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[Dante] credette diffonder cosa non soltanto poeticamente, ma altresí storicamente verosimile, non l'attinse a ogni modo da voci che corressero, ma volle e seppe e disse di farsi anzi egli stesso divulgatore di un pensiero nato unicamente in lui „.

Quest'articolo del prof. D'Ovidio, che il Gorra chiamò giustamente magistrale per la genialità e l'acutezza delle osservazioni, ebbe, fra gli altri, due contraddittori, uno in persona dello stesso Gorra, e un altro, inconsapevole, nel prof. Lajolo, che se stampò le sue Indagini storico-politiche sulla vita e le opere di Dante Alighieri un anno dopo la pubblicazione dell'articolo del D'Ovidio, pure non mostrò di averlo tenuto presente.

scita in noi sempre una duplice e diversa maraviglia, per quel suo intuire con tanto acume e non dar poi séguito alle cose intravedute, o magari trarle a peggior sentenza, notò per l'appunto come dalle parole di Guido risulti "che nessuno al mondo sapeva la colpa appostagli dal Poeta,. Gli obie ttò il buon Andreoli come ne risulti solo che " di ciò Guido si lusingava, ; ma questa restrizione, apparentemente cauta, in realtà (sia detto con la debita riverenza) implica quel concetto superficiale per cui generalmente si disconosce, o, meglio, non si ravvisa, il modo | consueto di Dante, sempreché sta per mettere fuori qualcosa che sia una mera escogitazione sua, e vuole che ciò si capisca per aria. E, sotto questo punto di vista, il D'Ovidio esamina gli episodî del Conte Ugolino, di Ulisse, di Francesca, e i casi di Bocca, di Venedico Caccianimico, di Vanni Fucci e altri consimili, in cui i protagonisti o appaiono rei di un peccato generico, o raccontano fatti divulgati su' quali non vi è che da dirimer qualche dubbio. Il caso di Guido non si può paragonare, secondo il D'Ovidio, con questi ultimi; ma sibbene con quelli dell'Ugolino, di Ulisse, di Francesca, di Stazio, e, più specialmente, di Buonconte e di Manfredi, riposti sopra un' invenzione poetica manifesta e confessata. Quale ritegno avrebbe dovuto aver Dante nel fare di Guido il fraudolento | consigliere di Bonifacio? "Si trattava d'un uomo stato sino alla piú tarda vecchiaia tutt'altro che pio e leale, mutevole d'animo e di parte, spietato in guerra, come, per esempio, nella strage dei Francesi a Forli, che il Poeta non manca di rinfacciargli. Apporglighieri, che l'inventare, quando mezzo e scala una nuova perfidia fu, per usare un efficace proverbio calabro, fare una macchia a un otre d'olio. Dunque al D'Ovidio "sembra di poter concludere, che non v'è da avere alcuna ripugnanza ad ammettere che l'aneddoto fosse una mera invenzione poetica; che quasi certamente fu; e che, se pure egli

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1 Studii sulla "Divina Commedia, cit., pag. 32; Nuova Antologia, pag. 214.

2 I NOVATI ha dimostrato che Dante non mancò di precursori per la salvazione di Manfredi (Indagini e postille dantesche, Bologna, 1899, pag. 117 e segg.); ma il D'OVIDIO, nella 2a ed. del suo studio ha mantenuto intatte le antiche argomentazioni, aggiungendo solo un più o meno laddove afferma l'invenzione poetica (Studi, pag. 63).

I presupposti su' quali il D'Ovidio basa tutto il suo ragionamento sono due: e cioè, che nessuno, prima di Dante, o contemporaneamente, o indipendentemente da Dante, abbia dato la notizia del mal consiglio, e che il Poeta giudichi e danni a suo capriccio senza tener conto della corrente popolare. Ora si pensi, innanzi tutto, che fra Pipino, come abbiam già notato, dètte la notizia, se non prima, contemporaneamente, in ogni modo, e indipendentemente da Dante, il quale perciò non ne poté essere l' inventore; e poi si consideri il fatto, che, se il consiglio fraudolento e la condanna di Guido fossero un'invenzione di Dante, il Poeta sarebbe venuto meno a un canone d'arte che egli rispetta scrupolosamente in tutto il Poema, dove le accuse e le condanne son sempre conformi alla verità storica o alle dicerie del tempo. "Nulla di più facile, nulla di piú insipido, pensò fra sé l'Ali

all'invenzione non siano i pensamenti di tutti, le invenzioni, i sentimenti di tutti, riecheggiati, rivissuti, disciplinati in unità poderosa dell'anima dell'artista,.1 Il Gorra pare a noi è riuscito a stabilire un importantissimo principio d'esegèsi dantesca: "Che, cioè, il soggettivismo storico di Dante consiste non nella libertà che egli si prenda nel condannare ed assolvere a suo capriccio, bensí nella scelta ch'ei fa de' suoi personaggi: in altre parole non nel diritto di grazia, sibbene nel diritto di scelta. Certo nella scelta e de

