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sua "induzione Non con questo l'egregio Professore presume per altro di "darne prova assoluta (in materia iconografica difficilissima), né di soffocar le molte voci di dubitazione e di diniego „ che, ad onta di “molteplici ed autorevoli adesioni si levarono d'ogni parte, mentre la notizia della sua ipotesi "si spargeva rapidamente nella stampa italiana e straniera, spesso travisata e alterata,. Né d'altronde osserva il C. si potrà mai giungere "né ad un'affermazione sicura, né ad un diniego fondato, se dall'antico fresco una mano prudente ed esperta, (e noi raccomandiamo anzi, prudentissima ed espertissima) non "saprà e potrà toglier via i rifacimenti onde due malconsigliati restauri, l'uno alla metà del sec. XVI, l'altro ai principî del XVII, alterarono i contorni originali di molte delle figure che compongono il gruppo ove sta l'imagine (cosí detta) dantesca". Solo quando sarà fatto questo "ripristinamento, che il C. invoca (e che noi temiamo come la minaccia di un nuovo inutile e forse pericoloso tormento che aspetta, in grazia di Dante, il fresco di Santa Maria Novella) si potrà giudicare" con sicura coscienza". Intanto che si aspetta il ripristinamento, il C. prepara il terreno, come può meglio, al possibile e (perché no?) desiderabile trionfo della sua ipotesi caramente diletta; e osserva anzi tutto come sia ragionevole presumere che Nardo e Andrea, nel rappresentare il loro Paradiso, avessero in mente l'altra grande figurazione giottesca e paradisiaca della Cappella del Podestà, e come quindi sia pur naturale presumere che l'immagine di D. si dovesse trovare fra i beati della figurazione orcagnesca. E di vero, non aveva Andrea per costume, piú forse di alcun altro dei seguaci, a lui contemporanei di Giotto, di ritrarre nelle sue composizioni, oltre che gli uomini del suo tempo sí anche i più famosi delle età precedenti? E ancóra: come i perduti freschi di Santa Croce stavan in qualche relazione con quelli del Camposanto pisano, che oggi qualcuno inclina a restituire alla scuola, almeno, dell'Orcagna, cosí dovevan aver qualche attinenza con questi della Cappella Strozzi, che, alla lor volta, hanno un'affinità ideale e forse una comune derivazione artistica cogli altri della Cappella degli Spagnuoli, che paion derivar pur dall'Orcagna o dalla sua scuola. Ora, nell'uno e nell'altro di questi due cicli di dipinture murali il motivo fondamentale è la glorificazione dell'Ordine di san Domenico, specialmente per l'apoteosi del suo gran lume e maestro san Tommaso: e la glorificazione del grande Aquinate era già ab antico congiunta col nome e coll'opera di Dante, come risulta dall'iscrizione riferita dal Richa posta (sebben in tempo più recente) presso la sepoltura di Aless. Strozzi morto nel 1384. Per l'Orcagna, studiosissimo di D. questi non dovea esser soltanto l'autore dell'Inferno bensí anche il cantore del Paradiso; " e poiché d'altronde la rappresentazione pittorica del regno celeste non poteva seguire i concetti non figurabili del Poeta, era ben naturale che l'Orcagna ne volesse almeno perpetuata in quella sua composizione l'imagine venerata „ Tornando, anzi ponendosi, dopo queste prime congetture, alla "piú precisa analisi, della figura dantesca del dipinto orcagnesco, il C. esprime il dubbio che i suoi oppositori, i quali non seppero scorgervi i tratti del divino Poeta, siano stati " vittima di un curioso scambio psicologico L'imagine tradizionale di D., specie dopo Raffaello divenuta ne' suoi tratti sempre piú convenzionale ed esagerata, fino a toccar la caricatura, "è talmente im

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pressa nella nostra mente e presente al nostro occhio, che ben pochi sanno liberarsene, per risalire alle indicazioni più sicure dell'aspetto di D. che sono quelle forniteci dal Boccaccio. E qui segue, ravvicinando la testa orcagnesca (anziché alla miniatura Riccardiana come avea fatto nella prima comunicazione, e dichiarando che essa miniatura, troppo onorata da Gaetano Milanesi e da Luigi Passerini è " povera opera d'un inesperto miniatore quattrocentesco,) alla testa giottesca del Bargello e affermando che tra le due figure corre una notevole e sostanziale rassomiglianza, (!) Lo hanno riconosciuto afferma il C. "molti ar

