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il Titano e i monti della Carpegna ed anche i marinai locali lo sanno per pratica,.1

Per aggiungere, in fine, a tutte queste testimonianze una dimostrazione scientifica, pregai l'amico carissimo prof. A. Mori, libero docente all'Istituto superiore, lustro e decoro dell'Istituto geografico militare, il quale scrivevami testé:

Caro Morici,

Ho fatte le opportune verifiche: è vero che, se il Titano si ergesse proprio lungo la visuale Classe-Catria, esso, coi suoi 748 m. di altezza, intercetterebbe la veduta scambievole dei due punti: perché, come si deduce dai diagrammi del Galassini (Club Alpino, Bollettino del 1894) senza stare a fare tanti calcoli numerici, si deduce che, a circa 53 km. di distanza, quanta è quella che intercede da Classe a S. Marino, l'altezza dell'ostacolo per la visibilità del Catria dovrebbe essere di circa 650 m. e non di S51, come da un calcolo errato, in cui appunto non si teneva conto della sfericità terrestre. Però la visuale anzidetta non passa per il Titano, che ha proprio la sua cresta diretta nel senso della visuale, ma la lascia a circa 1 km. a ponente e, lungo di essa, le altezze maggiori che incontra sono quelle di Sasso Feltrio e di Monte Altavelio, nessuna delle quali raggiunge però 600 m.; onde non costituiscono un ostacolo. Quanto al mettere in dubbio che Ravenna sia compresa nel raggio di orizzonte del Catria, non vi può essere discussione di sorta. Detto raggio è dato dalla formula

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Poiché dalle parole del sig. Moretti qualcuno avrebbe potuto dedurre, che la visibilità del Catria si dovesse soltanto alla potenza del canocchiale, aggiungo qui la dichiarazione che l'egregio sig. Capitano mi scriveva gentilmente il 6 agosto p. p.: "che cioè il Catria si vede da alcuni punti elevati di qui [Ravenna] ad occhio nudo e che il sussidio degli strumenti non serve che a provare scientificamente che il monte che si vede è proprio il Catria e non altro, a ciò debbo aggiungere anche che, quando nel Bollettino d. Soc. dant. vol. V, pag. 48, n. 2, dopo di aver detto che Dante doveva aver visto dalla Pineta il gibbo famoso, soggiunsi: "Con ciò, del resto, non intendo escludere la possibilità che l'abbia osservato anche dal Montefeltro „; ma è certo che D. si recasse in questa regione?

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Era visibile, mi pare, in quelle poche parole della Rassegna, che io, anche col referendum, propendevo dalla parte sua, anziché da quella del sig. N[icoletti]. Ma naturalmente rimanevo titubante alle sue recise negazioni. Ora però, dopo quanto Ella replica, non c'è ragione di dubitare. Il sig. N[icoletti] apprenderà da ciò che certe tradizioni è meglio lasciarle allo stato nebuloso, e non volerle provare; la prova si ritorce. Grazie dell'onore che mi ha fatto colla sua lettera, e mi creda

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Giudizio, bensí la Storia del Paradiso. Il Giudizio che è in Palazzo ducale è del Palma giovane, e un Giudizio poi del Tintoretto è in Santa Maria dell'Orto....

....

Venezia, 26 agosto.

vengo ora dalla Madonna dell'Orto che, per rispondere al tuo desiderio, ho visitata.

Per prima cosa ho interrogato il nonzolo (uomo istruito assai più che la professione sua non domandi) sul ritratto. Egli mi ha risposto, come di cosa a lui notissima: "Sicuro: èccolo là!, e mi ha mostrato un nudo con la nuca pelata rivolta allo spettatore, dalla cintola in giú immerso nell'acqua.... di Stige (o Acheronte?) e, con una catena al collo, legato alla barca di Caronte (o Flegiàs?).

