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(c. VII, vv. 73-96).

Premetto intanto che questa complessa figurazione poetica non è l'effetto, come altri disse, 1 di un'idea" nuova e ingegnosa,; neppure io direi, tanto per aggiungere un nuovo titolo di gloria all'Alighieri, che egli abbia, "cristianeggiando la Fortuna della Mitologia, preluso alla Scienza nuova del Vico,. Dante, infatti, non fu il primo a cristianeggiare il concetto mitologico della Fortuna, ché lo trovò già bell'e cristianeggiato, anzi teologizzato, nel pensiero mistico e scolastico del Medioevo, e quel permutare "a tempo li ben vani, di gente in gente e d'uno in altro sangue, concetto, come vedremo, fondamentale, di antecedenti dottrine, che il Poeta accolse e ravvivò con arte insuperabile.

è un

Ricerchiamo appunto per quali influssi e in quali modi sia Dante arrivato ad una concezione della Fortuna, piú lata e razionale che non fossero certe credenze astronomiche del tempo suo, vivaci propaggini della vecchia scienza sacerdotale egiziana e dell'astronomia islamitica. 3

S'imaginavano nel Medioevo una fortuna buona e una cattiva, sí l'una che l'altra maggiore o minore e rispondenti quella alla collocazione piú o meno perfetta di Giove e di Venere, questa alla disposizione di Saturno e di Marte. Credevasi dai mathematici,, astrologi d'allora, come spiega Alberto Magno nella sua parafrasi dell'Etica di Aristotele, che si determinasse nell'individuo nascente una disposizione naturale, senza che questa fa

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1 LELIO BONSI, Prose fiorent., parte II, lib. I, lez. 4a, pag. 55 (ediz. di Venezia, MDCCXXX, presso Domenico Occhi).

2 C. P. PAGANINI, Chiose a luoghi filosofici della D. C.. racc. e ristamp. per cura di G. FRANCIOSI (Opusc. dant, ined. e rari, di G. L. PASSERINI, V), Città di Castello, 1894, pag. 62.

3 A. MAURY, La magie et l'astrologie dans l'antiquité et au moyen-âge, Paris, 1877, pagg. 43 sgg. e 197.

cesse parte della sostanza dell'individuo come qualità essenziale. Sotto questo riguardo la Fortuna rientra nell'ordine degli effetti, mentre può esser presa anche come una vera causa, in sé stessa, di mutazioni, di condizioni prospere o tristi. Ne riparleremo piú chiaramente in appresso.

Ora debbo notare che Alberto, pur giudicando difettoso il senso doppio od equivoco che alla Fortuna davano le interpretazioni astrologiche, tuttavia non ne riprova affatto la dottrina. Anzi, quando risguarda la Fortuna nella sua natura effettiva, cosí ne parla:

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fortuna [est] qualitas adhaerens nato ex omni causarum in complexione a proprio movente usque ad ultimum moti quod est centrum nati: et haec si ex faustis sit ad prospera, secundum Philosophos, natus habebit potentiam naturalem, si autem ex infaustis sit ad fausta, habebit impotentiam,,; e similmente, anche quando afferma l'indipendenza dell'intelletto e della volontà dalla Fortuna, non toglie a questa ogni dominio su noi: "si constellatione egli dice - vel fato vel fortuna trahitur, hoc non erit nisi in quantum est in corpore,.

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1 "Utrum verum dicant quoad hoc mathematici vel non, non est presentis intentionis perquirere nisi quantum ad hoc solum, quod etiamsi talis qualitas nato adhaereat, non facit in operante aliquam necessitatem propter libertatem intellectus qui dispositioni coelestium corporum non supponitur. . . . . . . Quamvis enim virtus constellationis sit in figuris stellarum per modo necessitantis, tamen in impletione causarum, per quas discendit in sphaeram activorum et passivorum, est per modum contingentis et valde mutabilis „. B. ALBERTI, Opera, tomo IV, Ethicorum, lib. I, tr. VII, cap. IX [ediz. di Lione, 1651].

2 Loc. cit., cap. VI; ove ci dà altresí della Fortuna alcune spiegazioni geomantiche.

3 E aggiunge: "hoc est per aliud et per accidens, ut dicit Ptolomaeus in libro qui arabice Alarba, latine autem Quadripartitum vocatur,; donde si vede, come da altri luoghi della sua vasta Enciclopedia, che Alberto, massime nella filosofia naturale, non fu estraneo agli influssi del pensiero arabo.