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tisti col loro occhio esperto, appena videro la riproduzione fotografica e "lo riconoscerà chiunque osservi l'espressione dolce e pensosa comune ad entrambi, la fattura del mento e il taglio della bocca atteggiata di dolce sorriso contemplativo,,. Chi ha veduto nella testa orcagnesca "un chierico fiorente,, anziché il Dante invilito e fatto macro, ha giudicato alla leggera, senza riflettere che Dante è qui in Paradiso, dove non poteva serbare il solito aspetto, ma mostrarsi come trasfigurato (e anche ingrassato?) nella serenità della contemplazione celestiale. Certo, aggiunge il C., la testa orcagnesca è di un uomo piú maturo (altra volta avea detto di "tarda età „), ma non vecchio: che D. “giova ricordarlo a molti che sembrano dimenticarlo, non fu vecchio,; lo dicono "i forti solchi che circondano la bocca e segnano la guancia e raccostano senza dubbio la figura orcagnesca al D. pensoso e austero (non anche accigliato ed arcigno), al D. già oltre con gli anni (non ancóra figurato vecchio): tipo che si deve esser formato poi tradizionalmente coi ragguagli forniti dal Boccaccio, o sulle indicazioni, da altri divulgate, degli amici ravennati di D. o dei suoi parenti". Il qual secondo tipo, di cui il più notevole esemplare è la miniatura Riccardiana, non crede il C. possa risalire al ritratto perduto, che fu opera del Gaddi, secondo la congettura del Kraus. Confrontando la figura orcagnesca con la Riccardiana, il C. concede al prof. Papa che vi corrano alcune differenze; ma sostiene che esse non sono maggiori di quelle che distanziano la testa Riccardiana dal D. giottesco, e segnatamente dalle indicazioni del Boccaccio, alcune delle quali qui non si riscontrano affatto Ma lasciando questi raffronti sempre assai incerti e soggettivi, viene finalmente il C. alla descrizione del Boccaccio, che è la cosa che piú veramente gli preme; perché, mentre gli altri ritratti di D., salvo il giottesco, son posteriori alla Vita scritta dal Certaldese, questo dell'Orcagna è di parecchi anni anteriore ad essa, per modo, che se "si riesce a provare che i tratti della faccia orcagnesca coincidono sostanzialmente colla descrizione posteriore del B. non è chi non veda quanta importanza iconografica acquisti la testa dantesca della Cappella Strozzi „. Al Boccaccio dunque, e non alla tradizione artistica, cui "mal si affidano il signor Mesnil e il prof. Papa,,, ricorre, come a termine di paragone piú sicuro, il C.; e ribattute alcune osservazioni dei suoi due ricordati oppositori, cerca provare che nessun'altra delle imagini di D. fino a qui conosciute presenta cosí visibili molti tratti descritti dal B. come quella dell'Orcagna. Quivi il naso aquilino come può vedersi nella fotografia del Brogi (che pare al C. migliore di quella dell'Alinari, e non è !) quivi gli "occhi anzi grossi che piccoli „, e le “mascelle grandi, e il "color bruno, e, per quel che si può vedere, "la mediocre statura e la curvatura delle spal

