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Cade adesso in acconcio di fermarci un poco a ragionare dei suesposti versi, di quelli cioè che vanno dal numero 117 al numero 126 del citato canto VII, nei quali versi pare ad alcuni commentatori si voglia parlare di tutti altri peccatori che degli accidiosi. L'argomento, a dire il vero, è abbastanza trito, ma non sì, crediamo noi, che il ritornarvi sopra debba sembrare cosa affatto inutile. Uno di coloro che più vi s'intrattenne recentemente, portando in campo anche alcuni fra i più disparati, ma sempre apprezzabili pareri, fu il prof. A. Bartoli, uomo, come ognun sa, preclaro per la sua critica acuta e insieme profittevole in fatto di studi danteschi. Citando ad esempio costui, vediamo su quali sodi fondamenti appoggi le sue asserzioni. Egli dice, secondo i versi 70-79 del canto XI dell' Inferno, dove dichiarasi che di quà dalla città di Dite è solo purita l' incontinenza, questa essere una prima ragione, la quale prova che non è l' accidia castigata nè nel V nè in altro cerchio prima della detta città di Dite, perchè appunto essa non è incontinenza. Osservisi ora com' egli spieghi con le parole stesse del Todeschini, che fa sue, che cosa s'intende per incontinenza. « Incontinente, in senso stret» to, egli dice, è chi non si contiene giusta i dettami dell' intelletto da una >> illecita azione sensuale, a cui è spinto dalla carnalità: incontinente, in senso largo, è chiunque non si contiene giusta i dettami dell' intelletto da una » illecita azione qualsiasi, a cui è tratto da un qualche impulso sensibile ». E sta bene. Ma ora, domandiamo noi, accidia è o non è incontinenza? Il Bartoli gli altri scrittori da lui ricordati, sostengono di no, perchè dicono « non es>> sere nell' accidia impulso sensibile ad un' azione, da cui l' uomo intelligente >> debba contenersi : questo vizio porta seco una natura totalmente contraria, » mentre esso trattiene l'uomo da ciò che sarebbe suo dovere di compiere ». A noi sembra invece che accidia sia incontinenza, in quanto che accidioso, nel vero senso della parola, è colui il quale, non potendo soffrire che altri lavori e s' industri, diversamente da lui ch'è inerte ed ozioso, ne prova rancore e dispetto, che sul subito non sfogherà più o meno in atti impetuosi come l' iroso. E ciò si comprende di leggieri quando si pensi alla qualità del suo difetto principale. Ma, se sul subito non irrompe, però è per sua natura tale che cerca di recare altrui danno lentamente sia colle parole sia coi fatti, dei quali ai più gravi sopra tutto giunge quando non abbia ottenuto innanzi il suo intento. E inutile poi che diciamo che quì intendiamo parlare dei casi più rilevanti di accidia, i quali sono appunto i più meritevoli delle punizioni infernali. Se così è, dunque è ben vero che l' accidioso sente invece quell' impulso di cui sopra; e se non compie quanto esso gli detta, avviene perchè appunto è rattenuto dalla viltà, dalla quale è fra gli altri vizi in sommo grado. dominato. Torniamo ora alle ragioni addotte dal Bartoli a sostegno della sua asserzione. « In secondo luogo, egli aggiunge, può mai bastare quell' accidioso fummo a far credere che Dante abbia cogli iracondi posti gli acci

