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li studi fatti dalle Commissioni istituite dal Comune di Firenze negli anni 1864 e 1867, sono consegnati alle due Relazioni pubblicate negli anni 1865 e 1869. Parte dei documenti, pubblicati in estratto o per intero in appendice a queste Relazioni, erano stati indicati da Fra Ildefonso di San Luigi, da Giuseppe Pelli e da altri che si erano occupati di studî danteschi: parecchi furono trovati, in séguito alle nuove indagini ed ai richiami che spesso un documento contiene di altri.

Lasciando da parte quello che non attiene strettamente alla questione che si è oggi voluta sollevare sulle case degli Alighieri, negando o mettendo in dubbio, senza nessun fondamento di prova, la tradizione e le verificazioni fatte, è da osservare che i tanto citati e ricitati documenti del fico, dell'anno 1189, provano che i fratelli Preitenitto ed Alaghiero, bisavo quest'ultimo di Dante, avean possedimenti nella parrocchia di San Martino del Vescovo e precisamente presso la chiesa, che allora era in direzione contraria all'attuale oratorio dei Buonomini, rispondendo sulla attuale Piazza dei Tavolini, detta in antico la prima piazzuola di San Martino, essendo chiamata seconda quella che porta oggi questo nome; - e che avevano abusivamente esercitati atti di possesso su parte del terreno situato presso la chiesa stessa, e sul quale, probabilmente, fu edificato il detto Oratorio.

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Nel libro delle Stime dei danni dati ai Guelfi di Firenze, olim rebellibus et exititiis, dal 1260 al 1266, leggesi questa partita: Domum aliquantulum destructam in "dicto populo (Sancti Martini episcopi) Geri quondam "dom. Belli Alaghieri. (Confini) Via j, Filij Donati IJ, แ Filij Mardoli IIJ, Bellincionis Alaghierij IIIJ. Damn. "extimaverunt lib. vigintiquinque Questo documento ci prova che Geri, cugino del padre di Dante, e Bellincione, avo di Dante, possedevano beni nel detto popolo, contigui ma non a comune.

Nel processo del 1277, promosso dai vicini della chiesa di San Martino contro il Rettore della medesima e contro l'Abate della Badia fiorentina, a cagione di un muramento che questi volevano fare sul terreno a tergo della detta chiesa, sono tra gli attori Cione del

* Dalla Nazione del 16 gennaio pubblichiamo volentieri, con qualche notevole giunta, questo breve scritto di I. Del Badía, al quale ha porto occasione una recente allegri polemichetta intorno alle case degli Alighieri. (La Direzione).

1 Delizie degli Eruditi toscani.

2 Memorie per servire alla vita di Dante Alighieri ed alla storia della sua Famiglia, ecc. Firenze, MDCCCXXIII.

fu Bello, Gherardo, Bello e Burnetto zii di Dante, il qual Burnetto era anche uno dei procuratori dei détti vicini. Tra gli istrumenti prodotti vi fu una dichiarazione, fatta già da Bello d'Alagherio, che le pietre provviste, evidentemente per la nuova fabbrica, erano poste in faccia alla sua casa sulla piazza e sul terreno di detta chiesa di San Martino.

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Il prof. Michele Barbi pubblicò 1 un brano della pergamena già della Badia fiorentina del 2 gennaio 1297, riguardante la via che partendo da San Michele, tra le case de' Galigai e d'Ottaviano Alberti, prosegue tra i palazzi, la loggia, la piazza, le case e i terreni dei Cerchi e doveva continuarsi per condurre diritto al Palazzo del Comune e del Popolo fiorentino, detto dipoi del Potestà. In questo documento è indicata la Via oggi detta dei Magazzini, con queste parole: "Via que "obstat domui Circulorum et Cionis del Bello „: il che dimostra come la casa dei figliuoli di Bello d'Alighiero fosse sulla Piazza o Via di San Martino, allato a quella dei figliuoli di Bellincione.