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le e i prolissi capelli (l'unica di tutte queste cose visibile veramente agli occhi nostri) che sono castagno scuri, ciò che "risponde ad un'altra indicazione, quella della famosa Ecloga dantesca (!!) ed è una ragione di piú per farlo credere Dante Siamo, insomma, dinanzi alla vera effigie del Poeta, quale ci è descritta dal Boccaccio, sebben non si possa punto negare che questa dell'Orcagna sia una imagine di Dante in notevole parte ideale,; ma solo in quanto l'arte ancóra immatura non consentiva a' dipintori di fare in quel tempo ritratti veri e proprî, una idealità dunque nella quale son trasfigurati gli elementi reali che il pittore poteva ben derivare da testimonianze degne di fede, se non anche dalla propria visione dell'originale; e trasfigurati in virtú del luogo ove qui è figurato D., il regno dei cieli,. A questo punto il C. passa all'esame di alcuni " indizî dai quali gli par derivi maggiore probabilità e consistenza alla sua identificazione: e questi indizî son principalmente la sostanziale corrispondenza del luogo occupato dalla figura di Dante nelle due rappresentazioni paradisiache del Palagio del Podestà e di Santa Maria Novella, e la somiglianza singolare che la figura espressa di fianco alla supposta effige di D. presenta colle note imagini del Petrarca. Per quanto il gruppo sia stato malamente ridipinto e rifatto e cosí i contorni originali di molte figure vicine sien andati in malora, pur questa testa, prossima al supposto D., rimane cosí conservata da poter servire alla critica come un utile elemento di comparazione. Ravvolta in un cappuccio d'un bruno rossastro e chiusa al di sotto del mento dal soggolo che si vede sempre in tutti i ritratti del Petrarca, questa figura rappresenta l'imagine d'un uom giovane assai pingue, dagli occhi grandi e la bocca fine sopra il mento rasato e assai rilevato. Il Petrarca poiché, sicuramente, sec. il C., siam qui dinanzi alla effigie di lui è ritratto in ben più fresca età di quel che apparisca negli altri ritratti già noti, che ce lo raffigurano ben oltre negli anni, anzi allo stremo della sua vita; e i segni caratteristici della senilità sono in que' ritratti, dalle recenti indagini specialmente riconosciuti autentici, evidentissimi. “ 'Nondimeno, chi confronti ad essa questa testa dell'Orcagna, dovrà facilmente convenire che la somiglianza è tale da essere indotti a credere che qui s'abbia una effigie giovanile del Petrarca, (!) Né la cronologia si oppone. Non è nota la data de' dipinti murali della Cappella strozzesca: ma in essi Niccolò Orcagna fu aiutato dal fratello Andrea che da solo dipinse l'aureo polittico dell'altare commessogli nel 1354 e compiuto nel '57; e il Vasari parla dei freschi al principio della vita dell'Orcagna e della ta. vola a molta distanza da quelli, sicché ci sarebbe ragione di credere i freschi anteriori al '50, e forse anche di un decennio, come altri opina. Né può stupire che l'imagine del Petrarca potesse esser ritratta a ragion d'onore fin da quel tempo, se si pensa che nel '41 egli era già stato solennemente coronato poeta in Campido glio, se forse Simon Martini l'aveva ritratto prima del '44, e se, come apparisce dall'aneddoto narrato in Fam., XXI, 11, l'imagine del Petrarca in quel torno era già molto nota e diffusa. Ma per quanto il Vasari sembri mettere l'opera dell'aurea tavola della Cappella Strozzi a distanza da quella delle pitture murali, non crede il C. che intercedesse troppo lungo spazio di tempo fra le une e l'altra; specialmente poiché, probabilmente prima del '48, Andrea e Nardo eran intenti a dipingere il coro della stessa Chiesa di Santa Maria Novella per

