A proposito dei primi versi del canto VIII del Purgatorio il cav. Ronchetti manda al Giornale quest' altre sue osservazioni: « Un punto nel quale sono costretto a rimanere del mio avviso è quello del principio del canto VIII di Purgatorio, ove il professor Giovanni Franciosi [Giornale dantesco, I, 401] preferisce leggere e intendere: l'ora in cui il disìo dei naviganti si volge, e il ricorso del giorno della partenza intenerisce il core, e in cui chi trovasi in via da pochi giorni piange d'amore se ode la campana della sera; ed io invece : l'ora in cui il ricordo del giorno della partenza volge il desiderio e intenerisce il core dei naviganti, e in cui lo stesso ricordo punge l'animo del pellegrino novizio, s' egli ode, ecc. • Sorvolo sopra questioni di apprezzamento, dove non si finirebbe più di discutere, lasciando, cioè, di indagare se quattro codici soli, sui trecento e più che abbiamo della Commedia, bastino ad accreditare la variante piange per punge; se nella ripetizione del verbo piangere, e in quello stesso piangere di malinconìa vi sia o no più di Arcadia che non comporti il secolo e lo spirito fiero di Dante; se sia più spontaneo, come faccio io, [e come ora mi accorgo aver fatto anche il Betti nelle sue Postille recentemente pubblicate nella Collezione del conte Passerini] fare una costruzione sola di tutta la prima terzina, o due, come piace al Franciosi, e intendere volge per volge o per si volge; se, infine, alla unità della impressione voluta creare da Dante contribuisca meglio un periodo retto da un soggetto solo o da tre.... Mi fermo, invece, su le questioni nelle quali è a ritenere che una discussione possa riuscire più proficua, come quelle che riflettono la sintassi, cosa più afferrabile che non sia il gusto. Il Franciosi trova, nel mio modo di spiegare, due libertà poco ammissibili: l'una, che lo dì possa essere il soggetto, messo in ultimo, della prima terzina, e, in pari tempo, il soggetto sottinteso in principio della successiva e l'altra, che lo novo peregrin possa essere prima oggetto di punge e poi soggetto di ode. Potrei rispondere che in quei primordi della lingua si trovano delle sintassi cento volte più libere: ma sarebbe una risposta troppo per aria. Veramente, non è meno l'asserzione del Franciosi che Dante pone la evidenza al disopra d'ogni leggiadria di parola, e che la sintassi dantesca è uno stupore di semplicità. Al che sarebbe troppo agevole il contrapporre i luoghi, non pochi, ove Dante ha sintassi involute, come, per dirne pure qualcuno, Parad., XX, 79: Ed avvenga ch' io fossi al dubbiar mio Lì quasi vetro a lo color che il veste, Tempo aspettar, tacendo, non patio [il dubbiare]; Parad., XV, 109: Non era vinto ancora Montemalo Dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto [Montemalo]; Inferno, XVIII, 64: Così parlando [egli], il percosse un dimonio [che sarebbe tutto il caso del novo peregrin, sol che invece di se ode ci fosse il suo sinonimo, udendo]; ma non ve n'è punto bisogno: giacchè, e chi anche oggi, senza pensarvi un secondo, non direbbe, per esempio, che un babbo premia il suo figliuolo se é savio? e non sarebbe anche questa sintassi uno stupore di semplicità? Del primo luogo poi, dove lo di esercita doppia funzione di nominativo, mi soccorre altro esempio, pure di Dante, dove al V, 124 di Purgatorio è detto: Lo corpo mio gelato in su la foce Trovò l'Archian rubesto, e quel sospinse Ne l'Arno. Lì è l'Archiano che prima trova il corpo gelato, e poi lo sospinge, precisamente come quì è il giorno che volge il desio e intenerisce il core, e poi punge il pellegrino. Tutt' al più, se paresse desiderabile che la presenza del soggetto Lo di venisse anche nella seconda terzina affermata con maggiore efficacia, il rimedio sarebbe agevole, e senza nulla mutare dal testo: basterebbe leggere E ch'è lo novo peregrin: ma per me non lo crederei necessario. « Di poche altre parole sono in debito per chiarire un luogo ove