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"AMOR, CHE MOVI TUA VIRTU' DAL CIELO.,,

Così comincia una delle più belle canzoni amorose di Dante; che credo però (singolare privilegio di questo poeta) più gustata che non capita. Ne dirò due parole, ma più per invogliare altri, che per esaurire il tema; a che si richiederebbe innanzi tutto quella cognizione di tutti gli autori che ne trattarono, ch' io sono ben lungi di possedere. Tengo sott' occhio l'Arrivabene (Mantova, Caranenti, 1823; ove la Canzone è la 2a del 3° libro) il Fraticelli (Firenze, Barbèra, 1856, Canz. 12), il Costèro (Milano, Sonzogno, 1878, Canz. 9), il Serafini (Firenze, Barbèra, 1883, Canz. 14); e ad essi quindi mi riferirò nel mio breve comento, che farò precedere dal testo com'io lo leggo, e da una parafrasi corrispondente: il mezzo migliore, secondo me, perchè in un autore che si vuol capire tutto, non sia pretermesso il più piccolo punto.

I.

Amor, che movi tua virtù dal cielo,
Come il Sol, lo splendore

(Che là s' apprende più lo suo valore
Dove più nobiltà suo raggio trova;
5 E come el fuga oscuritate e gelo,
Così, alto Signore,

Tu cacci la viltate altrui del core,
Nè ira contra te fa lunga prova),
Da te convien che ciascun ben si mova
10 Per lo qual si travaglia il mondo tutto;
Senza te è distrutto

Quanto avemo in potenza di ben fare;
Come pintura in tenebrosa parte,
Che non si può mostrare

15 Ne dar diletto di color nè d'arte.

O Amore, che trai da Dio la tua virtù, come lo splendore la trae dal Sole (e il valore di questo fa più presa in quei corpi dove il suo raggio trova più nobiltà; e com' esso mette in fuga le tenebre e il gelo, così, o potentissimo Amore, tu scacci altrui dal cuore la viltà, nè l'ira può contro te durare lungamente); da te conviene che proceda ogni felicità, nella ricerca della quale appunto tutto il mondo si affatica; senza di te tutto quello che siamo capaci a fare di bene si rimane sterile e inoperoso; come una pittura che sia collocata in luogo oscuro, la quale non può mostrarsi, e recar quindi diletto col magistero sia del colore sia del disegno.

1. È in questa strofe una sublime invocazione all' Amore, concepito come l'anima del mondo morale, al modo che il Sole è l'anima del mondo

fisico; e vi è anche adombrata quella teoria d'amore che sovente Dante sviluppa nella Commedia, e che è la base, la parola d'ordine, secondo la quale dovrebbe pure, a sua detta, seguire l'universo rinnovamento umano.

2. Guidato da siffatto concetto, e così dalla continuata allegoria che può considerarsi reggere tutta la canzone, dell' Amore che emana da Dio con la luce che emana dal Sole, e rammentando anche, essere il Sole (nelle idee d'allora) fonte d'ogni luce così in cielo che in terra, io, anzichè spiegare coi più, Come il Sol lo splendore, come il Sole deriva dal cielo il suo splendore (Fraticelli), intesi invece, come il Sole move lo splendore; con libertà di sintassi invero, ma giustificata dalla frequenza con cui nelie origini delle lingue, e in Dante segnatamente, si verificano dei riferimenti, più che alle espressioni, ai concetti nelle medesime contenuti; delle cosidette costruzioni a senso. E per lo stesso motivo, nel 1° v., il cielo intesi addirittura Dio, è non, come fa il Serafini, le intelligenze preposte alla circolazione di Venere, parendomi ciò impiccolire troppo il concetto generico da cui Dante piglia le mosse, restringendolo addirittura dal bel principio a quello dell'amor fisico, mentre questo, per Dante, non sarebbe qui che una applicazione od esplicazione della gran legge dell' amore universale.

3. S'apprende, spiego, s' appiglia, troppo freddo suonandomi il, si conosce, del Fraticelli.

Non leggo poi col Serafini come 'l, potendo esso tradursi, come lo, nel qual caso il Sole, anzichè soggetto, diverrebbe oggetto della proposizione.

Prendo dal Serafini la parentesi, che mi sembra meglio rendere il carattere meramente incidentale e spiegativo delle proposizioni ch'essa racchiude; ma per ciò appunto, invece che a trora, io la chiudo più sotto, come, stando anzi al suo comento, si capisce che lo stesso Serafini l'avrebbe chiusa, se avesse potuto sopravvegliare la stampa, e rendere, ciò che anche altrove difetta, il suo testo conforme al suo comento. Se la 2a parte infatti rimanesse fuori della parentesi, e così spettasse alla invocazione principale, gramatica vorrebbe si dicesse, non, Amor che movi... E... Tu cacci, ma Discacci, senza il tu. E quanto poi alla invocazione, alto Signore, divenuta, così, incidentale, anzichè collegata alla 1., Amor che movi, essa può bene spiegarsi come una delle tante che occorrono anche nella Commedia per semplice figura retorica; valga ad es. al Parad., VI, 51: L'alpestre rocce, Po, di che tu labi.

