Slike stranica
PDF
ePub

varchi e della canonica di san Lorenzo da quel conte Guidoguerra del quale parla Dante nel canto XVI dell' Inferno, ai versi 34-39:

Questi, l' orme di cui pestar mi yedi,
tutto che nudo e dipelato vada,

fu di grado maggior che tu non credi.
Nepote fu della buona Gualdrada :
Guidoguerra ebbe nome, ed in sua vita
fece col senno assai e con la spada.

Ed è quello stesso Guidoguerra del quale un male interpretato passo del cronista Filippo Villani dice che edificò il castello di Montevarchi di molte ville e borghi circostanti.

G. GR.

Carlo Cipolla. Appunti storici tratti dalle epistole di san Pier Damiani. Torino, C. Clausen edit., (stamp. Paravia), 1892, in 8o, di pagg. 8.

Prendendo a discorrere brevemente, ma con la consueta erudizione, della controversa questione della paura del finimondo, l'autore rileva e commenta il passo di san Pier Damiani a favore di siffatta credenza: nunc iaiam vicinus (mundus) appropinquat. Ciò gli dà ragione di ricordare che Beatrice, indicando (Paradiso, XXX, 130-132) il gran seggio preparato nell'empireo per l'alto Arrigo, consiglia a Dante di volgere uno sguardo all'insieme delle sedi dei beati, ed esclama :

Vedi nostra città quant' ella gira,

vedi li nostri scanni si ripieni
che poca gente omai ci si disira,

i quali versi, per il chiaro e dotto professore della regia Università di Torino, attesterebbero la manifesta convinzione ch'ebbe l'Allighieri sulla non lontana fine del mondo.

G. GR.

Carlo Cipolla. - Di alcuni luoghi autobiografici nella divina Commedia: nota. Torino, Carlo Clausen edit., (stab. tip. Bona), 1893, in 8o, di pagg, 26.

Alla instancabile operosità del conte Carlo Cipolla dobbiamo questo nuovo saggio nel quale sono con attento amore ricercati qua e là pel poema, e talvolta paragonati a passi del Convivio, i luoghi ove Dante Alighieri sembra alludere, più o meno direttamente, a fatti delia sua vita, o tracciare il suo ritratto morale. Il metodo di indagare nelle opere di un autore famoso le reminiscenze personali sue non è nuovo: e da altri è stato usato per Dante, ed esperimentato pure dallo stesso conte Cipolla il quale, non son molt'anni, volle trovare una prova del viaggio di Dante a Parigi nelle parole ch'egli indirizza, al principio del IX canto di Paradiso, a la bella Clemenza. Ma quella ipotesi non incontrò allora il favore degli studiosi: e certo non parranno ora accettabili a tutti tutte le ipotesi nuove esposte dal dotto autore in questo suo studio. Tuttavia non potrà negare alcuno, poi che sarebbe follia, che l'energia de' sentimenti e talora anche delle espressioni che investono il poeta e ne atteggiano

--

lo spirito, assai spesso, quasi senza che Dante lo voglia o lo sappia, metta naturalmente nella bocca di Dante espressioni che son fedele manifestazione delle più intime profondità della sua grande anima. Ma lo studio che il Cipolla pone nel ricercare, qua e là per la Commedia, certe sproporzioni tra l'energia delle tinte e l'argomento di cui tratta il poeta per concluder che Dante ha, spesso e volontieri, dimenticato come, ad esempio, negli episodi di Sordello o di Provenzan Salvani, l'oggetto del suo discorso per pensare a sè e alle cose sue, è certamente un correre troppo innanzi per una via alquanto pericolosa. Uomo di alto senno e di pari dottrina, il Cipolla sarà certo il primo a riconoscerlo: come noi siamo lieti di riconoscere, in generale, le verità che questo suo libretto raccoglie, e facciamo, anzi, caldi voti perchè l'autore adempia presto alla promessa da lui accennata vagamente alla pagina 24, di studiar, cioè, con amore e ponderazione nel poema sacro le descrizioni topografiche che vi si incontran di frequente e che sono spesso evidentemente desunte dall'esame diretto de' singoli luoghi descritti dal poeta. Questo studio darebbe lume a più punti tuttavia mal certi o addirittura oscuri nella biografia dantesca, e gioverebbe alla storia dei dolorosi errori dello esilio di Dante.

G. L. PASSERINI

-

Teresa Gambinossi Conte. I luoghi d'Italia rammentati nella divina Commedia raccolti e spiegati alla gioventù italiana: con prefazione di R. Fornaciari. Firenze, Bemporad, 1893, in 16o, di pagg. VI-100.