Della casa che fu di Burnetto si hanno notizie da un processo del gennaio 1322 (s. f.), che il prof. Eugenio Casanova trovò nei libri della Mercanzia di Firenze. Il notaro Niccola di Giovanni da Vascappo domanda all'Ufficiale della Mercanzia, che si costringano Cione di Burnetto degli Alighieri del popolo di San Martino del Vescovo e Giorgio suo figliuolo, ambedue lanaioli, al pagamento di certi danari dei quali erano debitori. Citati, non comparvero; per cui il detto Niccola domandò di esser messo in possesso dei beni conosciuti dei sunnominati Cione e Giorgio. Tali beni consistevano in due terze parti, pro indiviso, di una casa in detto popolo, i cui confini erano Jo Via, 1° e 11° i Mardoli, III Niccolò dei Donati vel Petrus Dantis Allegerij; ed in un podere nel popolo di San Gervasio, presso Firenze. Alla notizia degli atti di questo processo, che il prof. Casanova inserí nel Bullettino della Società dantesca italiana (vol. VI, fasc. 5), fa séguito una nota del dott. Roberto Davidsohn a proposito dei testimoni prodotti e citati dal soprannominato Ufficiale, per accertare che i beni di Cione e di Giorgio erano veramente i suddetti; fra i quali testimoni è Pietro del fu Dante Alagerii. In questa nota il dott. Davidsohn, tra le altre cose, osserva come il documento provi che Pietro di Dante dopo la morte del padre era tornato a Firenze. Per essere citato come testimonio in una causa di tal genere, non poteva trattenercisi per combinazione e

1 Bullettino della Società dantesca italiana, II, 68,

per poco tempo, ma ci doveva essere stabilito; ne è prova anche che, al pari di tutti gli altri citati, non viene nominato (come sarebbe stata usanza) con l'indicazione d'un'altra città, come a mo' d'esempio, "qui habitat Verone, o simile. Pare anzi che stesse nell'avíta casa vicina a San Martino del Vescovo, che i Donati dopo la confisca dei beni di Dante doverono comprare, per assicurarla in qualche modo alla moglie di Dantę, Gemma Donati, ed ai figliuoli di lei; altrimenti non si spiegherebbe la descrizione di codesta casa come appartenente a "Nicolus de Donatis vel Petrus Dantis Allegerii. Ma l'importanza sta nel fatto, che Pietro, tre anni dopo la morte di Dante, poteva vivere a Firenze, dove le antiche ire dovevano essere sparite, e che, se poi andava a stabilirsi fuori della città natale, lo faceva spontaneamente e non come esiliato, che dovesse espiare le inimicizie suscitate dal suo immortale padre". Cosí il dottor Davidsohn.

Il prof. Casanova pubblicò più tardi per intero gli atti del processo predetto nella Rivista delle Biblioteche e degli Archivi (X, 81). In questi atti è ripetuta tre volte la descrizione delle due terze parti della casa: che la prima volta è confinata dalla Via, dai Mardoli e da Niccolò Donati: la seconda volta, il quarto confinante è cosí indicato Nicolus de Donatis vel Petrus Dantis Allegeri; nella terza descrizione sparisce Pietro, e rimane Niccolò Donati.

Negli atti del secolo decimoterzo Dante è detto sempre del popolo di San Martino. E ciò mostra che l'ingresso della sua abitazione era proprio nella Via di San Martino, e non in quella di Santa Margherita; poiché una deliberazione dei Priori del 5 giugno 1285 ordinava, che chi avesse la casa di abitazione in due popoli fosse descritto in quello nel quale la casa aveva "introitum et exitum ad stratam publicam mastram, 1

Delle vicende della casa che Dante ebbe a comune col fratello Francesco si hanno abbastanza notizie per identificarla, non solo dai documenti che sono a corredo della prima Relazione del 1865, ma anche dalla tradizione la quale designa come casa di Dante quella porzione di maggior fabbricato sulla quale, ne' primi decenni del secolo XIX, fu collocata la nota iscrizione. Nei discendenti dell'Alighieri si mantenne la proprietà di parte di essa fino alla morte di Pietro giudice che testò nel 1364, lasciandola alla Compagnia di Or San Michele e allo Spedale della Misericordia di Firenze. Ebbe questo figliuolo di Dante sempre relazione con la sua città d'origine, alla quale mantenne affetto fino alla morte, come lo attesta la disposizione citata; affetto che continuarono anche i suoi discendenti.

