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Nel I, dell' Inferno (v. 65-66) Dante prega Virgilio, qualunque egli sia od ombra o uomo certo, reale; però nel III (v. 101-102) dice dell'ombre:

Cangiâr colore e dibattero i denti

ratto che inteser le parole crude. I

Ecco, perchè Dante appella l'anime (v. 77):

... Ombre vane, fuor che nell' aspetto,

e nel VI dell' Inferno, v. 35-36 leggiamo:

Ponevam le piante

sopra lor vanità che par persona.

Questa è reminiscenza delle parole che l'ombra di Patroclo dice ad Achille, Iliade, c. XXIII, v. 90-91 traduzione di V. Monti:

Respinto

io ne son dalle vane ombre defunte.

Dante però, sapendo che la poesia rifugge dall' immateriale, dètte alle anime un corpo apparente, affine di esprimerne vie meglio i sentimenti immediati mercè i fisici effetti; nel XXVI del Purgatorio, per bocca del poeta Stazio, v. 79-105, ci spiega come le anime dopo morte, giunte a una delle due rive, o dell'Acheronte, o della foce del Tevere, facciano dell'aria, circostante un corpo aereo, e, perchè da esso traggono l'apparenza loro, e si rendono per questo visibili, perciò sono chiamate ombre, e come di tale nuova materia si ricostruiscano gli organi de' singoli sensi fino a quel della vista, il più complicato di tutti.

Qui giova pur udire quanto ci espone Omero in proposito: L'individuo e il corpo sono, secondo esso, identici; che cosa è dunque mai ciò che lascia sussistere la morte? Un'anima, una vana immagine, che non appena la vita ha abbandonato le ossa, sfugge, e attorno vaga siccome un sogno; quest'ombra leggera, dopo la morte, non ha più sensazioni; ma essa non può varcare le soglie del Tartaro, se il corpo dell' estinto non riceve le onoranze della sepoltura. Fino allora ella soffre, ella geme, e ritorna sulla terra; quando poi la fiamma del rogo abbia divorato le carni e le ossa, che i nervi non sostengano più, essa entra nel regno dei morti, e Proserpina la priva della conoscenza e del pensiero. Affine di reintegrare la memoria in quest' immagine inerte e vana occorre una cerimonia d'evocazione. Ma questo corto e fugace richiamo alla vita non risveglia in lei che rammarico, ed essa indi arde impaziente di rientrare nelle tenebre eterne.

Mi sono permesso questa digressione sulla tenuità dell'ombre, secondo Omero, per cercar la ragione della similitudine, cui ricorre il poeta, affine di rappresentarci meglio la scomparsa di Anticlea, madre di Ulisse al suo sguardo; questa breve similitudine, come si avrà oc

1 Cioè minaccevoli di Caronte.

2 E anche di Patroclo all' occhio di Achille.

Giornale Dantesco

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casione di vedere, occorre in due identici passi di Virgilio, in uno del Tasso e, finalmente, in uno del Voltaire, dopo il vano tentativo di abbracciar l'ombra, che poi dilegua; manca invece in Dante. I due tratti pocanzi citati di Omero, ispiratore de' singoli poeti seguenti, sono uno nell' Odissea c. XI, v. 204 e seg. (incontro di Anticlea e d'Ulisse) e l'altro nell' Iliade, c. XXIII, v. 99-101 (incontro di Patroclo e d'Achille); ecco il primo:

Ο ἔφατ'· αὐτὰρ ἔγωγ' 1 ἔθελον φρεσὶ μερμηρίξας
μητρὸς ἐμῆς ψυχὴν ἑλέειν κατατεθνηκυίης"

τρὶς μὲν ἐφωρμήθην, ἐλέειν τέ με θυμὸς ανώγειν,

τρὶς δέ μοι ἐκ χειρῶν σκιῇ εἴκελον ἢ καὶ ἐνείρῳ
ἔπτατ' κ. τ. λ.

La traduzione letterale del brano sarebbe questa:

Cosi ella (Anticlea) disse, ma io poi volevo nell' anima turbato
della madre mia l' anima prendere (stringere) estinta;

tre volte poi mi lanciai (verso lei) a strignerla il desiderio movendomi,

e tre volte poi a me dalle braccia a un'ombra simile e a un sogno
volò via, ecc.

Ecco la versione metrica del Pindemonte c. XI Odiss., v. 265-69:

Io, pensando tra me, l' estinta madre
volea stringermi al sen: tre volte corsi,
quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,
e tre volte m' usci fuor delle braccie,
come nebbia sottile, o lieve sogno.