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mediazione di fra Iacopo Passavanti, priore del Convento. Se dunque, conchiude il C., "poniamo nel 1350 il cominciamento della decorazione murale della Cappella Strozzi, ci sarà più facile intendere la presenza del ritratto del Petrarca, e quindi anche quello di D. nella storia del Paradiso, in quell'anno del giubileo in cui il Petrarca passava per Firenze alla volta di Roma e in Firenze si incontrava col Boccaccio e ne era ospite. "E chi sa, congettura ancóra il C., che il B. medesimo non fosse dall'Orcagna ritratto in quella figura eretta che sta dinanzi a D. e di fianco al P., come lo farebbe credere una certa affinità nel taglio della figura col B. dipinto da Andrea del Castagno; se forse, come io ho supposto dapprima, in quella figura non deve riconoscersi Cino da Pistoia Quello che importa notare " è che la coincidenza dell'anno giubilare e di quest'opera dell' Orcagna non dovette essere senza qualche effetto su questa Che il Petrarca si trovasse in quell'anno in Firenze può bene spiegare la presenza di una figura che ha tutti i caratteri di lui nel Paradiso dell'Orcagna", e non molti anni dipoi un altro ritratto di mess. Francesco appariva, dipinto pure dall'Orcagna o da un pittore della sua scuola, su una delle pareti della cappella Capitolare. Segue poi il C. mostrando come fosse usanza l'“ abbinare„ i due massimi poeti nei dipinti, e come fosse comun credenza che D., cantore del Paradiso, raggiungesse, morto, la celestial beatitudine in premio delle virtú sue: sí che l'Orcagna 66 non poteva dimenticare di porre anche "nella storia del Paradiso „ l'imagine del Poeta che le dotttrine dell'Aquinate aveva apprese nella scuola di Santa Maria Novella, e piú tardi aveva vestite della forma della immortale poesia „. Lo studio finisce con alcune considerazioni su l' altra supposta immagine di D. che in questa medesima Cappella, prima del Mesnil, del dr. Ingo Krauss e del Levallois aveva creduto di additare, fino dal 1857, il Barlow, nell'articolo sul quale ha richiamata, nel nostro Giornale, l'attenzione il prof. Papa. Non crede il C. che in essa figura d'uomo vecchio si possa riconoscere D.; ma ammesso anche che si possa, l'una immagine di D. non esclude l'altra: anzi, c'è posto per tutte due! "Nessuno, ch'io sappia, nota il C. ha osservato che alcune delle figure che si veggono nella storia del Giudizio, e propriamente nella parte ove son rappresentati gli eletti, son ripetute, con diverso colore nelle vesti, e, in parte, con diversa espressione, nella storia contigua del Paradiso. Se dunque, in alto, a sinistra dell' una e dell'altra storia si trova una figura dai tratti danteschi, conchiude il C., ben può pensarsi che Nardo e Andrea l'abbiano intenzionalmente ripetuta, ad indicare che nella gloria celeste abbia il suo luogo il divino Poeta. La diversa espressione delle due figure allora si spiega assai naturalmente ed agevolmente. Nella storia del Giudizio D. è risorto pur ora dal sepolcro col suo pallore di morte; e consunto nell'aspetto implora dal giudice divino, che sta nell'alto dei cieli, la salute e la grazia. Nella storia del Paradiso invece è D. "rinnovellato di novella fronda (!!) assorto nella visione beatifica. letificato ed illuminato dal sorriso della gloria celestiale; quasi l'artefice abbia inteso di simboleggiare figurativamente cosí la purificazione e l'ascensione di D., che darà materia al divino Poema tricosmico Questa, in sunto, la sostanza dello studio del C., intorno alle cui nuove argomentazioni, molto ci sarebbe da osservare. Ce ne asteniamo qui, dov'è bene, per la natura e lo scopo di queste note informative, risparmiare ogni

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lungo commento. Ci sia solo concesso di dire, colla schiettezza solita nostra, che questa difesa, se ben voglia apparir abile e ingegnosa, non sembra a noi punto adatta a vincere i dubbî di coloro che si sono opposti, più o meno apertamente, alla ipotesi del prof. C. Se non erriamo, essa risente dello sforzo che si suol fare quando si vuol difendere e appuntellare, ad ogni costo e contro tutti, un edificio che da sé non si regge.

CIAN VITTORIO.

C. (Catania, tip. Barbagallo e Scuderi), 1902, in-16, pp. 49.

Crede che la corda non sia un simbolo della corru-
zione degli Ordini frateschi e dei peccati di frode che in
tale corruzione possono avere principale dominio. Allu-
derebbe non ad un solo vizio afline alla frode, ma ad un
intreccio di vizî di cui non solamente i Francescani, ma
tutti i monaci eran lordi.
(2539)

(2533)
CRESCINI VITTORIO.
Da Rutilio Namaziano

a Dante. (Nella Medusa, I, 6).