Racconta Leonardo Bruni (nato nel 1369) nella Vita del Poeta, che quando uno di questi discendenti venne, sul cominciare del secolo XV, in Firenze, gli furono mostrate le case di Dante e de' suoi antichi. Il Bruni stesso, il primo degli storiografi di questa città che abbia scritto con sana critica e valendosi dei documenti, i quali facilmente aveva a mano come Cancelliere della Repubblica, scrive nella ricordata Vita: " quelli di messer Cacciaguida, detti Aldighieri, abitarono in su la "piazza dietro a San Martino del Vescovo, dirimpetto "alla via che va a casa i Sacchetti, e dall'altra par"te si stende verso le case de' Donati e de' Giuochi.

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1 Pergamena del Convento di Santa Maria Novella, nell'Archivio di Stato di Firenze.

Il Bruni non avrebbe data questa cosí specificata indicazione, se non l'avesse avuta dalla bocca di vecchi che avevano conosciuti i figliuoli di Dante in Firenze.

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Di questa tradizione abbiamo la conferma pure in un documento officiale. Il Magistrato supremo, colla sua deliberazione dell' 11 febbraio 1550 "sopra le Sin. "dicherie et denuntiationi de' Malefitii della città di Firenze, comprendeva tra le vie e piazze della 24", indicata col nome di Sindicheria del Garbo, "la Via di "Santa Margherita, dal pozzo tondo alla Via Maestra " di Por San Piero; e la Via incontro alla Casa di "Dante „; e questa indicazione corrisponde appuntino colle confinazioni dei documenti, nei quali si legge la casa esser posta “in via, sive platea, Sancti Martini „. Isidoro Del Lungo, il quale pure adduce il documento delle stime d'indennità ai Guelfi, ricorda aitresi che, un tempo, un'arbitraria designazione attribuiva alla parte piú elevata delle case degli Alighieri, sulla piazzetta di Santa Margherita o de' Giuochi, il pomposo titolo di torre di Dante,,, soggiungendo che questa denominazione, piú che altro settecentesca, rimase presto vocabolo vano e indicazione non raccolta popolarmente, ecc.1

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Credo sarebbe cosa ben fatta raccogliere tutti i documenti relativi alle possessioni degli Alighieri, tanto piú che qualche cosa ogni tanto si aggiunge, come è avvenuto di fare al Casanova, ad Umberto Dorini, e ad altri. Tale raccolta potrebbe servire a compilare una nuova monografia, corredata dei transunti dei documenti stessi, riportando anco testualmente quelli di maggiore importanza. Questo lavoro gioverebbe a corroborare le affermazioni fatte e ripetute, ed a chiarirle piú ampiamente.

Lo stato nel quale si trovano gli edifizî acquistati dal Comune di Firenze, sulla piazza e la Via già di San Martino ed in quella di Santa Margherita, non dà che pochissima idea di come fossero ai tempi del Poeta. La torre su quest'ultima via si vede essere stata sdrucita e devastata, non rimanendo neppure interi gli archi del terreno; quanto alla casa cosiddetta di Dante, ai danni e ai guasti antichi si sono aggiunti quelli moderni. Ricordo aver veduta aperta la bottega di questa casa, la fronte della quale, come apparve dopo toltole l'intonaco, è rappresentata nella Tavola III annessa al Rapporto dell'architetto Mariano Falcini, del 3 luglio 1867, pubblicato nel 1869 colla Relazione sopra ricordata. L'esterno del fabbricato, fino al primo piano, era di bozze bugnate; di sopra, di pietre a filaretto; la parte piú alta, di mattoni. L'ingegnere Del Sarto credé bene ingentilirne l'aspetto chiudendo la luce dell'arco inferiore con bozze piane di pietra, e rinnovò l'incrostatura dei primi due piani con bozze bugnate nel modo che ora si vede.

