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Strenna dantesca, compilata da ORAZIO BACCI e da G. L. PASSERINI, anno II. — Firenze, tip. Ariani, 1903.

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vere con ogni mezzo la tanto benemerita so-
cietà "Dante Alighieri,. Cosí la Strenna
adempie degnamente anche questo secondo
anno, i vari uffici a cui deve servire per l'ono-
re del sommo Poeta, e siamo certi che non
le verrà meno il favore degli studiosi.
R. FORNACIARI.

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La seconda di queste Strenne che con lodevolissimo pensiero iniziarono i due egregi cultori di Dante, non riuscirà ai lettori meno opportuna né importante della prima, che pure fu accolta con tanto favore. Di poesia non vi è che un frammento d'Aurelio Costanzo da un suo poema lirico น con Dante e un'ode dell' Uhland, maestrevolmente tradotta dal prof. Zardo: ma larga è la parte fatta alle prose che illustrano alcuni punti, sia della storia del Poeta, sia delle sue opere. Oltre al Calendario dantesco, riveduto e accresciuto, oltre a un dotto scritto del chiaro astronomo Angelitti intorno al modo di trovare la Pasqua, questo volumetto offre curiose notizie sulle case degli Alighieri in Firenze, per Isidoro Del Lungo; sulle medaglie di Dante nel Museo del Bargello, per I. B. Supino; sopra alcune pubblicazioni dantesche, quasi affatto ignote, del sec. XIX, per Guido Mazzoni. Giosuè Carducci ricerca "le allusioni di Dante alla Vita Nuova Il D' Ovidio, il Mestica, il Federzoni spargono luce sopra alcuni passi o idee del Poema e lo Zingarelli tenta (forse con piú ingegno che verità) una nuova spiegazione delle poche pecorelle fedeli di san Domenico. Arnaldo Bonaventura, con quella competenza che ha nella letteratura della musica, affronta felicemente la gran questione sull'armonia delle sfere nel Poema di Dante, fornendoci una primizia di un suo Studio su Dante e la musica e Giuseppe Vandelli ci rende conto delle sue assidue ricerche per giungere al testo veramente critico della Divina Commedia, non tacendo le grandissime difficoltà che offre tale intento, ma neppure togliendo la speranza di buon successo, purché non ci si vada con vani preconcetti e ci contentiamo per ora d'avere, invece d'un vero e proprio albero genealogico generale dei codici, alberi genealogici parziali, che sgombrino via via l'intricato terreno. G. L. Passerini ha curato la bibliografia dantesca dell'anno decorso, premettendo assennatissime parole di Orazio Bacci sul bisogno che si sente di frenare questa dantomania, che da ogni parte ci stringe ed affoga. Infine non manca un'eloquente esortazione di A. Eccher, a promuo- | l'A., "ai versi suddetti può attribuirsi benis

FRANCESCO CANTELLI

Astronomia dan

tesca (dai fasc. 2o, 3o, 4° e 5' della Antologia Siciliana). Palermo, Stab. tip. Camillo Lo Casto, 1901.

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Il prof. Cantelli tenta la spiegazione dei versi 151-153 del Canto XXII del Paradiso riguardanti

l'aiuola che ci fa tanto feroci.

Confuta l'opinione del prof. Della Valle che pone il Sole e il segno dei Gemelli, dove si trova il Poeta osservatore, sul meridiano di Gerusalemme, opponendovi direttamente l'asserzione esplicita di Dante, il quale dice che il sole procedeva un segno e piú, il segno dei

Gemimi.

L'A., data l'impossibilità di poter scorgere tutta l'Aiuola nelle condizioni poste dal Poeta, e pure ritenendo Dante sempre esatto nelle sue affermazioni scientifiche, e non ammettendo quindi che egli abbia manomesso la scienza là dove ha voluto che avesse grande importanza, crede di interpretare il verso in quistione "in modo che la parte scientifica non venga maltrattata,. Secondo il prof. Cantelli il verso "potrebbe ben significare che al Poeta la parte a Lui visibile della quarta abitabile si mostrava nei piú minuti particolari,. Il che, se non mi sbaglio, vorrebbe significare che Dante non avrebbe veduta tutta intiera l'Aiuola, ma bensí tutta, fin nei minimi particolari, la parte visibile della medesima.