Pone in relazione i versi di Par., XVI, 73-81, coi quali Cacciaguida si accinge a enumerare gli "alti fiorentini „ le cui famiglie erano ormai entrate nel loro " calo o estinte, e i seguenti versi dell'Itinerarium del poeta gallo meridionale Rutilio, vissuto tra il IV e il V secolo: "Agnosci nequeunt aevi monumenta prioris, Grandia consumpsit moenia tempus edax. Sola manent interceptis vestigia muris, Ruderibus latis tecta sepulta iacent. Non indignemur mortalia corpora solvi: Cernimus exemplis oppida posse mori „. (2534)

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L'episodio di Francesca. Padova, R. Draghi libr. edit. (Stab. P. Prosperini), 1902, in-8, pp. 32.

Bella e dotta lettura fatta nel Museo civico di Padova, nel maggio 1902. (2540) D'ANCONA P. Le rappresentazioni allegoche delle arti liberali nel Medio Evo e nel Rinascimento. (Ne L'Arte, V, fasc. 5-6). (2541) D'ANNUNZIO GABRIELE. Cfr. i ni. 2513, 2558, 2564, 2565, 2585.

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"DANTE, drame de m. Victorien Sardou de l'Academie française, dont la première sera donnée prochainement au Drury-Lane Théâtre de Londres par sir Henry Irving. (In International Théâtre, aprile 1903).

Riproduce e illustra alcune scene dipinte dai signori Ronsin e Bertin, per la rappresentazione del dramma del Sardou nel Drury-Lane di Londra; e cioè: Firenze (atto I, sc. 1a); la Casa dei Malatesta (sc. 2a); il Camposanto di san Miniato (sc. 6a); la Porta dell'Inferno (sc. 7); le Fosse fumanti (sc. 9a); il Lago gelato (sc. 10a); gli Spiriti trascinati dalla bufera (sc. 11). Inoltre, l'imagine di Dante, e i ritratti di V. Sardou, di Lena Ashwell (Pia de' Tolomei), di Henry Irving, e de' pittori Ronsin e Bertin,

DELLA TORRE RUGGIERO.

(2542) La fortuna del Poeta-veltro nel XIX secolo, con una lettera inedita del dantista Melchiorre Missirini. Firenze, B. Seeber, libraio-editore, (Udine, tip. del Patronato), 1901, in-8, Pp. 166.

Raccoglie tutto quanto è stato scritto in favore o contro alla opinione espressa, svolta e difesa dall'A. in due noti ponderosi volumi (Cividale, 1887-1890) che il Veltro sia D. stesso. — La lettera, poco concludente, del Missirini, da Firenze, 8 settembre 1842, è diretta a G. B. Canova vescovo di Mindo e fratello del celebre scultore. (2543)

DE SANCTIS FRANCESCO. Saggi critici. Napoli, Ditta A. Morano e figlio, 1902, [4]550-[2].

In questa, che è la diciannovesima edizione degli ottimi Saggi del De Sanctis, si contengono, tra altro, questi scritti di materia dantesca: Sull'argomento della "Divina Commedia,; Carattere di D. e sua utopia; Pier delle Vigne; La "Divina Commedia versione di F. La

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D'OVIDIO FRANCESCO. - Esposizione del Canto XX dell'Inferno,. Palermo, R. Sandron, editore (tip. F. Andò), 1902, in-16, pp. 62.

È la lettura fatta dal D'Ovidio a Roma nella Sala Dante, e, come ogni cosa ch'esca di mano a quell'illustre uomo, ha grande importanza per le cose belle e le osservazioni nuove che contiene e per la garbata forma con la quale vi sono espresse. Nell'avvertenza che precede la esposizione, il D' Ovidio ricorda com'egli aveva già ne' suoi Studii sulla “Divina Commedia „ (pp. 76-149) data l'illustrazione del Canto, ma con modo e con assunto del tutto diverso: sicché il presente lavoro in parte può dirsi nuovo, in parte novamente atteggiato. Questa pubblicazione forma il 1° fasc. di una serie di volumetti danteschi che sotto il titolo generale Per l'esegèsi della "Divina Commedia, verranno senza fretta, a liberi intervalli, recando, in generale, lavori del D'Ovidio e solo qualche volta lavori altrui; una modesta collana che non vuole in nessun modo contrapporsi a quella cosí vistosa che si va formando a Firenze » per cura dell'editore G. C. Sansoni. (2545)

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FELIX FAURE LUCIE. Les femmes dans l'Oeuvre de Dante. Paris, Libr. acad. Didier, Perrin e C. libr.-editeurs, 1902, in-16, pp. 4-[321].