Ma per lo stesso carattere, meramente esplicativo, anzichè dimostrativo dell' inciso, invece di Chè là preferisco leggere Che là, dando a che... lo suo valore il significato spedito, idiotistico, di, lo cui valore. Veramente Serafini non lo riferisce al Sole ma al cielo, spiegando, perchè lo splen-dore del cielo si apprende più nel Sole, più disposto a riceverlo; ma con ciò mi pare che, oltre urtare la gramatica, la quale richiede che il sogget

to di trova sia il medesimo del successivo fuga, e di questo evidentemente è il Sole, si venga a sconvolgere tutto l'ordine del raffronto e a rendere poi il concetto vuoto d'ogni conseguenza. mentre al mio modo d'intenderlo se ne ha subito applicazione alla strofa seguente nel verso: Con più diletto quanto è più piacente.

E tutto l'inciso si vede diretto a far comprendere, e quasi anticipare, due dei concetti che aleggiano in tutta la canzone: l'uno, manifestarsi più la forza d'Amore dove cade in più bella persona, come la forza del Sole più si appiglia dove il suo raggio colpisce cosa più nobile; l'altro, che Amore rende generosi e benevoli, come il Sole fa tutto splendido e caldo. Ove si noti col Serafini, oscuritate e gelo fugati dal Sole, come ira e viltate dall' Amore. Dante, è vero, mette viltate prima in corrispondenza a gelo che vien dopo; ma è questa una delle libertà da lui preferite e di cui gli esempi nella Comedia sono frequentissimi. Il gelo rammenta i fioretti dal notturno gelo Chinati e chiusi dell' Inf., II, 127, paragonati alla viltà del poeta al verso 122; e l'oscuritate è all' ira quello che è il fumo che la punisce nel Purgatorio (XVI) e in parte anche nell' Inferno (VII-IX).

8. Nè ira contra te fa lunga prova. Qual fede avea quell'uomo nel graduale miglioramento dell'umanità per la legge d'amore! Non potrebbe averla maggiore uno dei moderni membri del comitato per la pace.

9. Da te convien. Più delle citazioni che fa il Serafini del XVIII e XXVII di Purgatorio mi parrebbe opportuna quella del XVI, 85. Esce di mano a Lui che la vagheggia.... ove appunto campeggiano questi concetti: si ama ciò che si desidera, di ciò che si ama, si gode.

11. Senza te è distrutto Quanto avemo in potenza di ben fare. Intendilo non nel solo campo pratico, ma anche nell'intellettivo, memore del famoso Io mi son un che quando Amore spira noto (Purg., XXIV, 53). Nel campo pratico poi, quasi il medesimo concetto vediamo espresso al Purg., XIX, 121 Come avarizia spense a ciascun bene Lo nostro amore, onde operar perdési e per Dante l'avarizia era la suprema antitesi dell' Amore.

14. Che non si può mostrare-Men bene il Costèro traduce, dove nè si possa mostrare; la corrispondenza coll' è distrutto richiedendo può, e non, possa. Il concetto è chiaro: senza l'Amore, la potenza che abbiamo di fare il bene si rimane inefficace, come senza la luce (continua sempre l'allegoria) si rimane inefficace ogni bellezza di una pittura. La similitudine poi è un'altra prova che Dante di pittura assai dilettavasi; e nella sua profondità, sotto una ingenuità apparente, ricorda il manzoniano: Come la luce rapida Piore di cosa in cosa E i color rarii suscita Dorunque si riposa (La Pentecoste).

Féremi il core sempre la tua luce,
Come il raggio la stella,

Poichè l'anima mia fu fatta ancella
De la tua potestà primieramente.

5 Onde à vita un pensier che mi conduce
Con sua dolce favella

A rimirar ciascuna cosa bella

Con più diletto quanto è più piacente. Per questo mio guardar m' è ne la mente 10 Una giovine entrata, che m'à preso;

Ed ammi in fiamma acceso

Com' aqua per chiarezza foco accende;
Perchè nel suo venir li raggi tuoi,
Con li quai mi risplende,

15 Saliron tutti su negli occhi suoi.`

2.

Sempre, o Amore, mi ferisce il cuore la tua luce, come i raggi del Sole illuminano le stelle, dal bel principio che la mia anima, ap. pena creata, fu fatta soggetta alla tua potestà. Di qui una forza interna, una, direi, sugge stione, che con dolce invito mi spinge a guardare, come da te investita, ogni cosa bella, e con tanto più piacere quanto essa ha di bellezza. Per questo mio guardare m'è entrata in cuore una giovine che m'ha innamorato ; e per riflesso tuo mi ha destato in cuore una fiamma, al modo che un fuoco ne accende nell'acqua un altro per la costei trasparenza: e dico per tuo riflesso, giacchè appena essa mi si presentò, i tuoi raggi (per mezzo dei quali ella splende innanzi a me), tutti si concentrarono negli occhi di lei.

