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che sopra, ma sibbene nel «lo profondo inferno». Se coloro che si fecero a sostenere l'accennato parere, avessero posto mente anche solo a tal fatto, ch'è del resto il principale, non si sarebbero, crediamo, perduti in più o meno erudite, ma pur in ultimo vane, logomachie. Per la qual cosa sarà ottimo che senz' altro passiamo ad osservare brevemente l'opinione di quei commentatori i quali vorrebbero sostituire alla parola « accidioso » dell'« accidioso fummo », la parola « invidioso »: e tanto più perchè la vediamo ai giorni nostri riportare in campo e sostenerla con tutta franchezza e serietà. — Uno di quelli che ultimamente si sono occupati della quistione, è il compianto prof. A. Borgognoni, il quale, mancando testè ai vivi, portò un grave lutto nel regno letterario. Prendendo costui ad esempio, vediamo in qual modo sostenne la sua tesi. Egli adunque in una lettera intitolata Per due lezioni congetturali e diretta all'amico suo carissimo G. L. Passerini, il quale la pubblicò nel suo Giornale dantesco, (an. I, quad. II, pag. 63-8), dopo aver dichiarato che dell' argomento aveva parlato altra volta in uno scritto a parte, ne ripete il contenuto per quel che si riferisce al proposito, e dice: «. ... accettando l'« accidioso », e mettendo che per accidia s'intenda l'opposto dell' ira, come ti riesce freddo e dissonante quel verso

Nell' aer dolce che dal sol s' allegra!

che in bocca degli invidiosi (la qual lezione egli preferisce) fa tanta passione, detto da questi altri diventa non più che un' arcadica perifrasi per dire nell' altro mondo». Come osservasi, lo scrittore allude a coloro che dell' accidia fanno una negazion di passione e, ammettendo per un momento per vera la loro definizione (cui del resto non crede, poichè più sopra ha dichiarato che eglino, gli «pare che non colgano nel segno »), su un giudizio errato ne fonda un altro che poi infine, per causa dell'antecedente, diventa pur esso ne errato. Lo che non è certo serietà critica. Prosegue poi dicendo: «Altri vorrebbero vedere in quell' accidioso fummo designata un'altra specie d'ira, cioè l'ira compresa e seco stesso ruminata : la quale spiegazione invero non sarebbe spregevole, se vi fosse il diritto di farla:

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diosi) sono colpevoli d'ira più o meno tenuta nascosta, e per questo vizio pure puniti, dall'altro non è a dirsi esser approvabile perchè di quegli spiriti non si castiga direttamente l'ira, ma l'accidia che la comprende, e perchè anco fra le colpe non è sola l'ira (e, secondo noi, pure l'accidia), da cui vengono dal poeta mostrate essere ree le due schiere di dannati nello Stige sepolti.

Cfr. il cit. art. di N. Zingarelli in Giornale dantesco, loc. cit., pag. 262.

2 A. Borgognoni Del sesto cerchio nell' Inferno» dantesco (ediz. della tip. all'insegna di Dante, Bologna, 1863).

ma il vocabolo accidioso non dà questo diritto ». E questo apertamente asserisce perchè si vede che non ha ben compreso il significato dell' accidia, onde anche colla medesima franchezza giunge pure ad asseverare che quella voce è «lezione errata » reputandola « errore d' uno de' primi copi>> sti della Commedia, lasciato correre poi da tutti gli altri ». E tutto ciò per lo scopo di dimostrare che Dante, senza dubbio, deve avere scritto nel suo autografo non accidioso ma invidioso fummo. Che se invece l'illustre professore avesse contemplata meglio l' etimologia e il conseguente significato della parola in quistione, avrebbe saputo che tal voce deve la sua derivazione al latino acedia e questo nome, alla sua volta, al verbo acere, che vuol dire inasprire, divenir agro, o simili 1. Ora, come, ad es., il vino, stando diverso tempo in balìa di sè stesso senza punto esser curato, fa sì, per le sue condizioni speciali favorite da quella circostanza, che ben tosto alteri il proprio sapore da renderlo aspro e, quindi, disgustoso, medesimamente. può affermarsi di colui il quale, non cercando di compiere il suo dovere, perchè trattenuto da pigrizia, e, anzi, passando il tempo nella più turpe inerzia, diventa quanto prima smanioso ed irrequieto per la ragione che vede gli altri operosi profittevolmente avvantaggiarsi su lui e sente sè esser sopraffatto dalla noia e dalla malinconia. Conseguenze dunque immediate di quell' indolenza, sono l'invidia e l'iracondia, i quali peccati, non è da dubitarsi che sieno più o meno inerenti all' accidioso. Se vero è ciò e quanto dichiara un Tommaso stesso allorchè espone essere una delle sei figlie dell' accidia il rancore, il quale « idem esse videtur quod odium, quod oritur ex invidia » 2, bisogna pur dire che il professore Borgognoni sbaglia non poco quando asserisce che l'accidia non consiste anco nell' ira, la quale di quella anzi giudichiamo essere la conseguenza più fortemente sentita. Più gravemente poi erra il medesimo scrittore quando, seguitando la sua critica, avverte: «Bisogna che pongano mente quelli che avessero difficoltà ad accettare il mio invidioso, che se non si trova quì punita l'invidia, sarà impossibile trovarla punita altrove; ed anche di que