Nonostante alcune sviste, e alcune deduzioni e interpretazioni nelle quali non si può facilmente consentire, è questo della gentile signorina Faure un simpatico libro, che può e deve molto piacere anche alle lettrici italiane. Sarà facile alla Autrice, che è colta e non pretende alla infallibilità, né disdegna le garbate osservazioni della critica, correggere in alcuni luoghi il suo lavoro, per le future edizioni che non mancheranno, e che noi Le auguriamo di cuore. (2546)

FERRARI G. M. Scritti vari. Roma, Soc.

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retta. In Firenze, G. C. Sansoni editore, (tip. G. Carnesecchi e figli), 1901, in-8, PP. VI-205.

Esaurita oramai, da qualche tempo, la prima edizione milanese di questi studi, pubblicati dal Trevisini nel 1883, è stato buon pensiero dell'Editore fiorentino di procurarne questa nuova stampa, alla quale l'A. non ha risparmiato altre diligenti cure. Ricordiamo qui agli studiosi la materia di questo libro che alla bontà del contenuto unisce una severa eleganza e nitidezza di tipi: 1° Sul significato allegorico della Lucia [svolge e rafforza di nuovi argomenti la opinione di Emilio Ruth, che ne' suoi Studi sopra Dante Alighieri (Venezia, 1865) riconosceva simboleggiata in Lucia nemica di ciascun crudele meglio la giustizia che non la grazia]; 2o Il passaggio dell'Acheronte e il sonno di Dante. [Lucia, la quale in visione trasporta Dante addormentato dalla valletta de' Principi negligenti nell'Antipurgatorio, alla porta del Purgatorio, è quello stesso essere invisibile che trasporta Dante addormentato nell'Antinferno, di là dall'Acheronte. Il greve tuono che ruppe l'alto sonno nella testa del Poeta, è un sogno miracoloso in cui gli si prenunziano le grida infernali le quali egli sentirà realmente nel viaggio sul regno della morte, cioè il gastigo che colpisce il peccatore, ossia la dannazione. Secondo il F., in questo passo non si può veder altro che un'insidia infernale per fare addormentare il Poeta, disceso non per sonno o visione, ma come vi discese Enea, cioè sensibilmente, nel regno della morta gente. È una tentazione od una insidia mossa, come osserva acutamente il Bennassuti, per opera di Caronte, e qui il sonno di Dante, serbando il significato che gli dà, in generale, il Pocta in tutta la Commedia, è una vera e propria caduta, un principio di morte, è l'imagine dell'accecamento che precede necessariamente il primo peccato attuale, ed è quindi l'effetto di una insidia infernale, di quella insidia che vien simboleggiata nel terremoto col vento e col baleno, di quella che rende possibile la morte dell'anima, ossia il varco dell'Acheronte, fiume che divide, anche allegoricamente, i vivi dai morti, le anime non dannate da quelle che sono oggetto dell'ira di Dio. Cosí, i demoni ordirebbero a Dante tre insidie durante il suo viaggio infernale; questa, sul limitare dei cerchi di incontinenza, per farlo cadere nel sonno mortale; quella sul limitare della Città di Dite per farlo, mediante la Gorgone, diventare di smalto; e finalmente quella nelle balze de' fraudolenti, per abbandonarlo, senza difesa, all'uncino dei diavoli vigilanti sui barattieri. Ma da tutte e tre Dante è affrancato, sopravvenendo prima Lucia, poi il Messo del Cielo, poi la pronta sollecitudine di Virgilio che fugge e lo porta in salvo]; 3° La "ruina di Dante. [Determinata bene la parola ruina per mezzo di altri passi del Poema, il Fornaciari propone di darle, anche nel luogo quistionato del Canto V, il senso di rovinamento, scoscendimento, franamento; e crede si alluda a questa rovina nel XII dell'Inferno dove Virgilio, mettendosi a spiegare all'alunno la ragione della ruina per la quale i Poeti discendono tra gli incontinenti, accenna al terremoto che accadde alla morte di Gesú e che fece tremare Da tutte parti l'alta valle feda, sí che la vecchia roccia qui (nel girone de' violenti) ed altrove, tal fece riverso. Questo altrove accenna, secondo il F., indubitabilmente alla ruina tra il Limbo e il cerchio de' lussuriosi]; 4° Il mito delle Furie in Dante. Esaminate, o, meglio, pas