>> diosi? Come si vorrebbe che un solo epiteto fosse sufficiente a mostrare >> una specie di peccatori da lui dannata alle pene?». Esponendo noi la nostra opinione, diciamo invece che Dante non poteva rendere più spiccati coloro che commisero quel peccato, nè meglio dipingerceli nell' effetto, che in essi appunto produce l'accidia. Il verso che suona: Ed anche vo' che tu per certo credi, ben rivela che, insieme cogli iracondi, v' ha altra gente, vale a dire gli accidiosi, i quali, pur molto a quelli assomigliandosi, perchè sono gli uni e gli altri in complesso sempre agitati da un animo irascibile, nondimeno dai primi diversificano per essere imbrattati anche da altri vizi. Tale verso appunto ci pare che non sia stato bene notato dal Bartoli e che da lui quindi non sia stato osservato come Dante siasene servito per dare rilievo ad altri peccatori, che sono precisamente gli accidiosi stessi. Se il poeta nel canto VII avesse voluto parlare solo degli irosi in genere, perchè ad alcuni irosi in ispecie (che secondo noi sono i sopradetti accidiosi) dà un colorito differente, una punizione diversa? A quale scopo cotale ingiustizia? Nella pittura degli irosi si scorge e si sente l' impeto della passione che li predomina: invece in quella degli accidiosi l'inquietudine e le smanie, da cui sono essi eccitati per il livore e per l'invidia che dentro li consuma. Aggiungi inoltre che gli uni debbono agire conforme l' impulso del loro peccato, e gli altri poi, oltrechè mostrare che sono agitati dai detti vizi, al tempo stesso debbono anche dolersi e piangere la loro abiezione. Dopo tutto questo domandasi pure, perchè al Bartoli e agli altri del medesimo suo parere, non sembra che l' accidia sia punita nella palude stigia? La risposta la dà egli stesso allorquando, avendo dichiarato che, come sopra vedemmo, «l' accidia non è incontinenza », espone in una nota essere l' accidioso « un uomo che non ama, non sente, non opera, che non si cura nè di sè nè degli altri. L' accidia è sonno dell' anima ed ozio

1 Tutte le riferite frasi il Bartoli le tolse dagli Scritti su Dante di G. Todeschini, al vol. I e alle pagg. 39-41 della qual opera egli stesso rimanda il lettore. Però, se il Bartoli ha fatto sue le dette parole del Todeschini e quindi ha mostrato di seguirne l'autorevole giudizio, quando credè opportuno, non ha riportate le altre alle prime susseguenti, le quali non è a dirsi quanto appalesino il lato (debole dell'argomento in questione e rendano in molta parte nulla, in proposito del tema suesposto, la critica del dotto vicentino. Le parole, che fan seguito all'ultima frase che sopra, sono queste: « .... Dante non pose nel quinto cerchio nè dichiarazione di peccato, nè distinzione di pena per l'accidia....: ed a noi non è lecito, appuntando qualche sfuggevole parola usata da lui a rincalzo o ad ornamento dei suoi concetti (intendi delle parole tristi fummo e dell'accidioso fummo, i cui «epiteti, si noti, li dichiara, caduti dalla penna del poeta »), di comprendere in quella parte dell'Inferno dantesco ciò che il poeta non ha distinto nè dichiarato » (cfr. loc. cit., pag. 41). Senza voler dire altro il let tore giudichi da sè se cotali espressioni sieno serie e anzi se veritiere e se quindi sieno persuasive.

del corpo ». Ma allora, diciamo noi, tale peccato in che diversifica dal peccato dell' ignavia?.... . . . Inavvertitamente il detto professore ci pare che li confonda, confermando a quel modo. Va bene il dire che l'accidioso stia in ozio col corpo (ben inteso generalmente), ma non già coll' animo, nel quale esso prova una certa smania continua, prodotta appunto dall'inerzia stessa del corpo, e all' occasione un rabbioso sentimento verso chi si mostra operoso invece e solerte. Crediamo che il Bartoli non avrebbe dichiarato quanto sopra. se si fosse ben ricordato delle sue stesse parole dette poche pagine innanzi. Infatti in quel luogo aveva asserito, conforme la spiegazione che ne dà l'Aquinate, che l'« accidia, teologicamente parlando, non è un peccato negativo, » non consiste nel non fare nè il bene nè il male. Essa è cosa ben distinta. » dalla pigrizia ». Dal che rileva che non può darsi « avere il poeta confusa » l'accidia coll' ignavia, colla viltà d'animo». Ciò giustamente lo scrittore conferma a proposito di coloro che, non sapendo vedere in una parte dei dannati del quinto cerchio infernale gli accidiosi, li riconoscono bensì in quelli che abitano il vestibolo dell' Inferno, e in tal guisa fanno tutt' uno della pusillanimità coll' accidia, la quale « è uno dei vizi capitali, uno dei peccati, come dicono i teologi, mortali » 2. — Giacchè trattasi di alcuni fra quelli che sono