Le case degli Alighieri in Firenze, in "Strenna dantesca,, anno II, 1903.

Firenze, Sansoni, 1891.

3 Vedi Bullettino della Società Dantesca Italiana, vol. IX, p. 181. Questa raccolta sarà fatta dagli editori del Codice dipl. dant. BIAGI E PASSERINI in una delle prossime disp. della loro opera monumentale. (La Direzione).

La comunanza del possesso col fratello Francesco, il quale sembra non fosse colpito dalle condanne come lo fu Dante, oppure qualche diritto che possa essere stato riconosciuto alla moglie sua, fanno supporre che le devastazioni comminate nelle sentenze del 1302, del 1311 e del 1315 non recassero molto danno; ma che per gli altri possessi le disposizioni fossero eseguite, ce lo fanno credere quelle parole che leggonsi nell'atto del di 9 gennaiɔ 1342, col quale vennero restituiti a Jacopo Alighieri i beni posti nel popolo di San Miniato di Pagnolle, tra i quali era un pezzo di terra con vigna e con case sopra detta terra, "combustis et non combustis. „1

Tra gli argomenti portati per impugnare che appartenesse a Dante la casa creduta finora in tutto o in parte di sua proprietà, o per volerle dare maggiore ampiezza, vi è quello di esser troppo meschina ed angusta per aver servito d'abitazione a lui e alla sua famiglia;

ma è da ricordare che la vita sobria e pudica degli antichi fiorentini, anche di agiata condizione, manifestavasi pure nelle fabbriche private. Quasi tutte le case dell'antica Via di San Martino, come pure la massima parte delle altre vecchie di Firenze, hanno solamente due finestre per piano; e quelle che veggonsi di maggior grandezza, per lo piú lo sono perché di due sono state ridotte in una. La Piazza di Mercato Vecchio dal lato degli Amieri, dei Caponsacchi ecc., stava, a testimoniarlo. 1

Lo stemma, anzi gli stemmi a doghe, uno dei quali nella casa che ora rimane sull'angolo della piazzuola riaperta, e l'altro che resta nell'architrave di una bottega in Via Santa Margherita, non sono di nessuna famiglia, ma sibbene della Badia fiorentina, alla quale per molto tempo appartennero quegli stabili, come è dimostrato dai documenti e certificati allegati alle Relazioni citate. Firenze.

JODOCO DEL BADIA.

RECENSIONI

L. RICCI The new Life by Dante Alighieri. Italian text with english translation. - London, Kegan Paul, Trench, Trübner and Co., 1903, in-16°.

Questa nuova edizione della Vita Nuova fu allestita dal signor Luigi Ricci, benemerito presidente della Società dantesca di Londra, col solo proposito di aiutare quegli studiosi che volessero leggere l'opera nel testo originale, come fu scritta da Dante: la traduzione, dunque, non pretende di sostituire la traduzione scolastica e dotta di sir T. Martin, né la libera e poetica versione di D. G. Rossetti. Esso è un pratico invito agli studiosi inglesi di Dante di leggere nell'originale le sue opere, il solo modo oramai, — in tanta farraggine di studî dottissimi, spesso contraddittorî, sempre causa di confusione agli inesperti, dato a loro per conoscere il genio e le idee del Poeta, cioè per conoscere ciò che egli pensò e disse, non ciò che i commentatori gli fecero pensare e dire.