È un volume piccolo di mole, ma di molta utilità pratica, nel quale lo studio della geografia si accompagna con quello del divino poema. È dedicato dalla esimia autrice alla memoria di Giovan Battista Giuliani, che l'aveva inspirato e incoraggiato; e lo presenta ai lettori con belle parole il professore Raffaello Fornaciari.

Sopra una carta geografica sono raccolti tutti i nomi dell'Italia, quale essa è presentemente, nominati nella Commedia: quelli della Toscana, perchè più frequenti e più abbondanti, sono eziandio ripetuti da soli sopra una seconda carta speciale di maggiore scala. Un dizionarietto in rigoroso ordine alfabetico illustra brevemente tutti que' nomi, a' quali, contrassegnati con asterisco, s'aggiungono altri che nella carta non poterono trovare luogo. Una breve appendice raccoglie ancora e commenta i nomi di luoghi non italiani ricordati nel poema dantesco.

G. GR.

-

Annibale Tenneroni. Di un compendio sconosciuto della « Cronica » di G. Villani. Roma, Forzani e C, tipografi del Senato, 1893, in 8o, di pagg. 8.

Fin dal 1890, in un fascicolo dell' Archivio storico italiano 1, il compianto e carissimo amico nostro dottor Vittorio Lami, dal quale gli studiosi attendevano con giustificata ansietà l'edizione critica definitiva delle istorie di Giovanni Villani, dava notizia di un compendio

1 Serie V, tomo V, disp. 3a del 1890.

della Cronica contenuto in un manoscritto strozziano della biblioteca Magliabechiana di Firenze, intitolato dal Fossi, nell'affrettato suo elenco de' codici comprati da Pietro Leopoldo, « Storia della città di Firenze di Giovanni Villani ». Da quel compendio, per opportuni e diligenti raffronti, il Lami dimostrò essere derivata, in gran parte, l'istoria malispiniana: rafforzando così, con nuovi e seri argomenti, l'asserto dello Scheffer-Boichorst, che la Storia fiorentina, lungi dal rappresentare uno dei più antichi monumenti prosastici della nostra letteratura, è. invece, uno scritto certamente posteriore al Villani.

Un altro compendio della Cronica ci viene ora segnalato dal professore Annibale Tenneroni, il quale lo ha ritrovato in un codice che fu del conte Manzoni, e sarà posto in vendita alla publica auzione proprio in questi giorni, insieme ad altri rari libri del defunto bibliofilo, nelle sale del palazzo Borghese. Il prezioso manoscritto, che il Tenneroni giudica, secondo ogni verosomiglianza grafica, appartenere all'ultimo terzo del XIV o, al più tardi, al principio del XV secolo, è un cartaceo in 8o, alto m. o, 219 e largo m. o, 143, ed è scritto di mano dell'autore del compendio che a carte 213 recto si sottoscrive domenicho di giouanni delterosi chalzolaio», dichiarando di avere estratto solamente i fatti chesi apartenchono e auenono alla citta echomune difirenze» da un libro che trattava di tutti i fatti accaduti per le terre d'Italia edimolte parte del mondo ».

[ocr errors]

Per giudicare degnamente della importanza di questa riduzione del buono artiere fiorentino, occorre certamente uno studio più largo di quello che il Tenneroni ci offre in questa breve notizia: dalla quale peraltro appare di già che tra il compendio dell'anonimo presentatoci dal Lami e questo del Terosi corrono differenze non lievi. Tra le altre, ci preme notar qui subito questa, siccome riguardante le opere dell' Alighieri: il noto passo del capitolo dedicato a Dante sul comento delle XIV canzoni e sul trattato De vulgari eloquentia, che al Villani riccardiano 1532 e al compendio anonimo del Lami manca, si legge invece nell'autografo del Terosi concordando esso in ciò coll' altro codice della biblioteca Riccardi 1533, scritto sul calare del secolo XIV.

Nel ringraziare il signor Tenneroni, in nome degli studiosi, della sollecitudine sua nel porre in evidenza il codice prezioso, noi ripetiamo il suo augurio che la notizia invogli ad altre indagini e a più copiosi raffronti chi vorrà, continuando l'opera del povero Lami, sobbarcarsi alla difficile ed italiana impresa di ricostituire il testo della grande opera di Giovanni Villani.

BOLLETTINO

G. L. PASSERINI

Castelli Giuseppe. Cfr. i ni. 54 c 70.

Cino da Pistoia. Una canzone inedita pubblicata per cura del prof. Umberto Nottola in occasione delle nozze d'argento dei Sovrani d'Italia. Milano, tip. Nazionale di V. Ramperti, 1893, in 8°, di pagg. 8.