Par., XXVII, 79 e segg., il prof. Cantelli dice Commentando il passo, quasi parallelo, del che anche qui i commentatori hanno preso troppo alla lettera i versi:

Io vidi mosso me per tutto l'arco
che fa dal mezzo al fine il primo clima,

ed hanno poco curato l'accordo della parte letteraria colla parte scientifica. Secondo

simo il significato che Dante si era spostato di un arco lungo quanto quello che fa dal mezzo al fine il primo clima, e non propriamente su quell'arco,. In questo modo il sole si sarebbe trovato sul meridiano di Cadice, e la quarta abitabile per conseguenza sarebbe stata illuminata sino al lido di Fenicia; mentre Dante, nei Gemelli, a 45° piú indietro dal sole, avrebbe potuto vedere per altrettanto spazio anche ad est di Gerusalemme, dato che questo spazio fosse stato illuminato.

Il prof. Cantelli spiega poi i versi 103105 del XXXIII del Purgatorio: egli si scosta alquanto dai predecessori che commentano i più lenti passi del sole nel cerchio di merigge, e "preferisce ammettere che Dante, cultore appassionato di Astronomia, abbia voluto attribuire i passi piú lenti del sole non al suo spostamento boreale, ma alla stessa altezza della montagna che apportava un aumento notevole delle ore temporali, e quindi un effetto piú visibile dei passi piú lenti. Questa interpretazione viene applicata anche ai versi 10-11 del XXIII del "Paradiso.

L'A. poi, passando in rassegna altri passi della Commedia dove la parola aspetto è usata nel significato di vista, veduta, conclude che l'ultimo verso della terzina potrebbe significare: "perciocché questi fenomeni in questo e nell'altro emisfero avvengono „.

Ritornando alla prima osservazione dell'aiuola, al prof. Cantelli non sembra naturale l'altra interpretazione per la quale il Poeta avrebbe per tre ore continue guardato l'aiuola, o, per dir meglio, il mondo trascorso; vale a dire per la metà del tempo impiegato dal Poeta nei Gemelli. Questa opinione dell'A. non differisce dalla mia. 1

Se non che, con qualche mia maraviglia, due mesi dopo, cioè il 25 gingno 1901, in una lettera del dantista astronomo prof. Filippo Angelitti al prof. Giovanni Rizzacasa d'Orsogna veggo che il prof. Cantelli ha cambiato di parere e ritiene col prof. Angelitti, che veramente Dante ha impiegato non h. 2,24 nella retrospettiva sua osservazione, come voleva il Rizzacasa, ma anche di piú. "Tre ore non son troppe nell'osservazione del mondo sottoposto,,, scrive il prof. Ange

1 Cfr. Giorn, dant., IX, 176-177.

GIOVANNI RIZZACASA D'ORSOGNA, Polemiche dan tesche. Sciacca, tip. edit. Bartol. Guadagna, 1902.

litti al Rizzacasa nel citato opuscolo "Beatrice invita il Poeta a tale osservazione, affinché si presenti quanto più può giocondo alla turba trionfante, ecc.,.

Io di certo non presumo di far cambiar d'opinione il prof. Angelitti, e tanto meno poi il prof. Rizzacasa della sua; perciò non spendo parole in proposito: rimetto il lettore a quanto scrissi a pag. 176 dell'anno IX di questo giornale.

In quauto al nuovo opuscolo del prof. Rizzacasa credo di tacermi, perché le gentilezze con cui l'A. ha lardellato il suo scritto al mio indirizzo mi confondono e mi rendono impotente ad affrontare un maestro tanto

cortese.