Veramente di Dante non ci seppi scorger proprio nulla, tanto meno, cioè, in quanto manca per intiero un distintivo non indifferente: la faccia. Domandato il mio duce su che si fondasse la congettura, egli mi ha risposto che si aveva la cosa per tradizione; che, cioè avendo il Tintoretto preso a modello la favola dantesca, aveva creduto bene mettervi Dante a quel modo. Come vedi, il ragionamento fila ch'è un piacere!

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me scriveva il Barlow "L colpisce veramente,? Se fosse un altro, nel quadro stesso, il mio valoroso amico lo avrebbe ravvisato meglio di me e sull'additatoci non mette il conto spender una parola di piú (cfr. i vv. 42-44 dell'Egloga I di D. a G. del Virgilio).

Il prof. P. Papa cosí chiudeva l'importante saggio citato (pag. 13): "Quanto al "Giudizio del Tintoretto occorrerebbe esa"minarlo direttamente, perché il Barlow non dà indicazioni topografiche, e da una pic"cola fotografia d'insieme difficilmente i per"sonaggi sono riconoscibili. Sarebbe non "senza interesse che qualche studioso e di "Dante e dell'Arte, avendone l'opportunità, LL si mettesse alla curiosa ricerca.... "

Se qualcheduno mi avrà preceduto (e tardai sperando ciò appunto), tanto meglio: sarà egualmente utile, però, conoscere insieme anche quanto riferisce sull'argomento il Professore veneziano, cultore appassionato dell'arte in generale e di quella della sua città in particolare.

Ella intanto, egregio signor Direttore, accolga i cordiali saluti del

Fonzaso, agosto 1903.

suo obbl.mo ANTONIO FIAMMAZZO.

RECENSIONI

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edizioni critiche di scritture come queste, ogni redazione delle quali, per il carattere loro stesso, ha e deve avere un peculiare significato e un determinato valore; cosí credo che ogni indicazione d'autore, che si riscontra nei varî codici, abbia il suo significato e la sua particolare importanza, e che la determinazione critica del primo compilatore valga fino a un certo punto. Non per questo, però, voglio mettere in dubbio il valore e il merito del prof. Filippini, il quale con lo studio diligente e dotto delle varie redazioni è riuscito a determinare che la profezia deve risalire all'ultimo decennio del secolo XIV e primo autore ne fu, probabilmente, un frate Muzio da Perugia.

Per i nostri studi la profezia è importante come quella che si riattacca a quell'ordine

di sentimenti e di idee da cui uscí il Veltro | allegorica, ed a farne una compiuta allegodantesco, e più particolarmente perché l'au

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Si tratta dunque di un documento importante per lo studio della fortuna di Dante nel secolo stesso che lo vide fiorire, e tanto piú che le reminiscenze del Poeta divino. non si limitano a questa, la più esplicita e piú caratteristica, che ho ricordato: sarebbe stato bene, che nelle note, l'editore tutte le indicasse. Uno studio approfondito della poesia ci rivelerebbe più strette attinenze del pensiero dantesco con quello che il presunto A. rappresenta e concorrerebbe ad illuminarci sulla formazione e quindi sul vero significato di quello. Particolarmente importante mi pare la strofa LXII e di essa il secondo verso:

Rimarrà sopra terra pocha gente
(et) omne spiritual serrà gaudente.

L'editore nota che non si sa che cosa l'A. abbia inteso di dire nel secondo verso, e si domanda se l'accenno alla sètta degli spirituali sia ironico; d'ironico io non ci sento niente, e credo che il verso rifletta l'aspirazione di uno spirituale appunto, a tempi migliori; tale, per me, sarebbe l'A., non dell'intera profezia, ma di una delle redazioni di essa; ed ecco confermato quanto dicevo a proposito della scarsa importanza che hanno necessariamente le edizioni critiche di simili composizioni e del valore peculiare di ogni singola redazione.

Vicenza, settembre 1903.