probabilmente io mi sarò male espresso dicendo che nelle similitudini Dante si compiace talvolta di cenni affatto estranei ai concetti che vuol rappresentare. Con questo io non intesi affatto muovere una censura al poeta; volli solo notarne una caratteristica, un pregio anzi che egli ha comune con Omero, e che egli derivò sia dalla medesima intuizione della natura, propria dei poeti spontanei e che precedono l'aprirsi di una civiltà, sia dalla imitazione ch' ei fa di Virgilio, anche in ciò seguace di Omero. In questi poeti, assai di frequente, la similitudine non si limita ai soli punti di contatto col somigliato, ma vien considerata come un tutto organico e per sè stante e, quasi, un episodio poetico. È così che vediamo Omero che assomigliando il sangue versato dalla ferita di Menelao a l'avorio tinto in ostro aggiunge che lo desiderano molti cavalieri: ma è serbato ad un solo. È così che Virgilio, dopo paragonato il riunirsi degli Arcadi in difesa di Pallante ai fuochi che il pastore della campagna romana gitta da diverse parti nelle boscaglie e che poi si riuniscono in un solo, ci colloca in disparte, come una macchietta, il pastore stesso che se ne sta ad ammirare: Ille sedens victor flammas despectat orantes [Eneida, X, 408]. Ed è ugualmente così che al principio del XXIV d'Inferno, per null' altro che per dipingere sè stesso, prima disanimato, poi confortato, Dante ci porge tutto un paesaggio in azione, con effetto di brina che prima par neve e poi si dilegua; dov'io non so veramente vedere se non una schietta e profonda immedesimazione del poeta con la natura che lo fa compiacersi in descrizioni che pur sembrano lontane dal soggetto, benchè i commentatori, che io chiamerei volentieri parassiti dei grandi, possano andarvi frugando per trovarvi una serie infinita di sensi riposti e di arcane allegorie ». Fin qui l'egregio e valente collaboratore ed amico Ferdinando Ronchetti: alle cui parole, pur rimanendo estraneo alla questione, io mi permetto di far seguire alcune brevissime osservazioni, colle quali desidero si chiuda una controversia che sembra volere andare un po' troppo per le lunghe. Le asserzioni del professor Franciosi che Dante ama, sopra ogni altra cosa, l'evidenza, e che la sintassi dantesca è un miracolo di semplicità, non sono, credo, campate in aria, ma fondate sopra un lungo ed attento esame del poema e avvalorate dal consenso dei più autorevoli dantisti antichi e moderni. I luoghi poi che il Ronchetti adduce per negare a Dante il vanto della semplicità vigorosa non mi pare sian bene scelti; chè il patio del XX canto della terza cantica, verso 79, di necessità si riferisce subito al dubbiare: nè lì io trovo altra voce a cui possa collegarsi ragionevolmente. Lo stesso è a dirsi del che dove si parla di Montemalo: evidentemente, il vinto non può, nella mente di chi ben legga, prendere il posto di vittorioso per la contradizione che nol consente. E molto meno si addice al caso l'esempio del demonio sferzante [Inf., XVIII, 64], dacchè il parlando è quale il dormendo del primo sonetto della Vita nuova, e vale parlante. Or io domando nella proposizione: Un demonio lo percosse parlante così, dov'è l'involuto e I II Franciosi ha su questo argomento una speciale memoria nella collezione de' suoi Scritti danteschi (Modena, 1871, Firenze, 1876 e Parma, 1889). l'incerto? L'asso degli esempi che il Ronchetti adduce dovrebb' essere l'ultimo: quello dell'Archian rubesto; ma anche qui, o io m'inganno, egli non coglie nel segno: perchè trovò e sospinge si stringono così da presso e così fortemente coll' Archian rubesto che non mi par forza di sofista atta a disgiungerli da quello. In quanto poi a ciò che il Ronchetti discorre intorno alle similitudini dantesche, molto sarebbe da osservare: ma perchè qui è mio compito di terminare e non di prolungare la questione, mi limiterò a dire che troppa e troppo essenziale differenza si interpone tra l'arte omerica e la