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1 Però anche le due parole latine alla lor volta derivano dalle due greche insía o derissa e áxndéw o aznde, delle quali voci le prime due pure hanno lo stesso significato di quella rispet tiva latina le seconde due invece conservano il senso delle antecedenti, il senso cioè concreto dell' esser negligente, trascurato, ecc. Osservinsi in proposito le parti di cui sono esse composte e vale a dire della particella A, che, corrispondendo all' IN dei latini, quando è preposto a nomi o a verbi (come nel caso nostro) li fa negare, e di xôcíz (e quindi xnd:úw o xnséw), cura, premura, ecc. Perciò senza cura, senza premura. o incurante, ecc. ecc.

2 Op. e loc. cit. S. Tommaso dice che l'accidia come « vitium capitale habet filias sibi deputatas. Assignat autem Gregorius, 31 Moralis, sex filias acediae quae sunt malitia, rancor, pusillanimitas, desperatio, torpor circa praecepta, evagatio mentis circa illicità ».

Giornale Dantesco

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sto va tenuto conto, perchè, come dissi, non è da supporre nemmanco per sogno che Dante abbia voluto escludere dall' inferno un peccato capitale, e qual peccato!». Ciò è in parte vero e in parte del tutto falso. È vero, quando affermasi che altro luogo nell' Inferno di Dante non v' è ove puniscesi l'invidia (ben inteso isolatamente) e che Dante non può avere escluso dal suo sistema penale un peccato di tal sorta, contro il quale fortemente grida in più d'un luogo della Commedia 1. Ma per il resto ci sembrano le espressioni del Borgognoni ben false e anzi niente affatto calcolate. Secondo noi, come altrove esponemmo, l'invidia non è punita per sè in un cerchio a parte, perchè, essendo un vizio comune a diversi altri vizi coi quali accompagnasi e di alcuni anzi il movente diretto, Dante non volle, o, meglio, non credette destinargli una punizione speciale. Che invece sia esso castigato insiem. con altri peccati ne abbiamo più d'un esempio esaminando le varie pene e i puniti dell' Inferno dantesco. Serva per tutti il peccato che vien castigato nella prima delle quattro sfere del nono cerchio, dove, se relegansi dannati traditori dei lor parenti, e, quindi, se si puniscono per tal peccato, non è a dirsi come in compagnia di questo il poeta intenda d'infligger la pena anco al peccato dell' invidia, da cui il primo è spesse volte causato. Ne fa fede il nome stesso di Caina dato a quella sfera. Da ciò rilevasi adunque che non c' era ragione alcuna perchè Dante dovesse assegnare all' invidia un posto speciale, essendo un vizio troppo generale e di stretta comunanza con altri. La stessa cosa, già accennammo, egli fece della superbia, la quale pure trovasi essere o radice o compagna di vari peccati fra quelli d'incontinenza, di malizia e di bestialità. Del resto, ammettendosi per buona l'opinione del Borgognoni, che, cioè, non l'accidia ma l'invidia è punita nella palude Stigia, vorremmo sapere (anco da lui) dove s'ha da trovare e dove egli la colloca la prima, la quale, per essere un vizio capitale come altri, « non è da supporre nem manco per sogno che Dante abbia voluto escludere dall'inferno un peccato capitale ». Egli lo dichiara: « gli accidiosi li abbiamo posti altrove », vale a dire nell' Antinferno. Ma, allora, come fa a dire che « il poeta segue la sentenza degli scolastici » ? Se li segue, è certo che Dante fa dell' accidia un peccato capitale, e testè vedemmo in proposito la definizione di san Tommaso; dunque l'accidia, qual vizio capitale, deve esser punita nell' inferno propriamente detto, il cui luogo appunto è il quinto cerchio. Se quindi è vero che l'invidia trovasi esser castigata in più luoghi del « doloroso regno », sebbene non la sia per sè stessa, ma insieme coi peccati da essa originati o accompagnati; se quindi