GIOACHINO BROGNOLIGO.

GIOVANNI GARGANO COSENZA Il simbolo di Beatrice. Messina, V. Muglia, 1903. È questo un volumetto di 170 pagine, nel quale l'A. primieramente espone come colla realtà storica di Beatrice non ripugni il senso simbolico, sicché la Vita Nuova, se ha fondamento in alcuni fatti reali, è per altro opera

1 Cosí, concordi, le varie redazioni; non ho bisogno, però, di ricordare che Dante scrive rida.

ria, provvide Dante con le prose che ricollegano i componimenti poetici. Che l'opera obbedisca a un disegno prestabilito si dimostra coll'ordine simmetrico in cui sono disposti i componimenti lirici, colla tendenza di Dante ad allegorizzare, quale apparisce nel Convivio e nella Commedia, e coll'amore del simbolo cosí comune e diffuso fra i contemporanei del Poeta da indurli a ricercare un senso riposto, in opere antiche che per noi moderni nulla hanno d'allegorico. Movendo poi alla ricerca del simbolo di Beatrice, l'A. si parte dal nome, che, mentre si addice a donna e lo crediamo storicamente vero, ha in sé valore simbolico di essere, che dà beatitudine. Ma questa beatitudine, ricavava Dante e dal De Amicitia di Cicerone, e dal De Consolatione di Boezio esser posta nella rectitudo voluntatis; rettitudine e conseguente beatitudine, che conducono l'uomo a Dio, e a Dio deve esser condotto Dante da Beatrice, la quale fin dalla prima visione della Vita Nuova vedesi destinata a ritornare in cielo ed ha frattanto in terra la sua precorritrice in Vanna, come Cristo in Giovanni.

Aristotele, sant'Agostino e l'Aquinate, i tre autori maggiormente studiati da Dante pongono come fine ultimo dell'uman genere la beatitudine, quella terrena e quella celeste, cui si giunge per le due vie della vita attiva e della contemplativa, ad ognuna delle quali è virtú indispensabile la rectitudo voluntatis. Qui il Gargano ricercando se questi concetti si ritrovino nelle varie opere di Dante, nota che egli nel De vulgari Eloquentia dice di aver cantato la Rettitudine, con che pare al nostro critico che Dante alluda alla Vita Nuova piuttosto che al Convivio: e prendendo in esame le altre opere, ritrova i concetti etici dei tre antichi maestri nel De Monarchia specialmente nella conclusione dell'opera, di cui non poco si sono giovati i moderni commentatori della Commedia nell'esposizione del concetto fondamentale della Visione.

Venendo all'epistola non giunta fino a noi per la morte di Beatrice, ed all'altra per la morte di Clemente V ambedue comincianti con le parole di Geremia Quomodo sedet sola civitas, il Gargano nota come nella seconda gli accenni alla politica contemporanea v'entrano come di sbieco, e che concetto principale è un'esortazione a Rettitudine, concetto che doveva informare anche la prima di cui

si fa cenno nel Cap. XXX della Vita Nuova e che (aggiungiamo noi) molto non si allontana da quello del sonetto: Deh peregrini, che pensosi andate, e se ne inferisce che la seconda epistola o non è apocrifa, o il falsificatore la modellò sulla prima, prendendone non solo l'introduzione, ma ancóra molti concetti.

Nel Convivio la pace dell'umana volontà si ha non piú nella Divina visione, si ha nella filosofia, ma l'amore alla Donna gentile simbolo della filosofia è un traviamento: mortagli infatti Beatrice, Dante si ostina a cercare la felicità in terra, mentre doveva levarsi dietro a Beatrice non piú terrena, doveva levarsi dietro a quella Rectitudo voluntatis, che nel farsi celeste gl'indicava la vera via della felicità, cioè la vita contemplativa: da ciò i rimproveri di Beatrice nel Paradiso terrestre.