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sate in rassegna le opinioni degli interpreti antichi e moderni, ne' quali tutti, press' a poco, le furie simboleggiano o furiose passioni d'iracondia e di superbia nelle tre forme, del pensiero, della parola e della azione, o altri peccati puniti fuori e dentro Dite, o i rimorsi che traggon l'uomo alla disperazione col terrore dell'ira divina; e Medusa è figura dell'ostinazione nel peccato, o del piacere, o del dubbio, o della disperazione e posto il principio che la via piú sicura per interpretar Dante sia il riscontro del Poema colle altre opere dell'Alighieri, e soprattutto poi col Poema stesso, il F. passa a ricercare qual sia il vero significato delle Furie e di Medusa, presso Dante. E viene a queste conclusioni: le Furie si manifestano come rappresentanti de' peccati puniti nella palude Stigia (ira, accidia, invidia e superbia), simboleggiando, o solamente o principalmente almeno, l'invidia, concepita come un odio mortale agli uomini, come l'opposto dell'amore verso il pros simo, che anche altrove Dante contrappone a questa passione (Purg., XIII, 38-39); e l'atto di esse Furie contro il Poeta non è un semplice e ordinario ostacolo messo al suo fatale andare, ma una vera e propria insidia tésagli, pari a quella del sonno malefico suscitato dal lampo della terra lagrimosa, e alla gherminella con cui cercano di acchiapparlo i demonî. E se le Furie son simbolo della invidia, la tentazione che e' tendono a Dante non può avere altro fine che di renderlo invidioso, ossia di spegnere in lui ogni scintilla d'amore, rendendolo smalto, che avvolge appunto l'idea di durezza e di gelo; e il pericolo che ora corre, viene implicitamente ora ricordato dal poeta quando nel Purg., XIV, 139, al sentire la misteriosa voce "Io sono Aglauro che divenni sasso tutto impaurito si stringe a Virgilio; cosa non notata prima da alcun commentatore. Medusa significa i beni mondani, i quali fanno diventare invidioso, ossia privano d'ogni buono amore chi li riguarda; spiegazione la quale, o in senso largo, come la tiene il F., o in senso ristretto a qualcuno di tali beni, si trova in molti commentatori antichi e moderni, e fra gli antichi nel Boccaccio. Chiarito tutto ciò, il F. dà ragione dell'avvertimento di Virgilio (O voi che avete gli intelletti sani), vòlto a metter in guardia il lettore, ricordandogli che non deve fermarsi al senso letterale (ai versi strani), il quale è assurdo, poiché non è possibile che nell' Inferno cristiano un uomo diventi sasso per opera delle Furie mitologiche; e conchiude il suo Studio con alcune considerazioni intorno al Messo inviato ad aprire ai Poeti le porte di Dite, che altri non è e non può essere che Cristo stesso, ridisceso all'inferno una seconda volta a rinnovare la sua vittoria]; 5° Ulisse nella "Divina Commedia Esaminata l'essenza dell' Ulisse dantesco, derivato da Virgilio e da Ovidio, e, in generale, dalla tradizione posteriore ad Omero, ricerca il fine morale di questo episodio nella Divina Commedia e la sua significazione allegorica. Ulisse è, in certa guisa, la personificazione piú spiccata dell'ingegno greco, che ai doveri di famiglia antepone l'ardore a divenir del mondo esperto E degli vizi umani e del valore, e conforta i suoi a seguitare l'operosità, la forza dell'animo, la intelligenza naturale (virtute e conoscenza); massima, come notò il Cesari, assai diversa da quella della fede cristiana che predica l'umiltà e tutto ripete da Dio e dal suo aiuto quel poco di buono che possiam fare. Se poi si riflette che lo scopo tentato da Ulisse fu appunto di giungere vivo al regno de' morti (il mondo senza gente), vi si scorge piú manifestamente il simbolo dell' ingegno umano, che vuol