11 secondo passo d' Omero è poi questo: Iliade, c. XXIII, v. 99-101:

Ὣς ἄρα φωνήσας ὠρέξατο χερσὶ φίλησιν,

Traduzione letterale:

οὐδ ̓ ἔλαβε ψυχὴ δὲ κατὰ χθονός ηΰτε καπνὸς
ᾤχετο τετριγυῖα κ. τ. λ. 3

Cosi dunque, avendo parlato, protese le mani amate, (desiose)

ma nol prese (strinse); l'anima poi giù sotterra come un vapore (fumo),
disparve stridente, ecc.

Ecco la versione metrica del Monti, Iliade, c. XXIII, v. 126-29:

Così dicendo, coll' aperte braccia
amoroso avventossi, e nulla strinse,
che stridendo calò l'ombra sotterra,
e svani come fumo, ecc.

L'imagine spettante all'anima: svanì come fumo (o vapore) è giustificata dal doppio senso, di cui la voce anima in greco ouués è suscettiva, cioè di vapore, fumo e di anima, oltrechè di odore, come sopra già si è osservato.

I due passi di Virgilio, ne' quali però si ripetono testualmente i medesimi versi di esso,

1 Ad Alcinoo, nei canti 9-12 Ulisse narra i propri casi, come a Didone Enea nell' Eneide.

2 L'ombra di Patroclo qui compare ad Achille, gli parla, si lagna seco lui d'essere stata obliata, gli risponde Achille, e tenta invano d'abbracciarlo.

fatto presso di lui molto comune, sono uno nel VI dell' Eneide, v. 700-702 (incontro di Enea col padre Anchise):

Ter conatus ibi collo dare brachia circum,

ter frustra comprensa manus effugit imago,

par levibus ventis, volucrique simillima somno.

L'altro passo è formato dai tre predetti versi che sono i 792-94 del c. II, dove Enea incontra l'ombra della moglie Creusa; ma la traduzione metrica del Caro varia un po' ne' due brani; il primo è reso così nei v. 1047-50 della versione:

. . . Distender le palme;

e tre volte abbracciandolo, altrettante
(come vento stringesse o fumo, o sogno)
se ne tornò con, le man vuote al petto.

Il secondo brano v. 1279-82 della traduzione è questo:

Me l'avventai, per ritenerla al collo
e, tre volte abbracciandola, altrettante

me ne tornai con le man vote al petto.

Nel Tasso, Gerusalemme liberata, canto XIV, ott. VI, v. 5-8, Ugone di Valois, conte del Vermandese, fratello del re di Francia, in una visione in sogno si presenta dinanzi a Goffredo, che invano tenta d'abbracciarlo; ecco il tratto 1:

Gli 2 scendea poi con dolce amico affetto

tre fiate le braccia al collo intorno,

e tre fiate invan cinta l' immago

fuggia qual leve sogno od aër vago.

ott. VII, v. 1-4:

Sorridea quegli: «E, non già come credi

(dicea) son cinto di terrena veste,

semplice forma e nudo spirto vedi

qui cittadin della città celeste ».

Ecco finalmente lo squarcio dell' Henriade del Voltaire c. VII, v. 273-78 (soppressi poi nelle successive edizioni) secondo l'edizione del 1723:

Antoine de Navarre, avec des yeux surpris,

voit Henri qui s' avance, et reconnaît son fils:
le héros attendri tombe aux pieds de sua père;
trois fois il tend les bras à cette ombre si chère,
trois fois son père échappe à ses embrassements,
tel qu'un léger nuage écarté par les vents.

Facendo un riscontro della similitudine finale de' predetti citati squarci, salvo quello dantesco in cui manca, si trova pienamente identica in tutti.

Il triplice vano tentativo dell'abbraccio richiama al numero tre insieme al nove conse crati dalla religione cristiana nella trinità di Dio, e nei nove cori degli angeli questi nu meri quindi occorrono assai frequenti; i nove cori si dividono in tre gerarchie ternarie e il conte Ugolino parimente per tre dì chiama i figli e i nipoti invano, finchè più che dall' an

1 Il Tasso traduce quasi letteralmente Virgilio.

2 Cioè ad esso Ugone di Valois,

goscia, estenuato dal digiuno muore. Così pure i nove cerchi dell' Inferno corrispondono a nove generi di colpe che si riducono alle tre disposizioni che il Ciel non vuole: Incontinenza, malizia e la matta Bestialitade (Inf., XI, v. 81-83) e ai sette primi cieli del Paradiso corrispondono le sette arti del trivio e del quadrivio, e nel I del Paradiso Dante ci rappresenta il sole, allorchè si trova nel segno dell' Ariete, Che quattro cerchi giugne con tre croci (v. 39), ecc. Il terzo passo della d. C., non meno degno di osservazione, ricorre sul principio del IV del Paradiso, v. 1-9, eccolo:

Intra duo cibi distanti e moventi

d'un modo, prima si morria di fame,
che liber uom l'un si recasse a' denti. I

Si si starebbe un agno intra duo brame
di fieri lupi igualmente temendo
si si starebbe un cane intra duo dame.