Ritornando all'esame della Vita Nuova il Gargano è con quelli che per Vita Nuova intendono vita rinnovellata, vita cioè, che cessa d'esser vegetativa e diviene intellettiva per effetto d'amore; il che si reca a danno lo spirito naturale, che presiede alla vita vegetativa col lamento: Heu miser quia frequenter impeditus ero deinceps.

la vera beatitudine, che non acquisterà se non mediante la vita contemplativa. Amore che comparisce al Poeta lungo la via, guardando in terra e in abito di peregrino leggermente vestito e di vil drappi rispecchia l'animo di Dante troppo dato ad operazioni mondane e peregrinante d'uno in altro amore: infatti Amore portando il cuore del Poeta alla seconda donna della difesa, altro non fa che condurlo ad un nuovo disinganno, che sempre più lo allontanerà da Beatrice della quale perde il saluto. Questo danno fa palese a Dante il suo errore, e allora Amore gli apparisce non più come peregrino, ma tale, che dice di sé al Poeta: Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic, giacché ben vede il Poeta dove dovrebbe porsi insieme con Amore, ma non vi si pone ancóra coll'anima. E quando vi si pone, ritornando tutto a Beatrice, alla vista di lei tanto si turba, che sviene e poco manca che muoia, perché la beatitudine sua terrena è massima e confina con quella celeste. Il gabbar di Beatrice colle altre donne la vista del Poeta è secondo il Gargano una confessione che Dante fa dell'incapacità sua a tollerar tanto bene quanto è quello che spera da Beatrice e troverebbe meglio la sua ragione nella cagione di essa incapacità, nei traviamenti cioè, che hanno tolto al Poeta il saluto della sua donna, sicché egli è costretto a cercare la sua beatitudine, non piú nel saluto, ma nella lode di lei.

Lasciato lo stile narrativo, Dante entra in quello encomiastico colla canzone: Donne che avete intelletto d'amore, con la quale, a detta del Poeta stesso per bocca di Buonagiunta, cominciano le nuove rime di elevata forma e di profondo contenuto scientifico, e vi si trova un primo cenno al Poema, quale poteva essere allora nella mente di Dante, cioè nel periodo d'incubazione. E noi accet

Nella prima visione, Beatrice la donna del saluto divenuta per il Poeta la donna della salute appare sulle braccia d'Amore, che le presenta il cuore di Dante ardente per la terrena beatitudine, che è frutto della Rectitudo. Ma finché è terrena questa Rectitudo è imperfetta e non senza pericoli di traviamenti del giovane amante; perciò Beatrice di quel cuore si pasce paventosamente, e Amore che non soltanto teme, ma prevede quei traviamenti, rompe in pianto e conduce Beatrice in cielo, dove solo è beatitudine perfetta. La ritrosia di Dante a palesare l'oggetto dell'amor suo avrebbe ragione in ciò che gl'interroganti nulla intenderebbero di questo amore, che non è per donna terrena. Le donne dello schermo rappresenterebbero pic-tando l'opinione del Gargano stimiamo inutile coli traviamenti e sarebbero nel tempo stesso un espediente per inserire nella Vita Nuova rime giovanili scritte per altre donne, ma tali che si prestassero ad un senso simbolico. Anche rispetto alla cavallata, accanto al fatto reale, che mal potrebbe negarsi, avremmo il simbolo. Dante cercando la beatitudine nella vita attiva corre dietro ad una delle tante false immagini di bene (prima donna dello schermo) e si allontana da Beatrice ossia dal

il travagliarci intorno ad una contradizione fra la canzone ove Beatrice vien chiamata la speranza dei beati e la terza Cantica della Visione in cui si afferma che di speranza i beati non hanno d'uopo, considerando che mentre Dante scriveva la canzone, non era ancóra teologo, qual divenne poi, e la Commedia non era nella mente sua che un primo e mal definito disegno.