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Dei dieci studi raccolti nell'importante volume dei Frammenti di critica letteraria, quattro interessano direttamente gli studî danteschi; sono quelli rispettivamente intitolati Di alcune indicazioni cronologiche in Dante e nel Mussato. Su alcuni luoghi dei carmi latini di Giovanni del Virgilio e di Dante,. Sull'episodio di Ciacco. - Sopra un luogo dell'episodio di Farinata. La conclusione del primo si deve a mio parere accettare senz'altro; per essa abbiamo un nuovo e forte argomento in favore di chi pensa sia il 1300 l'anno della visione. Quella del quarto, che il verso del Canto X dell'Inferno "E se tu mai nel dolce mondo regge, deve significare: cosí tu possa reggere, resistere, agli assalti degli uomini e della sorte nemica, appare vigorosamente sostenuta com'è, semplice e ovvia e meriterebbe anch'essa di essere senz'altro accettata, se non si opponesse l'aggettivo dolce: com'è possibile, infatti, che Farinata chiami dolce quel mondo, alle tempeste del quale augura a Dante di poter reggere? La contraddizione sarebbe troppo grossolana, e del tutto ingiustificata.

Persuasive sono le osservazioni intorno ad alcuni passi controversi delle egloghe di Dante e di Giovanni del Virgilio; vigorosamente sostenute le argomentazioni sull'episodio di Ciacco, che, secondo il Belloni, il Poeta avrebbe aggiunto all'opera sua dopo che già aveva scritto il Canto di Farinata; non facile adesione troverà l'ardita conclusione, anzi risoluti oppositori, ma per l'egregio A. non sarà piccola lode l'aver posto tanto acutamente la questione.

In appendice allo studio intitolato Testiana, il Belloni pubblica due canti inediti, i soli rimasti, di un poema di Fulvio Testi sugli onori di Pantea; vi abbondono le reminiscenze dantesche e non tutte sono state notate dall'A., e quindi sono non piccolo documento per la fortuna di Dante nel secolo XVII.

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Degno di tutta l'attenzione dei dantisti è l'upuscolo su Dante e Lucano, nel quale il prof. Belloni, movendo dal modesto proposito di dare una breve appendice allo studio del Moore, sullo stesso argomento, "spigolando nel campo ov'egli ha con la consueta perizia mietuto,, grazie a un accurato e acuto confronto dei luoghi della Commedia coi relativi della Farsalia risolve, a mio parere esaurientemente, alcune gravi questioni di ermenutica dantesca. Infatti, per tenermi soltanto alle principali delle sue conclusioni, io credo che nessuno, lette le argute e dotte sue pagine, vorrà negare al Belloni che nel principio del Canto IX del Purgatorio sia descritta l'aurora solare in Italia in contrapposizione all'ora della santa montagna, che il Marcello del Canto VI, 125-126 dello stesso Purgatorio!

COMUNICAZIONI

giunto mi vidi, ove mirabil cosa mi torse il viso a sé....

Quei versi del Canto 23-26 del Paradiso:

E forse in tanto, in quanto un quadrel posa,
e vola e da la noce si dischiava,

Una creduta prolepsi.

―――

sia da mettere in relazione interpretazione
questa del tutto nuova - non col Marcellus lo-
quax della Farsalia, ma col Marcello espugna-
tore di Siracusa ricordato da Virgilio nel VI
dell'Eneide (857 58); che il pregno detto del-
l'Appennino ove nasce l'Arno (Purg., XIV,
31-33) significhi ricco di acque e derivi, non
come vuole il Moore, da Farsalia II, 396-
398 e 437-438, ma da Farsalia II, 399-403,
ove si deve aggiungere Farsalia X, 288-291,
- nuovo questo ravvicinamento e genialmente
indovinato. Cosi è gioco forza, a mio credere,
convenir col Belloni nella questione del dop-
pio giogo di Parnaso e della delfica deità
(Paradiso, I, 16-18 e 32), come riconoscere
improbabile, ma non impossibile o addirit-
tura inverosimile, che la lezione comune dei
versi 85-90 del Canto XXIV dell'Inferno, al-
la quale contrasta seriamente la Nidobea-
tina sostenuta dal Lombardi, derivi dall'er-
ro
rore di uno dei primi amanuensi, il quale non
intendendo la parola chersi la mutò in ché
se, se è vero che il passo deriva, come in-
fatti deriva, da Farsalia IX, 700 e segg.,
dove si racconta che i serpenti, ond'è infe
festato il deserto biblico, nacquero dalle are-
ne ardenti fecondate dalle goccie del sangue
stillante dal capo di Medusa. Qual maravi-
glia se un errore si fosse perpetuato cosí?
Il Belloni stesso ne nota e corregge un al-
tro: Sabello (Inf. XXV, 94-96, Farsalia IX,
761-804) trafitto da un serpente, non fu ri-
dotto in un pugno di cenere, come preten-
dono tutti i commentatori, bensí disparve ad-
dirittura e niente, niente del tutto, rimase del