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3 Studii, pag. 61; Nuova Antologia, pag. 242.
4 Il quasi rilevato dal Gorra
suila cui opera il

1 GORRA, op. cit., pag. 66.

2 Op. cit., pag. 67.

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stinazione delle anime egli doveva obbedire a un criterio estetico, e trarne effetti di arte e di poesia. "Ma non per questo dobbiamo ammettere che il Poeta, servendosi del suo semplice arbitrio, sia pure in un'opera poetica, la quale aveva però un altissimo fine morale, condannasse a pene ignominiose e crudeli persone stimate dabbene o incolpevoli, e assolvesse i rei,,. Ma poniamo anche che Dante si sia valso qualche volta del diritto di grazia, è chiaro che egli nel caso di Guido avrebbe fatto uso di un diritto opposto, inumano e immorale. Io, lo Io, lo confesso sinceramente, non vedo come a proposito del diritto di grazia si possano parificare i casi di Buonconte e di Manfredi con quello di Guido: sarebbe dunque valersi di uno stesso diritto assolvendo i rei e condannando un innocente? Il Parodi, che pur accetta con restrinzione la teorica del Gorra, non è di quest'avviso. "Giustizia era e poteva parergli assolver Manfredi, vittima e vivo e morto d'un odio implacabile, giustizia assolver Buonconte, del quale non eran forse ben chiare né specificate le colpe; e d'altra parte la grazia di questi due peccatori era consigliata da un interesse piú generale, dall'insegnamento che il Poeta poteva trarne contro i malvagi ministri di Dio, dimentichi della loro missione di perdóno e di pace. Ma Dante non avrebbe rilegato nell'Inferno Guido da Montefeltro, nonostante il suo odio contro Bonifacio e la propizia occasione di sfogarlo terribilmente, se non avesse prestato fede alla voce popolare che l'accusava del consiglio fraudolento, se per lo meno non avesse pensato ch'essa doveva contenere un fondo di vero, e che i due erano capaci d'intendersi „. 2

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segreto fino allora ignorato. Vi è però in questo ragionamento una difficoltà, che il D'Ovidio non si dissimula: "Di Francesca e di Ugolino tutti sapevano perché fossero morti, e i particolari della catastrofe dell'uno e dell'altro eran facili a supporsi, e la fantasia del Poeta s'ebbe ad esercitare là solamente dove ognuno reputa legittimo l'intervento suo mentre per Guido essa non solo si sarebbe sbizzarrita nei particolari, ma anche nell'invenzione dello stesso fatto fonda. mentale, da niuno saputo, o addirittura nel foggiar una specie di calunnia „. Io direi una calunnia bella e buona. Per quanto a prima vista possa sembrare efficace il proverbio calabro della macchia sull'otre d'olio, esso non riesce a distruggere la repugnanza che prova l'animo nostro nel figurarsi un Dante calunniatore, senza attenuanti di sorta; perché, si noti bene, il Poeta non avrebbe colpíto qui l'astuto volpone di guerra, ma il pio cordigliere, che aveva cercato nel silenzio della vita claustrale la pace e l'oblio. Doveva l'Alighieri ricorrere a un mezzo, checché si dica, immorale, in un'opera sopratutto morale, per bollare d'infamia Bonifacio VIII, che offriva tanti lati vulnerabili all'accesa fantasia del Poeta? Non era corsa voce che Bonifacio avesse promesso a Giacomo d'Aragona la salvezza dell'anima del padre Pietro, già morto, per spingere Giacomo alla guerra fratricida contro Federico? Questa promessa non valeva quella data al Montefeltrano, per dimostrare il pravo uso fatto da Bonifacio delle prerogative pontificali? Guido, cominciando il discorso, ha, è vero, l'aria di voler fare una rivelazione; ma la sua è una lusinga, che tuttavia ripete l'origine dalla natura del peccato commesso, che è di quelli, i quali lo dice anche il D'Ovidio- rimangono per lo piú occulti. La voce del tradimento di Bonifacio, bene o mal fondata, sorse come crede il Tosti quando i Colonnesi si ribellarono nuovamente al Papa, quando Guido era già morto. Ha dunque, o no, questi, nel pensiero di Dante, qualche buona ragione per supporre che nel mondo s'ignori l'ultima sua perfidia?