È la canzone: A forza mi convien ch'alouanto spiri La voce dolorosa, conservata in due manoscritti del quattrocento, il Barberiniano XLV, 129 (già 1547) e il Laurenziano (santissima Annunziata) 122, ed in tre del cinquecento, il Marciano IX, it., 191, il Riccardiano

1118 e il Braidense AG, XI, 5. Questa canzone, adespota nel codice di san Lorenzo, è attribuita a Dante Alighieri da quello della Barberini: ma gli altri manoscritti la danno a Cino al quale pensa che debba ragionevolmente attribuirsi il dottor Nottola, che da qualche tempo studiando sul canzoniere di Cino ha pratica omai delle rime del Sinibaldi. Il testo, guasto qua e là, ha cercato l'editore di ammendare colle varie lezioni dei manoscritti e con qualche correzione necessaria specie dove il verso difettava nella misura: ma di questi pochi muta menti ognun può rendersi conto riscontrando la tavola delle varianti che l'editore ha posto in fine all'opuscolo. (51

Cipolla Carlo.

Di alcuni luoghi autobiografici nella divina Commedia: nota. Torino, Carlo Clausen, (stab. tip. Bona), 1893, in 8o, di pagg. 26.

Cita vari luoghi del poema dai quali pare all'autore che scenda luce assai viva sui fatti dell'esiglio e sopra tutto su la condizione psicologica di Dante negli anni più dolorosi della sua vita. (52

Cosmo Umberto. Dello studio di A. Luzio e R. Renier intorno al probabile falsificatore della Quaestio de aqua et terra ». (In Rivista critica e bibliografica della letteratura dantesca. Roma, febbraio, 1893).

Chi esamini attentamente, come il Luzio e il Renier hanno fatto, la prima edizione della disputa famosa, avverte subito che è davanti ad una sconcia contraffazione. Il Luzio e il Renier hanno, con questo studio, dato gli ultimi colpi all'edifizio di già crollante, e l'hanno abbattuto: provata la capacità a delinquere di frate Benedetto Moncetti da Castiglione Aretino, il probabile falsificatore; mostrata la sua ventosa ambizione; studiato l'assetto della prima edizione; palesate le cause che poteron muovere il frate all'opera indegna. (53 Crivellucci Amedeo. Notizia del libro di G. Castelli su « La vita e le opere di Cecco d'Ascoli». (In Studi storici. Vol. II, fasc. 1).

Il grande ascolano, dopo aver avuto la consacrazione dell'arte da un suo concittadino in una tela che rimarrà fra i capolavori della pittura moderna, nel Castelli ha trovato ora lo storico che ne ha liberata la figura dagli errori e dai pregiudizi della tradizione, presentandocelo sotto le sue vere sembianze. Cfr. i ni. 2 e 70. (54

Curcio Gaetano Gustavo. Studi sulla Vita nuova di Dante. (Recensione in Rivista di storia italiana, X).

Questi studi sono quattro e si aggirano intorno ad alcune delle più note questioni dantesche. L'autore è fra i sostenitori della realtà di Beatrice. Oggetto del primo studio, il capitolo XXII della Vita nuova (Dante degno di riprensione); del secondo, il capitolo XXIX (Perchè Dante non può trattare della morte della Beatrice); del terzo, il capitolo XXX (II numero nove è la stessa cosa che Beatrice); del quarto, in fine, i capitoli XXXVI e XXXIX La donna gentile). (55 Dalma Renato. Nella cappella del palazzo del Podestà di Firenze: sonetto. (In Fanfulla della domenica. Anno XV, no. 10). (56 L'uno eterno e l'eterno amore di Dante, ecc. Vol. III. Tricosmia dantesca e sintesi finale. Genova, tip. del r. Istituto de' Sordo-Muti, 1893, in 8o, di pagg. 211.

De Leonardis Giuseppe.

Parte prima. Il regno di Satana ossia l'« Inferno ». L' Alighieri comincia, epicamente, a tratteggiare il suo Satana nei versi 28-36 del XXXIV dell' Inferno. L'imperador del doloroso regno Da mezzo 'l petto uscìa fuor della ghiaccia....; ne viene indi, mano a mano, studiando le parti, (ivi, 37-45); a ritrarne la corporatura immane (46-54); a dar anima all'orribile dipintura (55-63). Così Dante a grandi pennellate compie il suo quadro terribilmente grande, sublime. Ma perchè il poeta volle così configurare il suo Satana? L'ingegno de' comentatori si è qui sbizzarrito per tutte guise; e, quindi, s' apre il campo delle pole.

