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COMUNICAZIONI ED APPUNTI

"Mal non vengiammo in Teseo l'assalto,,

Non è certamente questo uno di quei versi del sommo Poeta che più richiamano l'attenzione dei lettori e dei chiosatori. Tuttavia, poiché può prestarsi ad una doppia interpretazione, e mentre la maggior parte dei commentatori si attiene ad una di esse, parecchi non accennano neppure all'altra, spero che non sarà affatto inutile né fuori di luogo vedere brevemente quale delle due interpretazioni sia preferibile.

Come è noto, a questo punto della Divina Commedia Dante si trova con Virgilio dinanzi alla porta di Dite, chiusa dai demonî, per vincere i quali è necessario l'intervento di una forza superiore; e i due Poeti stanno appunto attendendo l'arrivo del loro soccorritore. Frattanto Virgilio, per rinfrancare l'animo turbato di Dante, e per rassicurarlo ch'egli conosce il luogo, avendolo praticato altra volta, gli dà notizie sulla topografia, per cosí dire, dell' Inferno. Ma ad un tratto il Poeta non dà piú ascolto alle parole del Duce; egli è colpito da una terribile apparizione sulla rovente cima dell'alta torre di Dite. Quivi sono apparse le tre Furie, che, scorto il Poeta, chiamano Medusa, perché, guardata da lui, lo trasformi in sasso.

Venga Medusa, si il farem di smalto,
gridavan tutte riguardando in giuso;
mal non vengiammo in Teseo l'assalto.

È nota la leggenda, secondo la quale Teseo, legatosi d'amicizia con Piritoo, fra le altre imprese compí pure quella di scendere col compagno nell'Inferno per rapirne Proserpina. Ma, sopraffatti, Piritoo tu divorato da Cerbero, e Teseo fu legato strettamente ad un masso dove rimase finché non venne a liberarlo Ercole, o, come altri vuole, Euristeo,

A tale fatto appunto alludono qui le parole delle Furie, che ricordano l'assalto dato da Teseo all' Inferno, cioè la prova ardita ch'egli osò tentare di rapirne Proserpina per il suo amico e compagno.

La massima parte dei commentatori ravvisano nell'ultimo verso come l'espressione di un rammarico. Con questa esclamazione le Furie si mostrerebbero dolenti di non aver vendicato abbastanza l'audacia di Teseo.

Cosí il Bianchi: "Male facemmo a non vendicare in Teseo l'assalto dato a queste mura, cioè l'ardita prova ch'ei fece di voler rapire Proserpina, siccome la vendicammo in Piritoo, che demmo a divorare a Cerbero, E lo Scartazzini: "Mal facemmo a non ven

(Inf., IX, 54).

dicarci dell'assalto di Teseo: facendone vendetta nessuno avrebbe più osato di venire quaggiuso,; spiegando mal con mal fu per noi. Cosí pure il Casini: Mal fu per noi non vendicare gli assalti dati dagli uomini all'Inferno nella persona di Teseo; il quale, recatosi nelle regioni infernali, per rapire Proserpina vi fu trattenuto prigioniero fino a che Ercole discese a liberarlo E, come questi, seguono tale interpretazione piú dei commentatori tanto antichi quanto moderni, spiegando quel mal, che si trova al principio del verso, per: mal fu per noi; a nostro danno.

Ed è certo chiara e conforme alla leggenda questa spiegazione. Narra infatti la leggenda che Teseo fu piú tardi liberato da Ercole o da Euristeo, e non ebbe quindi che una punizione temporanea, mentre le Furie avrebbero potuto farlo perire, come il suo compagno Piritoo, e vendicare cosí pienamente l'affronto.

La stessa interpretazione si appoggia non solo alla leggenda, ma anche sopra il senso dell'avverbio mal, notato piú sopra. Quest'avverbio infatti in parecchi dei numerosi luoghi in cui è usato da Dante assume chiaramente il valore attribuitogli qui dalla maggior parte dei commentatori.