4 Cfr. Purg., XVI, 73.

5 Cfr. Purg., XXVI, 23; Par., XXII, 112-123.

presa in buon senso o in cattivo, ha valore obbiettivo e generale e non è chiaro se l'Alighieri intendesse di significare con essa una condizion necessaria o qualità naturale, inerente all'individuo; sennonché potrebbe venir lume agli altri passi dalla ben nota terzina che comincia:

la tua fortuna tanto onor ti serba;

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dove io non intenderei "fortuna come si spiega comunemente, nel senso di "disposizione dei cieli, ma piuttosto, come disposizione o potenza naturale determinata nell'individuo dall' "incomplexio causarum, con che Alberto Magno commenta teologicamente (lo vedremo tosto) il concetto di Fatum; e cosí è che la "potentia, e l'" impotentia „ del trattato albertiano corrispondono alla "buona, e alla "cattiva, fortuna di Dante e dell'uso volgare. Non è certo da credere che il nostro Poeta avesse il proposito di accostarsi all'opinione degli astrologi, giacché l'avea dichiarata falsa Aristotele e Tommaso d'Aquino non erasi preso nemmeno la briga di confutarla, se non indirettamente ragionando del Fatum; ad ogni modo può darsi che gli fossero note ed accette le idee piú concilia

tive del Dottor di Colonia.

Considerata in sé, nel doppio rispetto etico e metafisico, la Fortuna dantesca è la forma evoluta di un'idea germinale che Aristotele avea raccolta dal pensiero di alcuni filosofi.

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Certo è che prima del "maestro di color che sanno, prevaleva la tendenza a concepir la Fortuna sprovvista del carattere della causalità, ed Aristotele, che combatté apertamente le idee dei poeti che se la raffiguravano malvagia e cieca, contribuí a dare autorevolezza e divulgazione all'opposta tendenza, di veder nella Fortuna una causa operante e Oscura alla mente umana, come se fosse qualche cosa di divino o un nume superiore (&g δεῖόν τι οὖσα καὶ δαιμωνιώτερον). Il Filosofo di Stagira pensava che fra le cose, che avvengo

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no necessariamente o frequentemente o di rado, quest'ultime dovessero comprendersi nell'àmbito della Fortuna: premessa importantissima che fu, meglio che da ogni altro, chiarita da san Tommaso, il quale ammetteva che il " caso e la "fortuna, fossero riducibili "ad genus causae moventis,, ma, sviluppando il pensiero aristotelico, osservava: "Sed tamen, quia casus et fortuna sunt causae per accidens, 3 eorum multitudo est indeterminata Non si toglie, dunque, valore causale alla Fortuna, ma Aristotele stesso, dimentico forse della concessione fatta alla sentenza contraria di altri, ne esclude l'assoluta razionalità; egli, infatti, trae dalla premessa surricordata la conseguenza che la Fortuna è qualche cosa di alieno dalla ragione (tí napáλcɣov), poiché la ragione (λóyog) è di quelle cose che sono sempre e di quelle che sono frequentemente; 5 è, in fondo, l'antica e tradizionale opinione che l'Aquinate dichiara cosí: "Quia causae [quelle che operano "raro,, non “semper, ofrequenter] in paucioribus existentes sunt per accidens et infinita et sine ratione, sequitur quod fortunae sint causae infinitae sine ratione, opinione antica e volgare che Aristotele, a dire il vero, temperò non negando affatto alle operazioni della Fortuna una tal quale causalità razionale. 7

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4 Comm. cit., II, lect. 10a.

5 Φυσ. άκρ., ΙΙ, 5.

6 Comm. cit, II, lect. 10a.

7 Per Aristotele la Fortuna è una " causa fortuita, cosí commenta l'Aquinate che aliquid operatur ad effectum fortuitum, licet non intendat illud, sed aliquid aliud effectui coniunctum,. (Comm. cit., II, lect. 9a). E piú sopra leggiamo (lect. S): "Quae si a proposito sunt propter aliquid et in minori parte fiunt et a causa secundum accidens, tunc dicimus ea esse a fortuna, ” * 8 'Həшòv peɣákov, lib. II, cap. VIII.

stotelica, modificando l'interpretazione, data dal Maestro, della natura etica della Fortuna e svolgendo o, meglio, innestandovi di bel nuovo gli attributi teleologici. E cosí fece Dante. Sorgenti del pensiero di lui sono le dottrine di sant'Agostino, di Boezio, di Alberto Magno e di san Tommaso.