vergiliana e l'arte dantesca: e se sta bene che in Omero e in Vergilio l'elemento obbiettivo e l'esteriorità sovrabbondino, in Dante questo sarebbe più presto un difetto che un pregio. IL DIRETTORE. VARIETÀ Tre passi della divina Commedia nell' HENRIADE e nella PUCELLE D' ORLEANS del Voltaire. Fu già notato giustamente che dal conflitto delle opinioni diverse nasce la verità; può credersi pure quindi che più evidente anco e perspicua la bellezza del pari scaturisca in poetiche immagini, con altre, lor originali o copie; donde il credito conseguito dagli studi com. parativi e l'uso loro costante ed efficace nelle scienze non meno che nelle lettere conducevole ad avverare il noto adagio latino: Nihil sub sole novi, e l'utilità del libero scambio delle idee, che non intende conoscere ostacoli e barriere nè di tempo, nè di luogo, siccome l'altro delle merci, in buona pace de' protezionisti, che s'arrovellano con ogni possa, ma invano a ricostruirlo qua e là, non vuol saperne affatto di muro della China sterilmente interposto fra le nazioni a impedirne gli amichevoli commerciali rapporti, muro oggimai appieno demolito dal genio universale del progresso, fecondamente affratellatore de' varî popoli del mondo. Ma, per venire al proposito nostro, cui mercè il breve preambolo ci proponevamo di schiudere la via, giova richiamare anzitutto l'attenzione dei lettori su tre passi importanti della divina Commedia, de' quali il 1°: nell' Inferno, canto II, v. 127-29 (similitudine de' fioretti); il 2°: nel Purgatorio, canto II, v. 76-84 (vano tentativo di Dante per abbracciare l'amico suo Casella) e il 3o nel Paradiso, canto IV, v. 1-6 (comparazioni dell'uomo tra due cibi, dell' agnello tra due lupi famelici e del cane tra due daini.) Però toccando appena di volo del primo passo, (perchè, troppo noto e studiato) in attinenza con due altri del Voltaire Henriade c. III, v. 212-18, e Pucelle d' Orléans c. XIII, v. 497-500 per non portar vasi a Samo, nottole in Atene, e cavoli a Legnaja, ci tratteremo a parlare un poco più degli altri due passi di Dante, e del contenuto loro. Rispetto al primo passo torna superfluo notare che la predetta similitudine, salvo la differenza fra il genere e la specie, fra il singolare e il plurale, ricorda l'altra della rosa (Parad., c. XXII, v. 50-52) e il confronto fra l'animo umano e i fioretti, o la rosa può spiegarsi mercè l'attinenza che passa fra l'uomo e la pianta e indi tra il fiore e l'animo di lui, tanto più che diciamo metaforicamente: olezzo di virtù, odore di santità, e che in greco una stessa parola vale odore, vapore, animo, e timo (fiore) cioè ups. Col Venturi (Similitudini dantesche, pag. 87-88) si può richiamare alle due imitazioni del Poliziano, Stanze, II, 38, 6, e del Tasso Gerus. lib., IV, 75, 3, col Biagioli (Commento alla d. C.) al Boccaccio, Filostrato, che riprodusse quasi integralmente la similitudine dantesca p. 8, ott. 8o, e col Tommasèo (Comm. alla d. C) al Berni, Orl. Inn., I, XII, 86, Poliziano, Epist., lib. VIII (?) Marino Adone, canto XVII, ott. 63 2. Solo il principio della similitudine dell' Henriade si riconnette alla dantesca, come anche l'intiera comparazione della Pucelle d'Orléans salvo la causa diversa del reclinarsi del fiore (altra differenza dalla dantesca, differenza che occorre pure nella precedente volteriana) qui ne si offrono il caldo, invece del freddo, il bisogno, invano quasi espresso dal fiore, di riprender vita e colori sotto l'azione di umidi vapori, laddove in Dante realmente i fioretti si aprono e drizzano sullo stelo in virtù della vivifica luce del sole. La predetta similitudine dell' Henriade occorre nel predetto luogo citato secondo l'edizione del 1730, laddove invece secondo l'edizione del 1723 con altri versi precedenti e susseguenti (esclusi al contrario in quella) 3 si trova nel canto IV dello stesso poema versi 27-34; perchè possano i lettori poi giudicare dell' attinenza fra la similitudine