Accostandosi al primo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro gli altri, il Poeta esclama:

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sintassi, potendo esso intendersi bene anche lasciando ad ogni vocabolo, e specialmente all'avverbio mal, il suo valore più semplice.

Prendiamo infatti tale verso nel suo senso piú naturale. Esso suonerà: "Non vendicammo male in Teseo l'assalto,,.

Cosí, mentre, seguendo l'interpretazione piú comune, si dà alle parole delle Furie il senso di un rammarico e nulla piú, con quest'altra spiegazione invece vediamo le Furie affermare in tono di minaccia di aver saputo vendicare l'affronto commesso da Teseo.

E non mancano certo le ragioni che valgono a sostenere questa seconda interpretazione.

Innanzi tutto il significato dell'avverbio mal. Questo per analogia con altri luoghi della Divina Commedia, come abbiamo notato, potrebbe anche intendersi nel senso di: mal per noi, a nostro danno. Ma abbiamo pur visto che negli altri passi il vocabolo mal non può spiegarsi diversamente; mentre qui esso può ritenere il suo significato piú semplice e piú naturale, senza che, per spiegarlo, occorra far violenza alla sintassi.

In secondo luogo non può neppur dirsi che la leggenda sostenga esclusivamente la prima interpretazione. È ben vero che le Furie avrebbero potuto vendicare meglio l'assalto di Teseo, facendolo, per esempio, perire, come Piritoo. Ma non puossi per ciò dire ch'esse si siano vendicate male, e tanto meno che non si siano vendicate affatto. Tant'è vero che Teseo soffrí assai a lungo la sua pena, e, liberato poi da Ercole, lasciò sul masso un buon tratto della propria pelle, tanto strettamente vi era stato legato. Né qui cessò il suo castigo; che anzi dopo morto fu condannato alle pene eterne dell'Inferno, come appunto si legge in Virgilio:

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Ne segue che non può essere affatto giustificato nelle Furie il rammarico di non aver preso vendetta della temerità di Teseo.

Non rammarico dunque soneranno le parole delle Furie, ma piuttosto severa minaccia di castigo terribile; anzi saranno come una continuazione della minaccia contenuta nel primo verso della terzina. E che le parole dell'ultimo dei tre versi siano proprio rivolte a Dante, anziché détte dalle Furie a sé stesse e per sé stesse, parmi sia indicato dal fatto che "Gridavan tutte riguardando in giuso „.

Assai piú naturale apparirà cosí l'esclamazione delle Furie. Esse, nello scorgere un vivente davanti alla porta di Dite, si ricordano tosto del tentativo fatto altra volta da un altro vivente e della pena inflittagli, tanto che questo, sebbene liberato poi temporaneamente, tuttavia fu vinto e non riuscí nel suo intento; e per ciò, sicure della vendetta ch'esse tengono in pugno, ferocemente ammoniscono il nuovo venuto portandogli l'esempio della sorte toccata all'altro.

La seconda interpretazione parrebbe dunque più naturale.

In fine, a maggiormente sostenerla, si può osservare che questo procedere di Dante, che a chi tenta una impresa fa ricordare la brutta sorte toccata ad altri che la tentò altra volta, non è un caso isolato, giacché se ne ha un altro esempio chiarissimo nello stesso

1 Eneide, VI, 617-18.

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Questa seconda interpretazione non è una novità negli studi danteschi, poiché, sebbene pochi commentatori l'abbiano ammessa, molti però la riconobbero, e fra questi anche qualcuno degli antichi.

Fra i moderni il Blanc riconosce che le parole poste in bocca alle Furie danno appunto luogo, secondo grammatica, ad una doppia interpretazione. "Possono significare: Male (per noi) che non vendicammo l'assalto di Teseo (come avremmo potuto e dovuto), chè a quel modo un mortale, com'è Dante, non sarebbe oso di ficcarsi qua dentro. Od anco ironicamente: Non abbiamo vendicato male l'assalto di Teseo, e tanto avvertimento, o mortale, ti basti,,. Egli però sta per la prima interpretazione, che secondo lui, risponde meglio al tutt' insieme, e sarebbe confermata dal verso, citato già:

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dal fatto che già la conobbero, pur non accettandola, il Buti e Benvenuto da Imola.

