trattar diligentemente del canto, essendosi di già esaurita la questione nel capitolo precedente?

Lascio stare le parole e sillabe di guazzabuglio che sono ornamento pur troppo egregio di quelle linee e che il Corbinelli

correggeva rispettosamente: e saltando senz'altro i due capitoli seguenti, vengo al principio del 14, cioè precisamente al punto dove lo studio del numero doveva ritrovarsi dopo quello dell'abitudine e della rima. Prendo le due prime frasi di quel capitolo 14:

« Ex quo que sunt artis in cantione satis sufficienter tractavi» mus. Nunc de tertio videtur esse tractandum, videlicet de numero » carminum et sillabarum. »

La prima frase va bene. Si era detto ai capitoli 9 e 10 che l'arte consiste nella conoscenza di ciò che si riferisce al canto, all'abitudine e al numero. Esaurite quelle questioni, non rimane più niente. Ma come poi si dice che nunc (!!) si deve parlare del numero? E non si è finito tutto quello studio del numero nell'11, cioè in quell'11 delle edizioni che non è al luogo suo e dovrebbe star qui? Del resto, leggendo quel che segue non vi si ritrova altro. che considerazioni sulla prolissità decente che conviene a certi concetti, di modo che quella seconda frase non può stare ed è in contraddizione con ogni cosa.

Imaginiamo pure che la si metta precisamente al principio del capitolo del numero, e che quel capitolo venga dove infatti doveva venire, cioè, dopo quello della rima, che nelle edizioni ha il numero 13; e ammettiamo che si surroghi appunto con quella frase, quell' altra che si è dichiarata per inconsistente, stupida e indegna, non dirò di Dante, ma d'ogni persona che abbia il senso comune: allora tutto va a maraviglia, poichè il capitolo del numero incomincia così:

« Nunc de tertio videtur esse tractandum, videlicet de numero » carminum et sillabarum Incipientes ergo» ecc.

D

Per spiegare quelle stranissime circostanze non si vede altra ipotesi che la seguente.

Dante scrisse la sua opera su fogli slegati, e pose fine a un foglio colle ultime linee del capitolo 10 delle edizioni. Nei fogli che prese dopo quello, scrisse i capitoli dell'abitudine e della rima e giunse in quel modo quasi quasi al fine di certo foglio, sul quale scrisse per ultime linee la prima frase del capitolo del numero: Nunc de tertio, ecc. Sul foglio seguente, che noi vogliamo chiamar A per intenderci meglio, scrisse tutto il capitolo del numero, dall' Incipientes ergo fino all'ultima parola. Poi scrisse il capitolo 14 e gli altri che noi non abbiamo. Venne poi chi aveva in mano l'ago e il filo per cucire, e per errore simile a quello che noi vediamo ogni giorno nel nostro secolo nei libri legati, accadde che il foglio A fu cucito dove non doveva essere, cioè, fra il capitolo del canto e quello dell'abitudine.

Il copista si ritrovò innanzi a quel capitolo che incominciava così:

Incipientes ergo..

Questo non poteva stare.

Venne allora il glossatore, il pedante, il maledett' uomo, che prendeva l'impegno di racconciar tutto. Questi, vedendo che qui si doveva trattare dell' abitudine, fece la frase abbominevole e fece anche l'argomento, che è più bestiale ancora:

De numero pedum et silabarum et de distinctinctione carminum ponendorum in dictamine.

Che c'entra il numero dei piedi?

E quanto alla distintinzione dei versi, dove si vede che il capitolo ne abbia detto una sillaba?

Ciò fatto, il copista continuò il suo lavoro, credendo che tutto fosse finito. Ma no. Quando giunse al fine del capitolo della rima, vi ritrovò la frase Nunc de tertio . . che era lì, e lo aspettava al varco, per metterlo in confusione, come i bravi di Don Rodrigo aspettavano Don Abbondio all' incrociatura dei viottoli.

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Allora, non sapendo che fare, si determinò a lasciarla; poi, scritta la prima frase del capitolo seguente, gli parve meglio di riprodurla e la cacciò in quel luogo, com' era abitudine sua, quando si era dimenticato di qualche cosa.

Che tale fosse il metodo di quest'uomo lo dimostra ciò che si vede al foglio 19. Cita non so quanti poeti provenzali; poi prende altri poeti, che sono italiani, poi continua col testo latino e finalmente accortosi che mancava un provenzale, lo mette nel mezzo del suo testo latino, senza indicazione di nessun genere. Il Corbinelli punteggiava quell' esempio al disotto, per ricordarsi che non doveva farlo stampare così. L'inchiostro del Corbinelli è più pallido di quello del copista, e si riconosce colla maggior facilità. Lo stesso si osserva per tutte le punteggiature del medesimo genere che esistono nel codice.

Forse il lettore non intende il perchè della nostra invenzione d'un pedante che facesse quei lavori che diciamo noi, e crede che tutto si potrebbe attribuire al copista. Il motivo di quella ipotesi si ritroverà nel paragrafo seguente. Intanto osserveremo che l'autore della frase assurda che forma l'esordio del capitolo del numero fu sicuramente quello dell' argomento. L'argomento risponde all'idea del glossatore che scrisse l'esordio, poichè vi si è introdotto il concetto della distinzione dei versi che si riferisce all'abitudine, e a niente altro che all'abitudine.