dantesca e le due volteriane, riporteremo anzitutto la prima, poi la seconda intieramente (benchè solo il principio coincida con quella) per presentarla nella sua interezza, quindi l'altra della Pucelle d'Orléans; ecco la nota similitudine dantesca e le due volteriane: Come i fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poichè 'l sol l'imbianca, si drizzan tutti aperti in loro stelo, ecc. J'ordonnais, mais en vain, qu'on epargnât Ioyeuse, pâle et déjà couvert des ombres du trépas. Telle une tendre fleur 4 qu'un matin voit éclore des baisers du zéphyr et des pleurs de l'aurore, Telle une fleur des feux du jour sêchée la tête basse, et la tige penchée, qui lui rendaient la vie et les couleurs. Invece nel c. IV, luogo citato, precedono questi quattro versi : Respectez de Henri la valeur invincible! Mais il tombe déjà sous cette main terrible; ses beaux yeux sont noyés dans l'ombre du trépas et son sang qui le couvre efface ses appas. Eccone qui appresso le versioni rispettive italiane: 1 Sannr. dhúmá, lit. dumai, sl. dümù, alto-ted. daum, teum, vapore; ibernico, dluimb, nube, bujo, fumo; lat. fumus. 2 Per queste similitudini salvo quelle del Voltaire vedi l' Appendice al nostro articolo. 3 L'autore indicò nella sua Idee de l' Henriade il motivo di sifatta esclusione. 4 Concordante col dantesco: fioretti. 5 La 2 parte della similitudine ne richiama tosto un' altra ariostesca. Di Joyeuse la vita invano chiesi fra le braccia de' miei pallido il vidi, e già coperto dagli orror di morte, tale un tenero fior, cui sul mattino fan di zefiro i baci e dell' aurora i rugiadosi pianti, erger la fronte, piace un istante all'occhio, e poscia cade o di fiero aquilon cede agl' insulti Tale in campo scoperto un fior talora, e su l'arido stelo il capo inchina. e la vita e il color, la contadina che morto il vede e colla testa bassa, reclina il guardo disprezzante e passa. 2 È superfluo qui notare che il 2.o emistichio del 6.o v. e i due seguenti contengono un'inu. tile aggiunta del traduttore, che invece d'indurre leggiadria nell'immagine originale, gliene toglie, giacchè, ciò che si tace, nè si esclude, poi espresso riesce freddo e scolorito. Vuolsi rilevare ancora che la voce dalla flessione diminutiva fioretti, resa nell'imitazione dal Voltaire con l'aggettivo tendre unito alla parola fleur, oltre all' indicare la gracilità e debolezza dei fiori che li espone maggiormente all' influsso funesto del notturno gelo, si riconnette, per l'associazione dell' idee, al termine preso per confronto (fioretti) il termine proprio (ani. ma di Dante) che per dirla con Virgilio (Canto II. Inf., v. 45 e seg.) era da viltate offesa La qual molte fiate l' uomo ingombra sì che d'onrata impresa lo rivolve Infatti la similitudine è preceduta da questi versi (122-23): Perchè tanta viltà nel core allette? Susseguono poi i v. 130.132: Tal mi fec' io di mia virtute stanca 3 e tanto buon ardir al cor mi corse ch' io cominciai, come persona franca ecc. Il secondo tratto dantesco, sul quale intendiamo richiamare l'attenzione dei lettori, comprende l'incontro di Dante e Casella, e il vano triplice tentativo di abbracciarlo affine di rispondere al suo abbraccio nel c. II del Purgatorio, v. 74-85: Io vidi una di lor 4 trarresi avante per abbracciarmi con sì grande affetto 1 L' Enriade, poema eroico del signor De Voltaire, tradotto in versi [italiani dal signor Antigono De Villa, Neuchatel, 1772, c. III, v. 282-90 della versione, pag. 51. 2 La Pulcella d'Orléans del signor di Voltaire tradotta da Vincenzo Monti 2a ediz. Livorno, Fr. Vigo, 1880, c. XIII, ott. 61, pag. 270; sopprimo i versi anteriori, perchè troppo liberi. 3 Stanco vale che ha scemato, affievolito le forze, onde stancare in Dante per mancare, stanco per sinistro, detto pur manco, mancino (intendi di forze) per difetto di esercizio della rispettiva parte del corpo. 4 Dell' anime testè sbarcate dalla navicella dell' angelo sul lido del purgatorio. |