2. In conformită al raffronto che domina tutta la Canzone, per la stella io intendo col Costèro le stelle, e non il Sole col Fraticelli, la cui traduzione già confutai ne' miei Venticinque Appunti, al verso Luceran gli occhi suoi più che la stella (Inf., II, 55). E raggio antonomasticamente per raggio di Sole è del resto frequente anche nella Commedia.

4. Primieramente Costèro traduce, fin dal primo momento, ma non fa capire che dee legarsi col Poiché, onde solo si ottiene una ragionevole sintassi. Il Serafini poi lo intende, da che prima m'innamorai di Beatrice, per inferirne che qui trattisi di altra donna, che per lui sarebbe la Gentucca lucchese. Ma potrebbe anche trovarvisi l'allusione generica che io proposi nella mia interpretazione, e che sarebbe appoggiata al già citato Esce di mano a Lui.

6. Con sua dolce favella Convenendo io pure, per le ragioni del Serafini, e come meglio in seguito, trattarsi qui, non di un amore allegorico alla Filosofia, ma di uno reale alla Gentucca, questa frase parrebbe quasi diretta a scusa della infedeltà così verso Beatrice che verso Gemma e aiuterebbe a far comprendere il famoso Quanti dolci pensier, quanto disio del V, 113 dell' Inferno.

10. Una giovine entrata Domando io come si fa a sostenere col Fraticelli che Dante voglia qui accennare alla Filosofia, chiamandola giorine, perchè da poco egli se n'è innamorato! Nel Comento alla precedente canzone Io son venuto al punto della rota, egli accenna bensì che tanto nel Convivio, quanto in altre canzoni Dante ha chiamato giovine la Filosofia non

rispetto a lei, ma rispetto al picciol tempo dacchè di lei si era invaghito; ma, se è per le altre canzoni, credo occorrerà la stessa dimostrazione che qui, se pel Convivio, avrebbe dovuto citare il passo esplicitamente, giacchè in nessuna ch'io ricordi delle canzoni ivi comentate, la Filosofia è chiamata giovine.

Non parlo di quelli che, dubitando pur della realtà di Beatrice, vogliono allegoriche le stesse canzoni della Vita Nuova; il Costèro fra gli altri, tra le altre ragioni adducendo, che nulla ne traspare di quando Beatrice si sarebbe maritata, che pure per l'amante avrebbe dovuto essere un fatto di suprema importanza. Ma chi non sa ch'era di quell'epoca cavalleresca, ove gli amori eran tutti idealizzati, lo astrarre affatto da simili prosaiche realità? E il Petrarca, ne parla forse egli mai?

Ma io vado anche più in là del Serafini: io sostengo che le stesse canzoni del Convivio, salvo Le dolci rime d'amor ch' io solia, ove l'esclusivo intento morale è evidente, furono in origine composte per donna o donne reali, e che poi, sia per essere stati amori meramente ideali o platonici, sia per nascondere le sue infedeltà, egli li abbia fatti diventare allegorici alla Filosofia; pressapoco come il Tasso, il quale, dopo composta la sua Gerusalemme, per servire al gusto dell' epoca, vi appiccicò poi la sua brava allegoria, alla quale nel comporre, si può giurare, ed è del resto confermato dalle stesse sue lettere, ch'egli non aveva nulla affatto pensato.

Ritornando a Dante: anima energica qual egli era, dovea essere animal disposta ad amare; e, come dopo la morte di Beatrice, così nella solitudine e nelle traversie dell' esilio (cui questa canzone probabilmente appartiene) è ben da compatire se cercò consolazione in affetti più o men corrisposti, e se all'animo suo ardente non bastò sempre la imagine del primo ideale, o quella del debito amore Lo qual dovea la Gemma sua far lieta. E del resto di simili colpe si accusa egli stesso nel XXX e XXXI di Purgatorio; i quali canti si fingono bensì, come tutto il poema, concepiti prima dell'esilio, ma, come di altri accenni, è evidente alludere anche a fatti posteriori. Nè che tali amori abbia egli cantato riesce più strano che non sia l'antinomia, tra i rimproveri di Beatrice e il pentimento del poeta in quei canti contenuti, con la profezia che al canto XXIV erasi fatto fare del suo innamoramento con la Gentucca che a quelli doveva evidentemente essere posteriore.

Per fare anche noi una teoria dell' Amore, diremo ch'è desso il tributo che natura vuole, onde l'uomo serva a l'umanità, sia concorrendo alla formazione di una razza sempre più eletta, sia lasciando tali opere che il cammino della umanità ne sia più sempre facilitato; al che però, non un procedimento di evirazione, bensì richiedesi una evoluzione della virilità, pari a quella del fiore che trasforma in vaghezza di corolla gli stami destinati alla fecondazione.

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