Modesto dunque ma pratico e utile, nella sua modestia possiamo anche dire genialmente indovinato, lo scopo dell'A., e, quel che più monta, felicemente attenuto; il pensiero del Poeta è reso sempre esattamente e chiaramente, in forma facile e piana, rispondente in tutto alla forma dantesca, e se qualche volta al traduttore occorrono molte piú parole che non siano nell'originale, ciò avviene

1 Vedine la stupenda fotolitografia nel libro intit. Studi storici sul Centro di Firenze, pubblicati in occasione del IV Congresso storico italiano a cura del Municipio di Firenze. Firenze, 1889.

non perché egli voglia rivestire di un nuovo bell'abito il pensiero del suo Poeta, ma perché questo a essere chiaramente elucidato abbisogna di piú larga frase che non sia la breve e concettosa dell'originale. Tanto è fedele il signor Ricci a questo suo proposito di esporre solamente il pensiero di Dante nella forma piú semplice e piú chiara, che persino traduce le frasi latine.

Ma a questo suo proposito mi pare contraddica apertamente il modo di tradurre la parte poetica: un' esatta e semplicissima traduzione prosastica avrebbe servito allo scopo del traduttore meglio di una traduzione poetica, per quanto fedele essa sia. Egli non traduce liberamente, ma solamente il costringersi alla fatica di tradurre con un egual numero di versi e, quasi sempre, con la stessa disposizione delle rime i componimenti poetici di Dante, oltre che essere, dato l'intento dell'opera, fatica inutile, porta a qualche lieve infedeltà alla lettera e, quel che più importa, a una generale infedeltà allo spirito, o, dirò meglio, all'intonazione dantesca: è, in generale, nelle traduzioni poetiche, un' enfasi che non è nell'originale, il thou sostituito al voi riesce pure, per quanto leggiero, a un tradimento. Qualche esempio proverà quanto io dico:

Morte villana, di pietà nemica,
di dolor madre antica,

È pubblicato dell'Esilio di Dante: Discorso di Isidoro Del Lungo. Firenze, Le Monnier, 1881, p. 158.

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e termino mettendo a confronto l'originale e la traduzione della prima quartina di uno degli ultimi sonetti:

Gentil pensiero, che parla di vui,
sen vien a dimorar meco sovente,
e ragiona d'amor sí dolcemente,
che face consentir lo core in lui,

suona semplicemente l'originale; e la traduzione, commentando e dichiarando:

Fair, gentte thoughts, wich ever spoke of tice,
Full often come to dwell within my soul;
So sweetly do they reason towareds Love's goal,
That full consent my heart hath paid as fee.

Ma questi esempî, e altri molti che avrei potuto citare, mostrano anche come il professor Luigi Ricci sappia tradurre il non facile suo Poeta; se non che la valentía sua di traduttore contrasta col proposito tanto recisamente espresso nella prefazione, proprio là dove per la men facile intelligenza della parte poetica, sarebbe necessario ch'esso fosse piú scrupolosamente osservato.

Napoli, gennaio 1904.

GIOACHINO BROGNOLIGO.

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BULLETTINO BIBLIOGRAFICO

ALIGHIERI DANTE. Inferno and oter
Translations, by Edward Wilbeforce, a
Master of the Supreme Court. London,
Macmillan and Co., 1903, in 8°.
Recens, in The Times, 4 decembre 1903.

(2738) ALIGHIERI DANTE. The New Life. Translated and illust., by Dante Gabriel Rossetti. London, Ellis and Elvey, 1903, in-8°, pp.

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Documenti nuovi su messer BACCI PELEO. Cino Sighibuldi da Pistoia: an. Dom. MCCCXXXII. Pistoia, coi tipi della Casa Sighibuldiana, 1903, in-8° gr., pp. 32. Estr. dal Bullett, stor. pistoiese, an. V, fasc. 2-3. Questi nuovi documenti mettono in chiaro "le diverse tappe del giurista pistoiese „. È del 15 ottobre 1330 il diploma di re Roberto, dato da Quisinana presso Castel di Storbia, che chiama Cino ad insegnare nello Studio di Napoli per l'anno scolastico 1330-1331; sono dell'ultima parte dell'anno 1331-1332 questi documenti, che attestano con ogni probabilità la sua presenza nello Studio di Firenze; è infine della prima parte dell'anno scolastico 1332-1333 la condotta nello studio di Perugia,