suo corpo.

GIOACHINO BROGNOLIGO.

in tutti i commenti che ho visti, li ho trovati cosí interpretati: E forse in tanto tempo, in quanto uno strale si dischiava, cioè si sprigiona dalla noce della balestra, e vola e posa, cioè si ferma nel bersaglio, ecc.

È vero che questo aver detto prima quel che avviene dopo, e dopo quel che avviene prima, si giustifica col nome di prolepsi, ma, in tal caso, sarebbe una bruttissima prolepsi, la quale i commentatori vogliono regalare a Dante, senza la minima necessità.

Infatti, Dante non accenna con quei versi al tempo che impiega la freccia a raggiungere il bersaglio, ma al tempo che impiega a posare (che comprende l'incoccarla e il pigliar la mira), a volare (per l'impulso della corda scoccata) e a dischiavarsi dalla noce (cioè uscir fuori dalla balestra o dall'arco). Sicché Dante mise tanto tempo a raggiungere la luna quanto ne mette un arciero o balestriere a incoccare la freccia, disten · dere il nervo e mirare (e mentre che egli mira, la freccia posa), e poi a lasciare andare il nervo, in conseguenza di che la freccia vola ed esce fuori dalla noce. Niente prolepsi, dunque. E mi pare cosí evidente, che parole non ci appulcro.

GIOVANNI Lanzalone.

Il signor Giovanni Agnelli ci manda la seguente let

tera:

Illustre signor Direttore,

Nel Bullettino bibliografico del primo numero di questo periodico, anno X, p. 19, leggo il riassunto dello studio del prof. Pietro Gambèra sulla data del mistico viaggio, il quale tende a dimostrare che errano quei commentatori che pongono la visione nel 1301 dell'era volgare, come pure errano quelli che, costretti a porre il viaggio nel 1300, dicono che il Poeta sbagliò di un anno la data della morte di Forese, perché il 7 aprile 1300 a nativitate Domini risponde al 7 aprile 1301 ab incarnatione. Benché io sia tra quelli che ritengono rispondere meglio la data del 1300, tuttavia non posso menar buona questa ragione del Gambèra, e mi spiego. Anzitutto è molto dubbio che il Poeta abbia seguito nella Commedia l'uso fiorentino nel contare gli anni da quel di che fu detto Ave, perché, a credere questo, fa ostacolo il principio del Canto XXIV dell'Inferno, ove si dice che il mese di febbraio è parte del giovinetto anno, mentre, se Dante avesse seguíto l'uso ab incarnatione, non avrebbe potuto dir cosí perché il febbraio avrebbe occupato il posto che, nell'ordine dei mesi, tiene ora quello di novembre; e in questo mese, come ognun vede, l'anno è tutt'altro che giovinetto. C'è poi una ragione molto rilevante, e che il Gambèra, se non mi