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1 Ctr. Summa theologica. (Secunda sec., quaest. 35, artic. 4). Poichè fa a proposito, vedasi, se per san Tommaso sia l'accidia un peccato capitale (ch'è quanto dire uno dei più grandi vizi) e se in essa vi sia alcuno stimolo a operare. Odasi la questione da lui posta in campo: « ... Videtur quod accidia non debeat poni vitium capitale. Vitium enim capitale dicitur quod movet ad actus peccatorum....: sed acedia non movet ad agendum, sed magis retrahit agendo, ergo non debet poni vitium capitale ». A tal quesito risponde lo stesso Aquinate: Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, vitium capitale dicitur esse ex quo promptum est ut alia vitia oriantur secundum rationem causae finalis. Sicut autem homines multa operantur propter delectationem: tum, ut ipsam consequantur: tum etiam ex eius impetu ad aliquid agendum permoti: ita etiam propter tristitiam multa operantur, vel ut ipsam evitent, vel eius pondere in aliqua agenda prorumpentes. Unde, cum acedia sit tristitia quaedam, ut supra dictum est, convenienter ponitur vitium capitale. Ad primum ergo dicendum, quod acedia aggravando animum hominem impedit ab illis operibus, quae tristitiam causant; sed tamen inducit animum ad aliqua agenda, vel quae sunt tristitiae consona, sicut ad plorandum, vel etiam ad aliqua, per quae tristitia evitatur ». In quanto poi ai quesiti: se l'accidia sia un vizio speciale e se sia un peccato mortale, può da sè il lettore consultare lo stesso san Tommaso nell'op. e loc. cit., alla quist. 35, art. 2 e 3. La definizione che ne dà, di essere cioè l'accidia e un vizio vero e proprio e un peccato mortale, sta ben contro coloro i quali, a proposito dei suesposti versi danteschi, parlando dell' accidia, non colla maggior sollecitudine ponderarono la quistione.

2 Di tale opinione, come ognun sa, fu primo B. Daniello (cfr. il suo Commento alla d. C. ai versi e al canto in parola), e a lui tennero dietro altri, ultimo dei quali è il cavaliere

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puniti nella palude stigia, tornerebbe assai acconcio di esaminare nuovamente ora l' opinione, già da più d'un commentatore messa in campo, l' opinione diciamo di coloro che fra i miseri di quel luogo fangoso vollero riscontrare non solo gli iracondi e gli accidiosi, ma eziandio i superbi e gli invidioși; e ciò per il motivo che questi ultimi « non riuscirono a trovare altrove. Manca la pena . . . dell' invidia, della superbia; ebbene, siccome, dicono, queste devono esserci, troviamole nel quinto cerchio ». Per non andar troppo in lungo, e maggiormente poi per non uscire dai confini del tema propostoci, ben volentieri rimandiamo il lettore al Bartoli, il quale, con ottimo acume di critica, ha saputo mostrare quanto sia errata la suddetta opinione per quel che però solo si riferisce ai due peccati di superbia e d'invidia 1. Per noi, ci basta di dire che se anche non ci fosse altro, v' ha un fatto importantissimo, il quale pure da sè è sufficiente a star contro a quel parere medesimo. Sappiamo che, secondo la partizione dantesca, i peccati di incontinenza vengono puniti fuori della città di Dite, e ciò per la ragione a tutti resa nota dal poeta. Quindi prima di giungere alle mura di quella città troviamo i lussuriosi, i golosi, gli avari e i prodighi, gl' iracondi e, come sosteniamo, gli accidiosi, cioè tutti coloro (ripetiamolo col Bartoli) <«< che non si contennero giusta i dettami dell' intelletto da una illecita azione qualsiasi, a cui furon tratti da un qualche impulso sensibile»> 3. Ora, può dirsi questo di quelli che peccarono di superbia o d'invidia ? No perchè tali vizi non sono, come ognun sa, vizi d' incontinenza, ma di malizia, e, anzi, il primo «< addirittura di bestialità » ; tanto è vero che sono

F. Ronchetti (cfr. il suo articolo A proposito di varianti, pag. 125 e segg. del Giornale dantesco, diretto da G. L. PASSERINI, an. I, quad. III).

1 Cfr., per quel che si riferisce in proposito e per quel che abbiamo in più luoghi sopra riportato, la Storia della lett. italiana di A. Bartoli, tom. VI. p. I, pagg. 53-70 (ed. Sansoni, Firenze, 1887). — Giacchè il prof. Bartoli ha voluto «recisamente sostenere che non può darsi che l'accidia sia punita nè nel quinto cerchio, nè nell' Antinferno» (ma quì ottimamente, come osservammo), nonostante che dichiari « che l'ordinamento morale della prima parte dell' Inferno presenta delle difficoltà insormontabili » (loc. cit., pag. 74), avremmo desiderato, a complemento della sua critica, che avesse almeno accennato dove potesse essere reperibile quel vizio medesimo, che riconoscendolo pur egli per capitale, e quindi importante per gra vità quanto gli altri, non vorrà certo neanche dubitare che possa essere sfuggito a un luogo e a punizioni speciali da Dante assegnatigli.