1 Cfr. Inf., I, 110-11; VI, 49-50 e 74-75; XIII, 77-78; XV, 68, ed altri luoghi.

è pur vero che l' accidia, essendo un vizio capitale, deve avere un posto di punizione in quella triste sede, non v' ha dunque bisogno d'altre parole per dimostrare assurda l'argomentazione del menzionato scrittore e perciò, solo nel caso di tutt' altre ragioni che le sue, c'indurremo a sostituire la comune lezione di « accidioso fummo » in « invidioso fummo » 1.

Eppoi, ritenendo per certo che nello Stige è punita l' accidia, chi può dubitare che insieme con essa sia eziandio punita l'invidia, la quale commista ad un'ira coperta ben disvelasi dal senso dei soliti versi di cui ragioniamo? Anzi sono que' due i peccati che principalmente vuole il poeta denotare nell' accidioso, come quelli che riescono le più turpi conseguenze dell' accidia stessa. Più sopra dimostrammo tal cosa, nè è duopo ora il ripeterla. Aggiungi ch'è da avvertire in proposito ciò che giammai fin adesso dicemmo. Dante, manifestandoci nelle due schiere di dannati che popolano la palude Stigia gli effetti dell' ira aperta in quanto alla prima, e all' opposto gli effetti dell' ira nascosta in quanto alla seconda, vuole far conoscere come sia vero quel che assevera nel Convito. Ivi, dopo aver dichiarate le « undici vertù dal detto filosofo (Aristotele) nomate », dice che «< ciascuna di queste vertù ha due nemici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e un' altro in poco» 2. Ora, siccome la seconda di quelle due specie d'ira, cioè l'ira coperta, è più che di altri propria dell' accidioso (conforme alla sua natura), ne conseguita che migliori esempi di « nemici collaterali » della <«< mansuetudine » non poteva trovarli se non in quello dell' iroso in genere e in quello dell'iroso divenuto per accidia in ispecie. Da tutto questo adunque rilevasi che, nonostante riconoscasi che in quella detta seconda schiera di dannati mostri il poeta di punire sopra tutto l'ira e l'invidia

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e».

1 Per dimostrare ancor più il debole della critica del sig. Borgognoni vedasi ciò che più innanzi asserisce circa alla lezione in parola: «... E poi, vedete, io ci scommetterei il capo contro un nocciolo di pèsca, che in qualche codice questa variante dell' invidioso la ci ha da essere ». Ma questo non è un buon argomentare; ma pure, dato e non concesso che in alcuno dei tanti codici della divina Commedia, siavi ciò che vorrebbe il medesimo sig. Borgognoni (ma pare non sia egli riuscito a trovarne neanche uno), e che per questo crederebbe egli di aver pienamente provata la sua tesi e di poter cantare completa vittoria?... Lo stesso può dirsi in quanto alle asserzioni del prof. G. Faucher esposte in un suo opuscolo pubblicato non ha guari e dal titolo Accidioso o invidioso fummo? (ediz. Iovene, Napoli, 1892) a pag. 72 e 73. Ivi egli conferma con tutta serenità (nonostante le varie prove più o meno buone da lui recate): « Io ho tutta la convinzione che quell'accidioso sia un errore: che Dante abbia scritto invidioso; e che fra gl' innumerevoli codici della divina Commedia forse non un solo verrà giorno che, osservato con diligenza, non mi darà ragione». Dopo che egli domanda: «È opinione strana o arrischiata?». Noi in questo caso crediamo tale opinione strana e, insieme, arrischiata per le ragioni già portate e per le altre ancora che sopra produrremo.