Ma nessuno forse ne sostenne le ragioni prima del Venturi. Egli crede che le parole delle Furie esprimano piuttosto un vanto, che essi si dànno "per animarsi alla vendetta, stimolandosi scambievolmente, e mostrando di tenere in pugno quella minacciata trasformazione: sí il farem di smalto". E soggiunge: Non mal ci vendicammo, diceano, né leggermente punimmo l'assalto in Teseo, essendo chiaro per le favole non esser rimaso impunito di quello, mentreché Piritoo suo compagno fu gettato a divorare al Cerbero, e Teseo fu arrestato e ritenuto in ceppi per fin'a tanto, che venne Ercole a liberarlo,; e accenna pure al fatto che, secondo la testimonianza di Virgilio, a leggenda ci mostra Teseo tornato dopo la morte nell'Inferno, dove rimarrà in eterno ad espiazione della propria colpa.

Dopo il Venturi accettò questa interpretazione il Rossetti.

Egli nota che quello, pur non afferrando il vero senso del verso di cui trattiamo, tuttavia lo spiegò rettamente, tenendosi stretto alla parola. A suo giudizio va accettata la seconda interpretazione per ragioni tanto di sintassi quanto di senso. Per ragioni di sintassi, perché, per interpretare diversamente questo verso, bisogna violentare la costruzione; per ragioni di senso, perché le Furie, vantandosi di non essersi mal vendicate di Teseo, anzi di averlo saputo punir bene dell'assalto dato alle mura di Dite, procuravano di atterrir maggiormente Dante con l'idea di un castigo uguale che gli preparavano: e tutto questo era nel loro interesse, che viene tradito invece dall'altra interpretazione. E il Rossetti ritiene falsa quell'altra per il fatto che Teseo fu veramente soverchiato dalle Furie, e non sarebbe sfuggito loro senza l'aiuto di Ercole.

Concludendo, dunque, diremo che, movendo dagli argomenti del Venturi e del Rossetti, a cui si possono aggiungere le altre ragioni addotte, e specialmente quella della somiglianza col passo dello stesso Canto IX dell'Inferno, in cui il Messo celeste ricorda la sconfitta di Cerbero, pare preferibile, perché più semplice e naturale, la seconda interpretazione.

CARLO SALSOTTO.

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RECENSIONI

L'A. di questo libro, considerando che non pochi studiosi devono aver sentito più volte il bisogno di avere a mano raccolti in una piccola crestomazia le notizie e i testi dei Trovatori menzionati da Dante, ha avuto l'idea di compilare un libro che supplisse alla lacuna lamentata.

1

H. J. CHAYTOR. The Troubadours of Dan- | ferno. Anche qui è dubbio assai che per un te. Oxford, At the Clarendon Press, Clarendon Press, ricordo classico cosí comune nella lirica me1902, in-16, pp. XXXVI-242. dievale pur d'Italia, Dante attingesse proprio a Bernardo da Ventadorn; il riscontro provenzale non c'insegna dunque nulla di particolare. Rispetto alla similitudine dell'allodola nella prima canzone il Chaytor ricorda un articolo del Toynbee pubblicato nel 1897; ma giustizia voleva che fosse menzionato Francesco Torraca il quale fece per primo il riscontro della similitudine dantesca col passo provenzale e ricordò anche altri lirici italiani antichi in cui l'immagine ricorre.' Aggiungiamo ancóra che una volta messosi su questa via del riferire poesie provenzali che offrono riscontri con luoghi danteschi, il Chaytor non doveva dimenticarne tante altre. Per esempio anche la similitudine famosa del tizzo verde (Inf., XIII, 40) è in germe in una poesia di Gaucelmo Faidit, come indicò il De Lollis, il quale pure recentemente additò piú riscontri fra alcune canzoni di Dante e alcune poesie di Giraldo da Bornelh. Ma riferire nel volume tutte le poesie provenzali che offrono di questi riscontri sarebbe stato troppo lungo; si potevano invece i singoli luoghi raccogliere in un succoso capitoletto. Cosí in un libro del genere di quello che ha ideato il Chaytor, avremmo voluto, per istruzione di chi non è addentro in questi studî, un'informazione compendiosa di ciò che si è fino ad ora determinato intorno alla conoscenza che Dante ebbe della lingua e letteratura provenzale. Cosí sarebbe stato bene indicare al lettore in forma bibliografica gli studî piú notevoli su Dante e i Trovatori. Nella prefazione il Chaytor ne indica solo alcuni, ma vi manca un articolo del De Lollis su Dante e i Trovatori pubblicato nella Flegrea di Napoli del 1899; uno studio dello Scherillo su Bertram dal Bornio, l'articolo del Torraca su Folchetto da Marsiglia a pro