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conoscere i divini segreti, rivelati soltanto agli illuminati dalla grazia e dalla fede. Cosí Ulisse divien quasi il contrapposto di Enea e di san Paolo e degli altri pochi i quali, andati fra le ombre, poterono revocare gradum superasque evadere ad auras; ciò che ad Ulisse non riusci]; - 60 L'arte di Dante nell'episodio di Ugolino. [L'arte mirabile di questo episodio consiste nell'avere il Poeta espresso in Ugolino l'estremo grado del dolore paterno offeso e rabbioso, sciogliendosi arditamente dalla natura e gittandosi nel fantastico: nell'aver ritratta l'azione con assoluta unità e con forme gigantesche: unità nello spazio, nel tempo e nell'impressione, che sempre più si interna e si allarga]; — 7o La trilogia dantesca o del nesso fra la "Vita nuova il Convito, e la Divina Commedia [Uno stretto vincolo di concetto e di sentimenti congiunge insieme queste tre opere di Dante delle quali Beatrice è quasi l'anima or segreta, or palese. La Donna gentile della Vita nova forma il nesso che unisce questa al Convivio, dove, benché sott'altra forma, ricomparisce sí nella prima e nella seconda Canzone, ed anche di fuga nella terza, come nei commenti ad essa. Dal Convivio sembra rilevarsi che la Donna gentile della Vita nova non è che un puro simbolo della Filosofia scolastica o cristianizzata, e che essa apparí la prima volta al Poeta quando dalla morte di Beatrice eransi compiuti due giri del pianeta di Venere, cioè 450 giorni, o, secondo altri, 1168, e che al Poeta quella scienza piacque e lo consolò a segno che nello spazio di circa trenta mesi ei si sentí levare dal primo amore alla virtú di questo, sí che lasciò da parte Beatrice per cantare le lodi della donna allegorica: poi, interruppe un poco quello studio e si volse a trattare questioni morali strettamente connesse colla filosofia. Ma oltre a questo legame sostanziale che annoda il Convivio colla Vita nova per mezzo di Beatrice e della Donna gentile, nel Convivio si fa anche parecchie volte menzione esplicita dell'altra operetta, come già composta, pubblicata e conosciuta. Da piú passi della Commedia apparisce il legame tra la Vita nova (e implicitamente anche il Convivio) e la Commedia stessa, dove è, tra altro, accennato, come appunto nel giovenile libello, un traviamento di Dante nell'amore per un'altra donna. Se non che, secondo la Commedia, questo sarebbe avvenuto subito morta Beatrice (Si tosto come in su la soglia fui Di mia seconda etade e mutai vita); secondo la Vita nova cominciò un anno o poco piú dopo: inoltre, da questo libro si dedurrebbe che il Poeta mutasse vita, laddove dalla Commedia apparirebbe invece ch'egli curò poco le ispirazioni con le quali Beatrice cercò di richiamarlo al dover suo. Quel che però manca nella Vita nova e si trova invece nel Poema, è la relazione che corre fra l'essersi straniato il Poeta da Beatrice, e lo aver seguitato una scuola e una dottrina affatto diversa dalla parola di lei. Dunque, il peccato di cui Dante cancella la memoria nelle acque letee, sarebbe, tutto o in parte, di intelletto ciò che, se cosí fosse, ricorderebbe la sentenza del Convivio, secondo la quale la Donna gentile fu una scienza e non una donna reale. Ciò posto, nascono molte dubbiezze di difficile soluzione, che hanno dato assai filo a torcere ai dantisti dal Biscioni in poi. L'esame delle opinioni de' piú autorevoli tra essi, offre modo al Fornaciari di fare alcune sue osservazioni e di raccoglier qui brevemente le conclusioni alle quali è giunto. Rigettando l'opinione del rimpianto Lubin che la parte prosastica della Vita nova era scritta o finita di scrivere nel 1300, e ritenendo tutto il Convivio, la parte prosastica cioè e la parte

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