Eccoci ancora ad un passo oscurissimo.

della Vita Nuova, là dove Dante dice di trascorrere sulla morte di Beatrice per piú ragioni, tra cui questa di non farsi lodatore di sé medesimo, il che mal s' intende: ma il Gargano molto ingegnosamente spiega questo passo, notando che Dante col suo darsi fin dalla puerizia all'amore di Beatrice si è meritato di essere, nonostante i traviamenti anteriori e posteriori alla morte della sua donna, di essere eletto al gran viaggio pei regni oltremondani, in pro del mondo che mal vive. Infatti Beatrice divenuta eterna ed in sogno ed altrimenti revoca Dante a sé, per lui visita l'uscio de' morti e gli dà per compagno Virgilio al gran viaggio. Dal passar di Beatrice ad altra vita comincia a disegnarsi per Dante quell'alto destino, di cui si stima incapace nel secondo Canto dell'Inferno: né di ciò poteva far cenno nella Vita Nuova senza apparire lodatore di sé stesso.

Passa il Gargano a trattar dell'Amore, che è secondo Dante studio di bene intellettuale e morale, e come questo s'identifichi con Beatrice. Ma il bene si conosce mediante la luce, e Beatrice è la luce che si porge a Dante, perché si avvezzi alla luce celeste, e a Dio, suprema fonte di essa luce, sicché Beatrice che in terra era Rectitudo voluntatis, diviene in cielo amore e luce di sapienza, teologia che insegna la verità.

Giunto a questo punto non vedo perché invece di mostrarci Beatrice nel Paradiso terrestre col nuovo simbolo di Teologia, a cui

cosí logicamente si giunge dal primo, il Gargano voglia vedervi sempre la Rectitudo, divenuta con lieve modificazione libero arbitrio; né molti consentiranno, credo, coll'A., che il mettere in fuga la volpe sia ufficio meglio spettante alla Rettitudine che alla Teologia, allegando che questa colle sue astruse disquisizioni fu nel medio evo più volte cagione d'eresia. Il che è vero, ma la Teologia simboleggiata da Beatrice apparsa prima sul mistico carro e lasciata poi a guardia di quello, non può essere che quella pura ed ottima, di cui la Chiesa si giova a combattere gli avversari nella sua civil briga.

Molto invece ci garba un'acuta interpretazione del simbolo di san Bernardo, interpretazione quasi identica a quella di Pietro Vigo che nel suo pregevole studio: L'ultima Guida di Dante e l'affinità di due anime grandi, certamente ignorato dal Gargano, espone ed a parer mio vittoriosamente dimostra, come Bernardo simboleggi il misticismo o meglio la contemplazione.

L'importanza e la bontà del lavoro del Gargano apparisce dal sunto, che qui abbiamo dato, dei concetti principali e piú nuovi; e della bella dottrina dantesca, storica e filosofica dell'A., fornisce chiara prova il molto apparato d'erudizione, forse soverchio in un operetta destinata non al comune dei lettori, ma ai soli studiosi di Dante.

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BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

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G. Carnesecchi e f.], 1903, in-8°, pp. xvn[1]-864.

In questa quinta edizione il buon commento del Casini, per le nuove cure adoperate dall'A., è migliorato in modo che veramente gli studiosi possono trovarvi rispecchiato il miglior frutto delle ultime indagini intorno al testo, alla interpretazione generale e particolare, alla cronologia, alle fonti e alla lingua della Commedia e alla sua illustrazione storica e dottrinale. Non cosí ci pare migliorato nell'aspetto tipografico: la carta è ancóra, come nelle precedenti edizioni, di qualità scadente, troppo fitta, sebben nitida, la stampa, brutto il formato e incomoda la mole del volume. (2598)

BELLEZZA P. - Del citare Dante. (Nella Rass. nazionale, CXXX). (2699)

1 Livorno, Giuseppe Meucci, 1903.

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