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Tutti gli editori di Dante osservarono certe stranezze negli argomenti dei codici. Ma noi non abbiamo motivi per trattare quelle scritturaccie con venerazione, e diremo semplicemente che molti argomenti sono bestiali e contrari al pensiero di Dante. Diremo che tale è quello de! capitolo 13 del primo libro, nel quale si fa un grande encomio dei vernacoli toscani, mentre Dante ne dice più che male. E diremo sovra tutto che è indecente il titolo generale del libro: de vulgari eloquio sive idiomate. Nel Convito è anche nella prima frase del presente libello, Dante dichiara che vuole trattare dell'eloquenza e non dell'idioma volgare: ma per un pedante del secolo XIV, non v'era eloquenza in altra lingua che in latino. E così si è falsificato questo titolo, come anche si è falsificato quello del divino poema, che Dante chiamava le Tre Canzoni, e che i glossatori chiamarono la Commedia, poichè in versi volgari lo stile doveva essere umilissimo, e non v'era stile tragico se non in latino. Così ancora si chiama Convivio il Convito, dal latino Convivium, giacchè non si poteva perdonare al poeta l'amore della propria lingua e il desiderio di volere esprimersi bene nell'italiana favella, piuttosto che scrivere in gergaccio claustrale e in latino orrendo, come i dottori del suo secolo.

Ma per finirla con ciò che si riferisce a queste cose, noterò una circostanza che si spiega bene nel mio sistema, e questa è che l'ultimo capitolo non ha argomento. Se il copista componeva gli argomenti, il fatto riesce enimmatico; ma se veniva a farli un'altra persona, basta intendere che questo individuo abbandonò il lavoro prima dell' amanuense per modo che il disgraziato scrittore, non avendo più quell' aiuto indispensabile, si decise a ricopiare il capitolo senza titolo di nessun genere.

3. LE NOTE GOTICHE

È di grande interesse lo studio delle noterelle in carattere gotico corsivo che si vedono nei margini del codice, e che il Rajna crede opera del copista. Ma questo è un mio errore ed io non capisco perchè il Rajna lo vuole ritenere per verità. Egli non mi è amico, e il fatto è di poco interesse per il publico. Pure io vorrei che invece d'esser nemici della mia persona, tanto lui come gli altri che non mi vogliono bene, fossero nemici delle mie inesattezze e non mi venissero a metter le mani sulle spalle e a cadere con me, come dice Dante, nel fosso della falsa opinione.

Le note marginali in questione sono al numero di 13.

Di fronte all'argomento del libro II, capitolo 1, se ne legge una che dice Incipit liber secundus. Questa è imitazione moderna. delle altre che sono antiche e di mano del glossatore. Su quel punto particolare non mi spiego; è un fatto che ho dimostrato con tutto il dettaglio che si richiede nella seduta dell'Accademia delfinale del 3 di marzo 1893. È cosa delicatissima e che tocca certe difficoltà generali di paleografia, sulle quali lo stato della scienza è ancora incerto.

Le altre dodici note possono dividersi in tre categorie.

A. Una si riferisce all' argomento del capitolo 15 del libro I. Il postillatore propone un' altro argomento, diverso da quello che si legge nel testo e molto migliore. Parve al copista trivulziano che fosse meglio conservare il primo: o forse non esisteva ancora quella nota marginale quando il secondo amanuense ricopiò il documento grenobliano. Insomma il codice milanese somministrava al Trissino l'argomento primitivo che fu riprodotto in tutte le edizioni.

Questa circostanza è una prova di più per dimostrare che l'autore degli argomenti e il glossatore del libro dell'Eloquenza Volgare furono una sola e medesima persona.

B. Alcune postille di poco momento, in numero di sette, saranno qui esaminate in primo luogo.

C. Le altre quattro restituiscono frasi dimenticate nel testo. Nella categoria B si schiera la postilla del libro I, cap. 9, alla frase sub unirabili semper civicasse sermone. Invece di correggere il barbarismo unirabili, l'annotatore scrive aliter, comunicasse, mentre la parola civicasse risponde molto meglio all'idea di Dante.

Nel medesimo capitolo l'annotatore si maraviglia leggendo che il vernacolo bolognese non è il medesimo in tutta la città e scrive in margine: Bononienses discrepant in loquela. Al capitolo seguente, dicendo il testo che i dialetti d'Italia sono in numero di quattordici, scrive XIIII Vulgaria in Italia. Quando Dante parla del vernacolo di Padova, postilla Paduani, e Januenses quando si viene a quello di Genova, o piuttosto quando ne tratta egli medesimo, poichè finora si è attribuito a Dante quel giudizio sulla lingua genovese che tutta dovrebbe consistere nella lettera Z. Concetto contrario alla verità e al buon senso e più degno d'un ubbriaco o d'un pazzo che dell' autore del divino poema.

Similmente si legge in margine Veneti quando si giunge al dialetto veneziano, e al principio del capitolo 11 del libro I, essendovi nel testo la parola veneremur che non vuol dir niente,

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