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Del resto, il Lajolo, che non conosce la testimonianza di Pipino e non tratta la questione dal lato storico, si spiega l'esordio di

1 D'OVIDIO, Studi, cit., p. 39; Nuova Antol., p. 220. 2 AMARI, op. cit., vol. II, pag. 363.

Guido che parrebbe ozioso, se ciò che dice consiglio di Guido fu una escogitazione poeappresso non fosse un segreto - riscontrandovi uno de' tanti procedimenti dell'arte dantesca. "Chi può negare che Dante, per dare importanza ad un fatto notorio, non abbia ricorso a qualcuno di quegli espedienti, mercé de' quali sa tener viva l'attenzione e destare l'interesse del lettore? E questo di Dante è tanto vero segreto, come sono vere profezie quelle fatte post eventum: egli qui, per dare maggior efficacia alla sua narrazione, ci rappresenta il fatto come cosa nuova, mentre in realtà ciascuno conosceva quanto si andava dicendo circa il consiglio fraudolento del frate al Papa,.'

In conclusione, per sostenere che il mal

tica di Dante, bisognerebbe sempre dimostrare che fra Pipino scrisse il XXX libro del Chronicon dopo la divulgazione del XXVII Canto dell'Inferno, e che egli, presto o tardi, direttamente o indirettamente, conobbe la Divina Commedia. Allo stato delle cose ci mancano gli elementi per poter dare al Poeta o al Cronista l'assoluta precedenza, e nulla c'induce a credere che questi, narrando del consiglio fraudolento di Guido, abbia tolto la notizia da quello; anzi la diversità ne' particolari della narrazione prova l'indipendenza reciproca de' due scrittori.

GIUS. PETRAGLIONE.

VARIETÀ

Beatrice Portinari nei Bardi.

Illustre signor professore,

Ella che in una saggia nota intorno agli Angioini e a Carlo Martello, opponendo dei documenti sicuri alle troppo facili affermazioni d'uomini dotti forviati da una postilla d'un codice dantesco, ebbe a scrivere: "Oh bella cosa i documenti ! quanto più bella delle postille dei codici, e delle argomentazioni o, peggio, delle affermazioni anche dei dottissimi!,, voglia permettere oggi ad un modesto ricercatore di chiose e commenti della Divina Commedia, di richiamare la di Lei attenzione appunto sopra una postilla di un vecchio codice, la quale, s'io non erro, si può recare a conferma di preziosi documenti da Lei fatti conoscere. Me lo permetta anche perché la detta postilla può avere un tantino d'interesse per la questione della storicità di Beatrice.

Le dirò subito che non si tratta d'una cosa nuova, perché la postilla in discorso è a stampa da ben dodici anni in una nota del mio volume Di alcuni commenti della Divina

Commedia composti nei primi vent'anni dopo la morte di Dante (vedi a pag. 57), e, come ivi si dice, è tratta dal codice Magliabechiano

1 LAJOLO, op. cit., pag. 202.

a I. Del Lungo.

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Palc. I, 39, che contiene, con altri commenti
sulla Commedia, parte delle chiose volgariz-
zate di ser Graziolo sopra l'Inferno. Preci-
samente in una di queste chiose, che si rife-
risce ai versi su Beatrice del Canto II, si leg-
gono le parole seguenti: dichiarandomi
come essa.... era stata anima nobile di mona
biatrice figliuola cheffu.... folco de' Portinari
di firenze e moglie che fue di me.... di geri
de' bardi di firenze, la quale cosa poi ch'eb-
bi ecc.
I puntini segnano altrettante la-
cune che interrompono il testo, per essere il
codice guasto nei margini; e in una appunto
di queste lacune scompare il nome di messer
Simone, ma resta, per fortuna, quello del pa-
dre di lui" di geri,, che, com' Ella compren-
de subito, può avere un certo interesse.

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Quando fu pubblicato il mio volume, né io né altri diede importanza a questo nome salvato per miracolo dai guasti del codice; ma dacché Ella ha messo in chiaro, dietro la scorta di documenti antichi, che due furono i Simoni de' Bardi vissuti fra il XIII e il XIV

secolo, Simone di messer Jacopo, e messer Simone di Geri, e che quest'ultimo fu il marito di madonna Bice de' Portinari, quel" di geri, ricordato dall'antico postillatore può considerarsi come una sicura riprova del risultato

cui Ella giunse colle sue ricerche; e di riflesso, parmi che acquisti maggior valore anche la postilla: perché trovandosi in essa ricordato con esattezza il nome del padre di messer Simone, nome cui non accennano né Pietro Alighieri né il Boccaccio, si può congetturare con molta probabilità, che la nuova testimonianza sia indipendente da quelle, e ad esse anteriore.