Il Chaytor ha raccolto alcune poesie di sette trovatori (Peire d'Alvernhe, Bertran de Born, Giraut de Bornelh, Arnaut Daniel, Folquet de Marselha, Aimeric de Belenoi, Aímeric de Pegulhan, Sordello), in tutto quarantadue, scelte o perché citate direttamente da Dante nel De vulgari Eloquentia, 1 o per dar saggio di quei poeti che Dante menziona nelle sue opere. Non sappiamo però che cosa. ci stia a fare il primo numero che è la versione provenzale della Visione delle pene dell'Inferno di San Paolo; questo documento appartiene a un altro ordine di illustrazioni del Poema, e ad ogni modo noi non abbiamo alcun sospetto che Dante apprendesse quella visione del testo provenzale. Cosí pure cre diamo sia inopportuno nel libro del Chaytor il poemetto di Sordello Documentum honoris; soltanto per amore di compiutezza si poteva citare quel passo su cui richiamarono già l'attenzione il Torraca e il Guarnerio 2 raffrontandolo con un luogo del Poema, che il Chaytor avrebbe potuto rilevare.

Nell'Appendice il Chaytor ha riferito due canzoni di Bernardo da Ventadorn, una delle quali comincia colla famosa similitudine dell'allodola di cui Dante si ricordò nel Paradiso; l'altra contiene l'accenno alla lancia di Peleo menzionata da Dante nel Canto XXXI dell' In

1 Il prof. E. MONACI ha di recente pubblicato nella sua collezioncina di Testi Romanzi per uso delle scuole le Poesie Provenzali allegate da Dante nel De Vulgari Eloquentia, Roma, E. Loescher, 1903.

2 Giorn, stor. d. Lett. ital., XXVII, 397.

1 Noterelle dantesche per nozze Morpurgo-Franchetti, Firenze, 1895; cfr. Giorn. dantesco, III, fasc. 7-8.

posito della monografia dello Zingarelli, tutti e due pubblicati nella Nuova Antologia del 1897; e altri che per brevità qui taccio, ma che avrebbero potuto essere raccolti facilmente servendosi del Bullettino della Società dantesca e di questo Giornale.

Il libro del Chaytor, come quello che si rivolge a coloro che non fanno professione particolare di studî provenzali, contiene una breve grammatica del provenzale, un glossario e abbondanti note storiche grammaticali e stilistiche per facilitare l'interpretazione delle poesie. Il Chaytor in questa parte, come nell' Introduzione generale sulla poesia provenzale, dichiara di non aver voluto fare opera originale, ma riassumere piuttosto le ricerche e gli studi altrui, e noi possiamo dire ch'egli ha attinto con diligenza ad essi.

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derazioni, come allora che ci presenta Dante occupato a negoziare in pietre preziose;' qualche altra l'incompleta conoscenza della letteratura storica italiana contemporanea, facendole preferire, per esempio, il De Gubernatis a scrittori piú sodi e più profondi, la conduce, tra l'altro, a interpretare malamente i versi su Gentucca 2 e le impedisce di trarre dall'episodio di Forese tutto quel partito che indubbiamente la sua delicata fantasia e la sua intelligenza avrebbero saputo trarne se ella avesse conosciuto gli studi del Del Lungo. In compenso è una retta squisita penetrazione psicologica in più di una pagina, è una intuizione di ciò che è l'arte di Dante, un sentimento profondo della poesia di lui!