come G. B. Vermiglioli ne diede comunicazione al Ciampi. Cosí vengono corrette alcune affermazioni del Casini (Nuovi documenti su Cino da Pistoia in Propugn., N. S., vol. I, parte I, fasc. 2-3) e annullate le argomentazioni in contrario dello Sterzi (Sulla dimora di Messer Cino a Perugia in Bullett, stor. pistoiese, an. IV, fasc. 2, pp. 61-16). (2740) BERARDI-CONCARI CIRILLO. Un passo della Vita Nuova: saggio di una nuova interpretazione. Bozzolo, tip. E. Orini, 1903, in-8°, pp. 75.

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Il passo è il seguente (Cap. XXVIII, ed. Cas.. XXIX ed. Moore): "Per quello che trattando converrebbe esser me lodatore di me medesimo: e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore,. Nei paragrafi precedenti e segg. non mancano accenni alla futura glorificazione di B. nel cielo ; tra la rappresentazione di lei nella Vita Nova e quella nel Canto XXX del Purgatorio, c'è dunque un accordo. Ora, se esiste accordo tra ciò che è presentato come speranza, desiderio, sogno, vaticinio, e ciò che è presentato come realtà, il P., esprimendolo in una poesia sulla morte della sua donna, sarebbe apparso lodatore di sé medesimo, come appar tale uno che narri che questa o quella cosa è avvenuta proprio secondo ch'egli aveva predetto. Dall'espres

sione: "E però lascio cotale trattato ad altro chiosatore, conviene ricavare il seguente senso: lascio per ora, fino a che crederò conveniente sotto ogni aspetto di trattarne, cioè quando facendolo non apparirò piú lodatore di me medesimo (perché? l'A. non dice; forse pensava per la lontananza nel tempo tra il vaticinio e la rappresentanza come di realtà?) e me ne crederò capace. Ora, se chiosare la morte di B., che D. concepisce come un ritorno dell'anima al proprio stato, vuol dire dichiarare la sua condizione nel cielo, D. fu egli medesimo in appresso il suo chiosatore nella Commedia e, piú particolarmente, nel Canto XXX del Purgatorio; non che, mentre scriveva le parole della Vita Nova, egli rivolgesse nell'animo quella visione, quella Cantica e per di più quel Canto, ma doveva vagheggiare una quale si fosse visione, di cui B. fosse astro maggiore, opinione che s'appoggia sulla seconda strofa della canzone prima dell'operetta. (2741)

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Estr. dagli Atti del r. Istit. ven. di scienze, lettere e arti, an. 1902-3, tomo LXII, parte 2a. L'opuscolo è quasi tutto sul Consigliere degli Scaligeri, il cólto Antonio da Legnago, che merita l'attenzione dei dantisti come ammiratore di D., del quale aveva pur anche la stessa idea politica. (Vedi sullo stesso personaggio "Appendice II, del libro di ODDONE ZENATTI: Dante e Firenze, prose antiche con note illustrative ed appendici, Firenze, 1903, in 8°, pp. xv1-537). (2742)

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BULFERETTI DOMENICO.- La porta del "Pur

gatorio, dantesco: saggio critico. Brescia, Tip. di A. Luzzago, 1903, in-17°, pp. 75-(5).