In questo senso io ritornai sull'argomento qualche anno fa in una mia conferenza sulla Vita Nuova, tenuta qui a Milano: ma la notizia rimase presso che ristretta alla breve cerchia de' miei uditori, e nessuno ne fece caso. Recentemente però se ne valse un chiaro dantista, e questo pure mi conferma che essa non sia senza valore, il mio amico prof. Scherillo; il quale parlando di Beatrice, pochi giorni or sono, alle testimonianze del Boccaccio e di Pietro Alighieri in favore della storicità di lei e dell'identità sua con la Portinari, aggiunse anche quella di ser Graziolo, alludendo appunto al passo sopra riferito. Ora, che questa nuova testimonianza risalga veramente a ser Graziolo, io ne dubito molto: intanto noi la troviamo nella traduzione del suo commento, non nell'originale latino, e la troviamo in un codice, nel quale detta traduzione, che d'altronde è antichissima e anteriore certo al 1334, ci si presenta non senza alterazioni. Ma ciò, a mio giudizio, non toglie valore alla testimonianza stessa; perché se quel nome di geri, non fu scritto da ser

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Graziolo, fu certamente introdotto nel commento da persona che dei Bardi aveva notizie precise, e che, secondo ogni probabilità, non fu di molto posteriore al Poeta; perché passato un certo tempo dalla morte di messer Simone, difficilmente si sarebbe ricordato il nome del padre di lui: certo è che non ne fa menzione il Boccaccio, che pure nomina espressamente il "cavaliere de' Bardi chiamato messer Simone,; ed oggi ancora noi forse ignoreremmo quel nome o non ne avremmo notizia sicura, se Ella, illustre professore, non l'avesse esumato e reso noto, togliendolo da antichi documenti, anzi da carte sincrone appartenute alla famiglia stessa de' Bardi.

Cosí la nota del chiosatore antico, se da una parte conferma i risultati delle ricerche da Lei fatte, dall'altra riceve da questi stessi risultati, come già dissi, lume e valore; quindi a Lei è debitrice se a qualche cosa vale, ed io a Lei la raccomando. La collochi, se la crede degna, nel monumento ch' Ella ha inalzato alla storicità di Beatrice, e di cui ogni studioso del divino Poeta Le è grato: bel monumento, al quale io sarò felice d'aver recato un'altra piccola pietruzza.

Anche per ciò, illustre signor professore, mi voglia bene, e gradisca i miei ossequî rispettosi.

Milano, marzo 1903.

Inferno o Rosa mistica?

Gentilissimo signor Direttore, Poiché l'ipotesi lanciata dall'Ampère oltre sessant'anni fa non è anche oggi senz'eco, mi lusingo ch'Ella non troverà inopportuno che io le esponga in proposito certi pensieri, che mi vennero spontanei alla mente mentre in classe spiegavo gli ultimi Canti del Paradiso; non pretendo portare nuovi elementi per l'interpretazione della Commedia, ma semplicemente di esporre una mia idea, troppo lieto se Ella le vorrà fare buon viso e riconoscere che, come io penso, può aiutare la spiegazione scolastica del Poema: non in tutte le città è un'anfiteatro romano, ma in nessun luogo ne mancano riproduzioni grafiche.

devotissimo suo LUIGI ROCCA.

Scrive dunque l'Ampère nel suo Viaggio dantesco (devo servirmi della traduzione italiana, Firenze, S. Le Monnier, editore, 1855), nella quale l'anonimo traduttore lasciò errori e sviste singolari, specialmente per la parte che riguarda Verona; [porta della Stufa, ad es., per porta Stupa (chiusa, che tale rimase fin dopo il 1866), ponte di Vigia per Veja]: "trovasi in Verona anche un altro monumento sul quale è probabile abbia egli (Dante) esemplato il suo Inferno.... Quell'antro immenso fiancheggiato all'interno da tanti scaloni concentrici, quante sono le differenti classi dei dannati, che ivi soggiornano, ha molta somiglianza col celebre anfiteatro di