miche a non finire. Ma è tempo ormai di risolvere, e per sempre, una discettazione che fu lungamente e sempre indarno dibattuta. Come l'iride senza la luce, così non si spiega il simbolo senza la idea che lo genera nè la idea negativa si rivela se non a riscontro della positiva, che solo è fatto e ragione. Ed invero che è Satana? Satan (Cornelio Alapide in san Matteo, XVI, 23), è parola ebraica che suona adversus: idest adversarius. É dunque satanico tutto ciò che avversando ogni idea di vero, di bello, di buono, n'è perciò la negazione assoluta. Mettiamo, quindi, Satana in relazione, o meglio, in contraddizione con Dio; ed, allora soltanto, vedremo come quell'idea sovrana ed archetipa, passando negativamente per la fantasia del poeta, vi abbia preso consistenza, configurazione e colorito proprio. L'alto Fattore di Dante è divina Potestate, somma Sapienza e primo Amore: perciò uno e trino. Onde poi quella stupenda terzina che nell'alto de' cieli era per tre volte cantata da' cori degli angeli: Quell'uno e due e tre che sempre vive. ..., Paradiso, XIV, 28-30. Avvertì già lo Schelling e ripetè poi il Fornari che nell' Inferno dantesco la luce si estingue (V, 28); nel Purgatorio si riaccende, ma è luce mista alla materia e quindi colore (I, 33); nel Paradiso non rimane che l'armonia della luce, pura, intuitiva, divina (XXX, 40). Siamo nella piena trasfigurazione delle forme, e quivi la fantasia vien meno e l'arte spira in quel raggio di amore e di luce. E quindi l' Uno eterno o la eterna ed assoluta Idea si converte in una stella luminosissima ed abbagliante (XXVIII, 16-18), le angeliche schiere in turbe di splendori (XXIII, 82-84), l'empireo, a sua volta, in riviera di luce piovente sua beltà di cosa in cosa (XXX, 61-63), fino a che tutto il cielo delle anime prende forma di candida rosa (XXXI, 1-3), e 'l circulare delle tre persone divine si converte, esso pure, in tre cerchi ardenti dissimili eppure eguali, insieme roteanti eternamente nell'infinito (XXXIII, 115-120). Ecco il vero centro del mondo dantesco. Mettete ora a riscontro di questo grande e divino archetipo la immane e mostruosa figura di Satana: ed eccone, come forma, la spontanea generazione in arte. Iddio è potenza? Sua negazione, sotto questo primo aspetto, sarà dunque la impotenza; onde il fremito, la rabbia. Ed ecco la prima faccia di Satana, a destra, di color livido o giallognolo (Inferno, XXXIV, 43); Iddio è sapienza? Sua negazione, sotto questo altro aspetto, sarà dunque la ignoranza; onde la tetraggine, il buio. Ed ecco la sua seconda faccia, a sinistra, di color tenebroso (ivi, 45); Iddio è amore? Sua negazione, sotto questo terzo aspetto, sarà dunque l'odio, onde la fiamma, l'ira. Ed ecco la terza faccia dinanzi di Satana, di colore infuocato o vermiglio (ivi, 39). Che cosa è dunque il Satana di Dante? È la stessa idea dell' Unitrino, la sua teorica sovrana, capovolta o guardata al rovescio: ossia, negativamente. Però, lì dentro, è tuttora uno spirito eccelso, terribilmente grande e spaventosamente sublime. A contenerlo bisognò nondimeno il peso della gravitazione universale; e però, più che domo, egli è depresso o schiacciato nel centro della terra. Quasi direste che, s' ei si scuotesse, manderebbe il mondo in frantumi o lo farebbe balzare in aria. Dante solamente poteva così concepire l'avversario o l'antagonista di Dio. Quegli cui dobbiamo sì peregrina esposizione è Jacopo figliuol di Dante; e ben egli, ne' suoi confidenti colloqui col padre, potè leggergli in fondo all'anima, scrutarne fin l'ultimo pensiero, e farsene rivelatore all'universale. I più recenti interpreti, invece di far tesoro di questa spiegazione che è più che logica ed in armonia perfetta con la mente di Dante, si diedero ad oppugnarla, a contraddirla, a deriderla; cosi il De Sanctis (Storia della letter. ital, vol. I, pagg. 206-207), così il Bartoli (Storia della lett. ital., vol. VI, pagg. 174-175). Per modo, che il comento di Dante va sempre peggiorando per opera di que' medesimi che intenderebbero maggiormente onorarlo. Rimettiamo dunque le cose a posto. Egli è pur vero: il Satana di Dante è muto. Ma. nel suo cupo e fremebondo silenzio, parla: parla, cioè, per gli occhi che piangono, per le bocche che mordono, per le mani che grafliano. Che cosa vogliono dire quelle lagrime e que' fremiti? Satana sarebbe, forse, ravveduto e pentito? No: Satana, contraddizione eterna, non

« PrethodnaNastavi »