Dante al veglione. Con questo titolo, l'ottima rivista napolitana, La Settimana (II, 10), che l'illustre signora Matilde Serao dirige con operosa cura e con intelletto d'arte, pubblica le seguenti giuste parole di sdegno che noi volentieri riferiamo: "Non bastava l'ingegnosa tro" vata di Vittoriano Sardou; a Milano hanno avuto la "geniale idea di mandare il divino poeta al veglione e "di trasformare Beatrice in una piccante chanteuse, "Me ne dispiace per i buoni ambrosiani; ma la capitale "morale d'Italia poteva risparmiarsi questa vera pro"fanazione della maggior gloria della patria. Dicono "che il caffè-concerto con relative divette sfiatate e "ben arrotondate sia un prodotto della tumultuosa ci"viltà moderna, che ha bisogno d'un'ora di svago dopo "la faticosa giornata. Cosi nelle principali città si "disertano i teatri di prosa, si lasciano fallire le imprese "d'opera lirica, perché il pubblico grosso e minuto " preferisce l'ambiente annebbiato di fumo e d'alcool, dove "si solleticano i più bassi istinti della folla. Ma ca"muffare Dante da istrione e Beatrice da cocotte è "tale un oltraggio all'arte italiana da fa rimaginare quali alte querele si sarebbero levate al cielo, se il "fatto fosse avvenuto in qualche baraccone del nostro "barbaro mezzogiorno.

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"

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Né comprendo che cosa abbiano trovato di spiriแ toso nel divino veglione alcuni giornalisti milanesi per condire d'arguzia l'annunzio al pubblico. Aspetแ tiamoci di vedere Cristoforo Colombo con la maglia "d'acrobata e Alessandro Manzoni con la cipria del pagliaccio. Divertitevi quanto volete; ma lasciate in pace Dante Alighieri e Beatrice Portinari. Se segui"tiamo di questo passo, andremo a studiare l'arte nei "gabinetti particolari. E per la capitale morale d'Italia, "sia detto con tutta riverenza, a dir vero, è un pochino “ troppo

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G. L. Passerini, direttore

NOTE E NOTIZIE

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sbaglio, ignora. È giustissimo che l'anno ab incarnatione anticipi di nove mesi l'anno a nativitate; e per conseguenza, avendo questi due anni di comune solamente tre mesi, cioè il tempo compreso tra il 25 decembre e il 25 marzo, è pure giustissimo che il 7 aprile 1300 a nativitate corrisponda al 7 aprile 1301 ab incarnatione. Questo modo di contare infatti era praticato da Pisa, Lucca, Siena, Lodi e altre città; ma non da Firenze, con altre moltissime città, le quali invece incominciavano a contare lo stesso anno non nove mesi prima del Natale, ma tre mesi dopo, colla successiva Annunziazione di Maria vergine. Perciò il 7 aprile 1300 ab incarnatione a Firenze era ancóra il 7 aprile dello stesso anno a Nativitate, colla differenza che a Firenze l'anno era appena incominciato, mentre dove si usava l'anno a nativitate, questo era già inoltrato da più di tre mesi: a Pisa, a Lucca, a Lodi.... la stessa data del 7 aprile 1300 apparteneva invece al 1301. Certo che il computo pisano è più giusto, piú naturale; ma è però un fatto che in molte città, Firenze compresa, si contava l'anno ab incarnatione diversamente. Consulti il Gambèra L'arte di verificare le date, oppure la Storia universale del Cantú, ove si tratta della Cronologia, e si accorgerà facilmente di trovarsi nell'errore, come è avvenuto allo scrivente in una quasi identica circostanza (cfr. L'Alighieri, III, 60, 149, 261).

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GIOVANNI AGNELLI.

Le Tavole dantesche di Michelangelo Caetani duca di Sermoneta, nelle quali è dichiarata tutta la materia della Commedia, sono state novamente ristampate in una elegantissima edizioncina della Casa editrice G. C. Sansoni di Firenze, per cura di G. L. Passerini.

Il prof. Neno Simonetti ha recentemente pubblicato (Spoleto, 1903) un suo studio su L'Amore e la virtú d'imaginazione di Dante, che fu segnalato nella gara dantesca dal Ministero della pubblica Istruzione.

Pel ritratto di Dante è il titolo di uno scritto di G. L. Passerini, edito in questi giorni, in pochi esemplari suntuosamente stampati e illustrati da molte riproduzioni per cura della Libreria editrice del cav. Leo S. Olschki di Firenze.