Verona. Se Dante lo ha contemplato come me da una delle estremità, mentre la luna ne faceva coi suoi raggi spiccare maggiormente le forme gigantesche, e la luce scemando insensibilmente sembrava aumentarne la profondità, egli è probabilissimo che questo spettacolo gli abbia suggerito il modello del didentro del suo Inferno (pag. 114). Il Bassermann nelle sue Orme di Dante in Italia (traduzione di E. Gorra, Bologna, Zanichelli editore, 1902, pagg. 21 e 603) non respinge la ipotesi, ma al Colosseo di Roma anziché all'Arena di Verona attribuisce l'onore di aver dato a Dante il modello dell' Inferno: Arena o Colosseo, per me, importa poco, ché mi basta creda anche il Bassermann che Dante abbia trovato in un anfiteatro romano il modello della sua sotterranea costruzione. La ipotesi dell'Ampère è anche ricordata, benché incidentalmente e molto alla sfuggita, in un libro recente, straniero, di quelli che principalmente vanno per le mani e regolano gli entusiasmi degli inglesi peregrinanti per il bel paese: The story of Verona by A. Wiel illustrated by N. Erichsen and H. M. Iames (London, J. M. Dent and Co., 1902, pag. 40). Dell'Arena vi si legge infatti che: " is said to have suggested to Dante the plan for some regeons of his Inferno,; l'ipotesi, strada facendo, s'è ristretta; non piú l'Arena sarebbe stato il modello di tutto l'Inferno ma di alcune parti di esso solamente. Quali? All'ardua questione l'Autrice non risponde, né altri, ch'io sappia. Ciascuno, raccogliendo le sue reminiscenze dantesche mentre visita il vetusto e ancor oggi imponente monumento della mia città, è libero di fare le considerazioni che piú gli talentano: anche a me sia lecito fare le mie, ed Ella conceda che gliele esponga.

Io, dunque, dico súbito che, Arena o Colosseo, respingo risolutamente l'ipotesi dell'Ampère e del Bassermann, e valga il vero; come si può pensare di paragonare un edificio tanto semplice quanto pure, nella sua maestà, è un anfiteatro romano, con la complicata costruzione infernale del nostro poeta? Quante supercostruzioni egli ha dovuto inalzare sopra ogni giudizio! Non solo; ma chi riconoscerà la semplice linea della scala romana nelle grandi spezzature del baratro infernale? Si confrontino un disegno qualunque,

mettiamo pure, dell'Arena e una pianta o meglio uno spaccato dell' Inferno, e si dica se la somiglianza può reggere! La cosa mi par tanto chiara che non insisto.

A me invece, ed è il pensiero che mi venne spontaneo alla mente mentre in classe spiegavo gli ultimi Canti del Paradiso, sembra che nell'anfiteatro romano Dante abbia invece trovato il modello della vita dei beati, Per quanta buona volontà ci si metta, sarà sempre un po' difficile rappresentarsi questa rosa come una vera rosa. Questa designazione ha e avrà sempre un valore semplicemente metaforico. Invece la disposizione semplice e regolare dei beati, che Dante osserva stando nel basso, nel giallo della rosa sempiterna, egli dice, nell'arena, possiamo dir noi, mi richiama alla mente un anfiteatro appunto, un'Arena, un Colosseo smisuratamente ingranditi. Se non sapessi che ai tempi di Dante non s'avevano le cognizioni che degli anfiteatri romani e della distribuzione dei posti in essi, secondo il grado e la dignità degli spettatori, acquistammo poi, direi ch'egli avesse foggiato la sua rosa sopra un manuale di archeologia. S'immagini Dante con la sua guida non come vuole l'Ampère, a una delle estremità dell'arena, ma nel mezzo, e l'anfiteatro tutto popolati di spettatori sedenti: da ciascuno dei due podi, alle due estremità dell'asse maggiore, si finga una linea che vada su su per i gradini fino al più alto e su di essa si immaginino sedute di qua Maria, Eva, Beatrice, trice, e giú via via, di là Adamo e gli altri santi maggiori: ecco la discrezione tra i beati del nuovo e quelli del vecchio testamento; i tre o quattro gradini più bassi si pensino tutto all'intorno occupati, se bene ricordo, da vestali bianco vestite: ecco gli

spiriti assolti

prima che avesser vere elezioni.

È un'ipotesi anche questa mia: veda altri se e quanto può essere accettata; io sarò contento se qualche collega troverà calzante il mio paragone tra la rosa dei beati e l'anfiteatro, e atto ad agevolare pei giovani l'intendimento della costruzione dantesca. Intanto ringrazio Lei della cortese accoglienza e la prego di gradire i miei rispettosi ossequi. Mi creda, signor Direttore, Fermo, 30 giugno 1903.

dev.mo suo GIOACHINO BROGNOLIGO.

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