Il primo gradino, nel quale D. si vede qual'è in effetto, simboleggia “l'esame, che è quel rispecchiarsi dell'anima nel grande specchio della legge di Dio, per vedersi qual'è veramente,,; il secondo, la contrizione; il terzo, "che deve significare una cosa che abbia per carattere la fermezza e l'efficacia e che sia strettamente congiunta con l'amore e la carità,, il proponimento, “ il quale dev'esser fermo ed efficace, e scaturisce da un vero amor di Dio „: proponimento senza il quale il sacerdote non esercita il suo ufficio (vv. 103-4) e che “s'ammassiccia, (sta saldo) sopra il dolore; la confessione ha per simbolo generale la porta; la soddisfazione si compie su per i gironi del Purgatorio; la pietra di

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diamante, è il sigillo sacramentale; la veste color cenere l'umiltà che deve avere il ministro del sacramento della confessione „. Col salire di buona voglia i tre gradi, gettarsi umilemente e divotamente ai santi piedi „, D. fa intendere che si confessa; quindi, avendo soddisfatto alla giustizia, implora che gli sia usata la misericordia di aprirgli la porta; ma prima si dà tre volte nel petto: recita cioè il Confiteor. S'impone la soddisfazioue con l'incisione dei sette P, che vogliono dire propriamente peccavi e che alludono ai sette peccati mortali, i quali lasciano ciascuno come una macchia o una cicatrice che il salire per le diverse cornici fa scomparire, sí che al fine suona la voce: "Beati mundo corde „; la spada accenna al ministero di giustizia divina esercitato dal sacerdote. Le chiavi sono, non v'è dubbio, simbolo dell'autorità e della capacità del sacerdote, figurato nell'angelo. Questi, dando l'avvertimento che chi torna a vagheggiare la colpa rimessa ricade in peccato, spinge la sacra porta, che al primo girare dei cardini stride fortemente, poi, seguitando il giro, vibra con "dolce suono come d'organo, che accompagna il canto onde le anime purgantisi ringraziano Iddio per il perdóno concesso ad una sorella, annunziato dal rombo

la

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della porta che s'apre. L'interpretazione si accorda con cabala, dantesca: D., prima di arrivare alla porta, è stato in tre luoghi (selva, inferno, antipurgatorio); sommando con i tre scalini (esame, dolore, proponimento) e con i tre ultimi atti (confessione, assoluzione, soddisfazione) si ottiene nove; il dieci si può ottenere cosí: D. si batte tre volte il petto e l'angelo gl'incide sette P sulla fronte; oppure il Paradiso è l'uno, siccome il termine a cui D. perviene per gli stadî suddetti, che Questo il sunto della parte interpretativa

sono nove.

del lavoro, che contiene non solo del nuovo, ma anche del buono.

CAGGESE ROMOLO.

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Su l'origine della parte guelfa e le sue relazioni col Comune. (Nell' Arch. st. ital., XXXII, 265).

Sorta nelle città del centro d'Italia, prevalentemente in quelle di Toscana, non propriamente in questo o quell'anno determinato, ma intorno alla metà del Dugento, la parte guelfa crebbe sul terreno delle discordie che affaticavano tutte le classi sociali. Esercitò un vasto potere, specie a Firenze, e nei paesi di tipo fiorentino: e trionfò a Firenze, a Prato, a Bologna, là dove sorse, specialmente a Firenze dal 1267 al 1280, sovra tutto perché, in quella società essenzialmente mercantile, non fu, come la vecchia classe magnatizia, proprietaria quasi esclusiva di beni immobili, ma fece mobile, si adattò economicamente all'ambiente ed operò, come meglio poté, come fu possibile, data la varia costituzione sociale dei singoli Comuni. Prevalentemente di carattere magnatizio a Firenze, prevalentemente popolare a Prato, e cosí via, rappresentò, là dove fu magnatizia, una nuova aristocrazia di fronte al nuovo popolo, e là dove fu di tendenze popolari la parte delle comparse. Insomma, la parte guelfa (che il Salvemini vorrebbe derivata direttamente dalla societas militum sfasciatasi prima del 1240) sorse propriamente quando il popolo si fu formato e le singole associazioni si furono una ad una affacciate alla vita con fisonomia loro propria; quando, specialmente per ragioni economiche, per lo scaduto valor delle terre e l'assottigliarsi delle rendite innanzi al sorgere del ca

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