Non di tutta l'arte, veramente, nè di tutta la poesia: il lato, dirò cosí, eroico sfugge completamente alla signorina Faure, mentre ella comprende e rende mirabilmente il lato sen

"

3

1 Pag. 66: "On sait qu'à Florence, pour obtenir les charges publiques, les citoyens devaient être incorporés dans une des arts,, de la cité. Dante avait choisi celui des médecins et apothicaires; l'art des apothicaires comprenait le commerce des produits pharmaceutiques, des parfums d'Orient et de toutes les pierres précieuses. Plus d'un vit peut-être l'Alighieri songer gravement en se penchant sur les rubis, sur les topazes dont il semblait étudier les feux, et fut loin de s'imaginer que le poète, en maniant ces pierreries, y surprenait un reflet des éblouissements rêvés pour son Paradis

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E a pag. 245: "Il songe. A Florence, dans la Casa Alighieri, pour l'étroite ouverture de la fênetre, dans la chaleure d'une après-midi d'été, quelque rayon furtif se glissant à travers l'ombre de la pièce tombait sur des rubis, des émeraudes, des perles et des topazes, epars et

Dopo una larga introduzione, nella quale parla in generale delle donne di Dante, l'Autrice viene a discorrere delle vive (Les Vivantes), cioè delle donne ch'eran vive quando Dante scriveva e delle quali come di vive egli parla, vale a dire di Primavera, l'amata di Guido Cavalcanti, della Pietosa consolatrice di lui stesso, di Nella e di Gentucca; quindi nel capitolo successivo (Dans la forêt disseminés, que Dante regardait, puisque son art comobscure) parla delle tre donne benedette che curan di Dante nella corte del cielo (11fluences du ciel) e dell'incontro di Dante con Virgilio (La rencontre). Il terzo capitolo (Les mortes) s'intrattiene delle dannate, Marzia, Francesca e Manto; delle espianti Pia e Sapia il quarto (Ames souffrantes), e il quinto delle beate (Les immortelles): Lia e Rachele, Marta e Maria, le sante donne alla tomba di Cristo, Matelda, Beatrice, Piccarda e Cunizza. Finalmente l'ultimo capitolo (Le dernier chant) è dedicato al XXXIII canto del Paradiso e particolarmente alla preghiera di S. Bernardo.

Il libro non porta alcun contributo di fatti nuovi e dei vecchi non sempre discorre con esattezza; qualche volta, forse trascinata da non so quale fantasia, l'Autrice prende alla lettera cose che vanno intese con una certa larghezza e ci ricama sopra poetiche consi

prenait le commerce de ces trésors „. E questo a proposito della mirabile comparazione del XIV del Paradiso, V. 112-114, quantunque, è giusto riconoscerlo e se n'ha un esempio di quella verbosità di cui parlo più oltre, l'Autrice non metta la comparazione in diretta relazione con questa sua fantasia.

2 Fra tante che potrei citare mi sia lecito riferire queste righe della pag. 258, che mi sembrano singolarmente indovinate ed efficaci: "Dans le Paradis, la comparaison (di Beatrice) s'impose avec une sainte de vitrail. Comme la sainte du vitrail elle s'illumine en transmettant la lumière; elle passe de la rougeur de Mars à la blancheur de Jupiter, semblable à cette sainte dont la beauté se transforme des pâleurs de l'aube aux feux du couchant, pour flamboyer dans l'éblouissement de midi; pour s'attendrir sous les reflets du crepuscule „. Certo non è esatto che Beatrice si colorisca dei colori dei varì pianeti, ma nell' insieme è indicato come non si potrebbe meglio il successivo accrescersi della bellezza di Beatrice, nonchè il carattere morale di lei che appunto s'illumina illuminando.

3 Pag. 119: Une femme est née qui ne porte pas encore de voile, et qui te fera trouver douce ma ville un jour, bien que plus d'un l'en réprimande „

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