2 Cfr. i vv. 83-4 del canto XI dell' Inferno.

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3 Loc. cit., pag. 56. Aristotile definisce l'incontinente esser colui che, sapendo che alcune cose solo vili (e biasimevoli), le opera per passione» (cfr. la Morale a Nicomaco, lib. VII, c, I).

« mala radice » di più d' una specie di peccati da Dante compresi sotto que' due nomi generici : dunque non possono essere castigati nel luogo

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1 Se in tal modo dichiariamo e da una parte mostriamo ora di apprezzare l'opinione di coloro che prima di noi così giudicarono, però dall' altra parte non è a dirsi che sia del tutto errato il parere dei dantisti i quali, come sopra, sostennero doversi anche l'invidia e la superbia trovare punita isolatamente nella palude stigia. Ed ecco in qual guisa. Costoro sbagliano, secondo noi, quando asseverano che in detta palude vi sono alcune schiere di dannati che rappresentano l' un peccato essendone macchiati, ed altre che rappresentano l'altro per la stessa ragione. Così per essi Filippo Argenti, persona orgogliosa », è il simbolo di coloro che peccarono di superbia, e le anime che gli si avventano e fanno «strazio di costui», dell'invidia. Perchè fare tal distinzione, dal poeta non fatta, non si comprende. Piuttosto si deve riconoscere che nel quinto cerchio Dante ha posto due distinte specie di anime (sul che non y' ha dubbio), le quali, a parer nostro, non sono altro che gl' irecondi e gli accidiosi. Ora, come ciò ci sembra resultare palesemente dal contesto delle parole, così al tempo stesso dobbiamo dire che que' peccatori non sono dal poeta rappresentati soltanto, esser dominati gli uni dall'ira e gli altri dall' accidia. Esaminando, senza preconcetti, i versi del canto VIII (dove si parla sempre degli abitatori dello Stige):

Quanti si tengon or lassù gran regi

che qui staranno come porci in brago, ecc.,

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che rispondono a pennello al « persona orgogliosa dal nostro poeta detto innanzi dell' Argenti (ch'è pur sempre « ombra furiosa »), si riscontra che quelle anime sono anco macchiate dalla superbia, il qual vizio, non c'è che dire, ha molte attinenze con quell'ira, ed anzi spesso n'è il diretto movente. Non men palese è pure ciò che può affermarsi degli accidiosi, i quali confessando che

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mentre da una parte dichiarano il loro peccato principale, l' accidia, dall'altra mostrano che sono deturpati anche dall' invidia, la quale è certamente gran parte inerente di quella. Da tutto questo rilevasi adunque che la superbia e l'invidia sono mischiate eziandio ad alcuni peccati d'incontinenza, come lo sono pure a quelli di malizia e di bestialità, essendo anzi talvolta le . . . . faville c'hanno i cori accesi ad altri peccati contenuti in una di quelle tre male disposizioni ». Consimil fatto del resto si osserva anche nei peccati dell' avarizia, della lussuria e dell'ira, i quali, se sono peccati d'incontinenza, non può negarsi essere anche « mala radice » di peccati che son compresi sotto la general denominazione di malizia. Cosi, ad es., vediamo essere imbrattati dell'avarizia i simoniaci, la cui « avarizia il mondo attrista», della lussuria i sodomiti, « lerci» per «li mal protesi nervi », dell'ira i violenti, « cui l'ira dentro fiacca »; senza contare le altre specie di peccati, in cui dividonsi i violenti e i frodolenti, a commetter i quali peccati niuno può dubitare esser cagione diretta que' peccati primi.

D

Dal fin qui detto ne conseguita inoltre che, se non tutto il torto hanno i commentatori che sopra, ci pare però sbaglino assai, o, meglio, non sieno esatti, coloro che nello Stige si ostinano a riconoscere esservi anime soltanto dannate per il peccato dell' ira, divisa in ira aperta e in ira celata; la qual distinzione (non badando al resto di ciò che asseriscono) mentre da un lato può sembrare giustificata per il fatto che anche i miseri (da noi giudicati gli acci

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