Proprietà letteraria.

Città di Castello, Stabilimento Tipo-Litografico S. Lap:, marzo 1903.

Su L'iscrizione degli Ubaldini e il suo autore pubblica un dotto studio il prof. Pio Rajna nell'Archivio storico italiano, serie 5a, vol. XXXI del 1903.

Del Codice diplomatico dantesco, la monumentale opera dovuta alle cure del nostro Direttore e del dott. Guido Biagi, sono ora in corso di stampa i fascicoli 7-8, che conterranno la illustrazione e la riproduzione de' documenti sarzanesi della pace conclusa, con la mediazione di Dante, tra la Casa Malaspina e Antonio de Camilla vescovo di Luni.

Leo S. Olschki, editore-proprietario-responsabile.

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L'orrida ghiaccia entro cui il Poeta colloca nell'ultimo cerchio i traditori, è l'elemento di pena piú terribile ed umiliante nell' Inferno dantesco, e rappresenta un estremo punto verso il quale convergono, degradando nella colpa, le anime dei peccatori.

Dalla bufera che travolge gli incontinenti lussuriosi al lago gelato di Cocito è un decadere graduale continuo dell'imagine umana sotto l'oppressione della pena, tal che i sensi, ridotti ai limiti del concepibile, provano l'orrore di un nulla greve, indefinito, indeterminabile, come appena potremmo forse avvertirlo osservando gli sfondi delle fosche scene a tinte digradanti di Leonardo, del Tintoretto, del Bassano, o di Paolo Veronese.

Ben ha voluto rilevar Dante codeste differenti condizioni dei suoi dannati quando, commosso interprete della passione umana, riservava uno dei primi suoi cerchi per l'amorosa impenitente di Rimini e pel suo gentile compagno, destinando invece alla dura ghiaccia di Cocito il brutale uccisor degli adulteri!

Al diverso modo appunto col quale s'affacciavano alla mente e al cuore di Dante i protagonisti della piú grande tragedia d'amore medioevale, si può dire corrisponda giú nell'Inferno il modo della pena.

nel pozzo dei traditori, nel fondo dell'Inferno dice bene il De Sanctis, dall'uomo bestia caschiamo fino all'uomo ghiaccio, all'uomo pietra, a un mondo dove il moto va estinguendosi a poco a poco sin che la vita scompare del tutto.... È la poesia della materia„.

E nel cospetto di tale scena in cui campeggia il regno minerale, il ghiaccio, la pietra, sente il Poeta venir meno la forza dell'espressione conveniente a ritrarre l'orribile vista.

Ben più forte sente Egli qui l'insufficienza della sua parola! Le immense proporzioni della scena cruenta nella bolgia di Maometto, di Pier da Medicina, di Curione, di Beltramo dal Bormio l'imaginativa nostra non può figurarsi, neppure se alla fantasia insieme ricorressero tutte le stragi avvenute sul suolo pugliese e romano nelle memorabili battaglie italiche da Canne a Benevento, a Tagliacozzo. Ma per la scena del lago gelato di Cocito, oltre che una limitazione della mente e una inferiorità incalcolabile incapace d'esprimere le tremende impressioni, pare intervenga a rendere meno efficace l'espressione una incapacità insita nella natura stessa della lingua gentile d'Italia, che non possiede voci adatte a ritrarre l'asprezza e l'orrido del "tristo buco. Nel cospetto di una materia greggia, scogliosa al volgare italico, sbocciato dal nobile latino dove il cielo meglio arride alla terra, e questa è piú fiorita, mal conveniva di manifestare una natura esotica e fredda, a cui s'adatterebbero appena l'indole o il genio

Codest'ultimo cerchio rappresenta insomma qualche cosa di piú dannato, di piú perduto, dimeno umano, qualche cosa di indefinitamente greve e opprimente, cosí come il gelo che toglie ogni vitalità nei paesi del settentrione, come il gelo che è negazione della vita. "Qui | di favelle sorte là dove la terra meno lieta

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