Perchè, s' io mi tacea, me non riprendo,.
dalli miei dubbi d'un modo sospinto,
poichè era necessario, nè commendo.

Il germe della comparazione e del concetto dantesco, così il Casini, è in Tommaso d'Aquino, Summa theologica, P. 5, Sec., quaest. XIII, art. 6: Si aliqua duo sunt penitus aequalia, non magis movetur homo ad unum quam ad aliud; sicut famelicus, si habet cibum aequaliter appetibilem in diversis partibus, et secundum aequalem distantiam, non magis movetur ad unum quam ad alterum ».

Ognuno rammenta qui l'asino di Buridano, particolare che mantenne il Voltaire nella sua Pucelle d' Orléans, conformandosi al carattere giocoso del suo poema eroicomico, c. XII, V. 16-25:

Connaissez-vous cette histoire frivole

d'un certain âne, fameux dans l'école ?

Dans l'écurie on vint lui présenter
pour son dîner deux mesures égales,
de même forme, à pareils intervales;

de deux côtés l'âne se vit tenter

egalement, et dressant ses oreilles
juste au milieu des deux formes pareilles,

de l'équilibre accomplissant les loix,

mourut de faim, de peur de faire un choix.

V. Monti, nella predetta versione del citato poema francese, così voltò i versi del Voltaire nella chiusa della 3. ott. e nella intiera 4.:

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IV.

Furo esposte da pranzo al poveretto due misure di biada in tutto eguali, equidistanti e d' uno stesso aspetto. L'asino, attratto da due brame eguali, dritti gli orecchi, immobile interdetto nel giusto mezzo di due forze eguali, per legge d' equilibrio e per timore

di scèr male, di fame alfin si muore.

Giova pur notare l'imitazione che il Montaigne ne' proprii Essais fece in prosa di tale immagine dantesca: « C'est une plaisante imagination, de concevoir un esprit balancé justement entre deux pareils ennuis; car il est indubitable, qu'il ne prendra jamais parti, d'autant que l'application, et le choix porte inegalité de prix: et qui nous logerait entre la bouteille et le jambon, avec égal appétit de boire et de manger, il n'y aurait sans doute remède que de mourir de soif et de faim»; ed eccone la ragione secondo il medesimo scrittore: il se pourrait dire, ce me semble, plutôt qu'aucune chose ne se présente à nous, où il n'y ait quelque différence, pour legère, qu'elle soit, et que ou à la vue, ou à l'attouchement, il y ait toujours quelque chose qui nous tente et nous attire, quoique ce soit imperceptiblement. Pareillement qui présupposera une fisselle également forte partout, il est impossible qu'elle rompe, car par où voulez vous que la faucée commence? Et de rompre par tout ensemble, il n'est pas en nature. »

Il Certaldese, nel Corbaccio, dice pure:

Due cose con pari desiderio mi stimolano, ciascuna ch' io di lei dimandi e perciò insomma domanderò d'amendue. » Così, chiosa qui il Biagioli, uscirebbe d'incertezza il ladro fra due borse di danari; così ricorderemo noi un altro ladro, che, secondo un aneddoto popolare, vista in una chiesa una bella lampada d'argento, la tolse via e la portò seco dopo d'aver detto: Chi ce la vuole, e chi non ce la vuole, questi frati fanno ammattire; è meglio che me la prenda per me». San Tommaso scioglie invece la questione dicendo che in un cibo dovrebbe alla fine l'uomo trovare una condizione che lo movesse più forte, e ciò avviene sempre; il Voltaire poi terminata la similitudine rivolgendosi alle donne e donzelle dice (v. 26 e seg.):

N'imitez point cette sotte philosophie,
daignez plutôt honorer tout d'un temps
de vos bontés vos deux jeunes Amants,
et gardez vous de risquer votre vie.

Il Monti ott. 5. li traduce così:

Questa filosofia non imitate,

e tutti e due, piuttosto a un tempo istesso
consolate gli amanti ed accordate
della vostra bontà pieno il possesso.
Come l'asino insomma non rischiate
la vostra vita per onor del sesso.

La prima delle similitudini dantesche ricorre pure in una delle Prediche di fra Giordano da Rivalto.

Nella seconda similitudine dantesca è d'ambe le parti uguale il timore, nella terza, la voglia, ma questa similitudine, secondo il Tommasèo, è la più propria, chè niun filosofo ha disputato mai se un agnello tra due lupi tema ugualmente di questo e di quello. La tema qui non si divide, ma confusa, raddoppia.

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