2 Op. cit., trattato IV, capitolo XVII.

insieme, dalle quali sono dominati, non è a dirsi poi che, punendone pure la indolenza, come in ultimo debbano andare sotto il nome generico di accidiosi1. Per le quali cose non ci rimane altro che concludere dichiarando, a proposito delle asserzioni del prof. Borgognoni e di coloro che, come lui, pensarono (e vi sono di quelli che tuttora sono dello stesso sentimento), siamo sempre alle solite. Tutto dipende dal non aver essi ben compreso il senso dell' accidia, il qual senso, se avessero capito a fondo, specialmente sulla scorta di san Tommaso, non sarebbero certo giunti a conclusioni quali più e quali meno errate 2.

1 Con ciò, se intendiamo di esser d'accordo con quelli antichi e moderni commentatori, dei quali ultimi è il ch. Scartazzini (cfr. La divina Commedia di D. A. rivista e commentata, vol. I, pag. 64-5: ediz. F. A. Brockhaus, Lipsia, 1874), circa al ritenere che gli accidiosi sieno puniti nello Stige, non però niente affatto siamo per quelli, i quali, come il Bartoli (cfr. loc. cit., pag. 58 e segg.), escludendo l'accidia da quel luogo, giudicano che non altro che l'ira ivi sia castigata. Più d'una ragione sopra esposta ci muove a non accettare cotale opinione, cui accennammo anco in altra nota, e fra le altre quella per la quale ci sembra impossibile che Dante, come in tal caso ben avverte lo stesso Borgognoni (loc. cit.), « abbia fatto di quest' ira compresa o rancore (che sarebbe la seconda delle due specie d'ira da quelli ultimi critici contemplata nello Stige) uno speciale peccato da punirsi nel cerchio degli iracondi ». — A proposito del Bartoli e della sua dissertazione non è inutile l'osservare quel che dice riguardo all'opinione, già da noi accennata, del Daniello, il quale cioè vorrebbe punita l'accidia nell'Antinferno e non nel cerchio quinto. Il ch. professore adunque espone: « ... non posso nascondere che un argomento in favore dell'opinione del Daniello e degli altri che ho citati, è questo, che l'accidia è punita nel Purgatorio dantesco in modo analogo a quello onde sono puniti i vili dell'Antinferno. Questi sono condannati a correre perpetuamente dietro l'insegna; ed anche coloro che si purgano del peccato dell'accidia hanno il correre per punizione» (cfr. loc. cit., pag. 55-6). Sebbene dipoi avverta che tal pena il poeta assegnò agli uni e agli altri « per quel tanto che c'è di comune nei vili e negli accidiosi: ossia per la legge del contrappasso applicata a quelli ed a questi », pure bisogna dire che anche questa è una delle solite prove assai deboli. Poichè, se vera è da una parte quell'analogia, non è tale però da indurci ad accettare l'opinione del Daniello, avendo da un'altra parte una prova che mostrerebbe invece la rispondenza che corre fra quegli accidiosi e i dannati dello Stige, di cui trattiamo, e che, per noi, sono accidiosi. Tal prova è la seguente: che tanto i primi (cfr. Purg., XVIII, 99 e segg.) quanto i secondi (cfr. Inf., VII, 121 e segg.) sono addolorati e piangono e alludono al peccato da che furono macchiati in vita. Ora chi ben considera gli uni e gli altri facilmente scorgerà la parentela di que' fatti.

2 Ci dispiace qui dover confermare che il citato opuscolo del prof. Faucher, per quanto condotto con molta erudizione e con molte prove (non però sempre plausibili) a sostegno della sua tesi, non è bastevole a persuaderci della sua opinione. Poichè, in conchiusione, oltre ad asseverare che l'accidioso non può trovar luogo fra gl'incontinenti», dichiara che ciò avviene perchè in esso « non è lotta alcuna, ma assenza completa di ogni energia del corpo e dello spirito, divenuta abito vizioso. Esso è messo fuori, nell'Antinferno, in una condizione speciale più bassa e spregevole di qualunque altra, perchè il suo abito vizioso non ha qualità speciali, ma è disposizione ad ogni altro abito vizioso; ... ed è messo lì, senz'altra pena, senz'altro dolore che quelli nascenti dalla coscienza di questa condizione specialmente abbietta; quello

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