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A sant'Agostino è dovuta la prima determinazione veramente teologica del concetto di Fortuna; io ne riassumerò in breve le idee relative a questo argomento e riferirò due luoghi che probabilmente non furono ignoti a Dante, anzi l'aiutarono a svolgere dall'oscuro concetto aristotelico un'idea piú viva e compiuta. Il grande rappresentante della Patristica sostenendo, in opposizione alle idee pagane, la prescienza divina, distingue tre specie di cause: fortuite, naturali e volontarie; di queste alcune identifica con gli "Angeli,, esecutori sempiterni e beati della Provvidenza; alla quale dunque tutte le volontà sono soggette; gli Angeli, stessi non hanno potestà se non in quanto è stata loro concessa da Dio, 1 Un passo notevole, già da altri rilevato, è questo: "Nos enim eas causas quae dicuntur fortuitae, unde etiam fortuna nomen accepit, non esse dicamus nullas, sed latentes, easque tribuimus vel Dei veri vel quorumlibet. spirituum voluntati E forse, nello scriver cosí, sant'Agostino concepiva, in ordine alle vicende delle cose contingenti, una volontà superiore e indipendente, per quanto la potestà, di che Iddio l'abbia insignita, dipenda dalla Potestà suprema di lui. Ora, chi ben guardi, la Fortuna di Dante è appunto uno degli "Angeli, o "Dei,,,5 che, pur eseguendo nell'eser

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4 Infatti questa sentenza, alquanto diversa da quella espressa poi nei luoghi sopra citati, trovasi esposta cosí nel De civit, dei, V, 8 "a quo [Dio] sunt omnes potestates, quamvis ab illo non sint omnium voluntates „.

5 Già la sacra Scrittura aveva attribuito questo nome agli Angeli,; cfr. Lib. dei Salmi, LXXXI, I: "Iddio sta nell'adunanza degli dei e in mezzo a loro degli stess dei fa giudizio „; e al no 6: " Io ho detto: Voi siete dii, o figliuoli tutti dell'Altissimo,,; S. PAOLO, Epist. Ia ai Corinti, 8, 5: "Imperocché quantunque sianvi di quelli

cizio della potestà loro quella divina, traggono in atto con libero giudizio la loro volontà. '

È però da notare che nell'autor della Commedia erasi formato, per più profondo studio dei testi teologici, un concetto antitetico a quello già manifestato, come vedremo a suo luogo, nel Convivio circa la distribuzione dei beni e dei mali: che, cioè, questa fosse opera mediata di Dio e quindi giusta e proficua agli uomini. Non per nulla, premessa l'ingenua domanda:

questa Fortuna, di che tu mi tocche,

che è che i ben del mondo ha sí tra branche?
(Inf., VII, 68-69),

si lascia riprendere da Virgilio con le aspre parole:

o creature sciocche
quanta ignoranza è quella che vi offende

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1 Si ricordi il verso: ella provvede giudica, e persegue Suo regno. E che Dante intendesse di dare agli 46 angeli buoni,,, se non la " potestas, assoluta, certo la " voluntas armonizzante con Dio, appare dai versi: Per che le viste lor fùro esaltate Con grazia illuminante e con lor merto Si c'hanno piena e ferma voluntate (Par., XXIX, 61-63). Cfr. S. TOMMASO, Summa theol., I, q. 62, art. 8.

2 "Ista vero temporalia bona et mala utrisque voluit esse communia, ut nec bona cupidius appetantur, quae mali quoque habere cernuntur, nec mala turpiter evitentur, quibus et boni plerumque afficiantur. Interest autem plurimum qualis sit usus vel earum rerum quae prosperae vel earum quae dicuntur adversae..... Ostendit tamen Deus saepe etiam in his distribuendis evidentius operationem suam....... In rebus secundis, si non eas Deus quibusdam petentibus evidentissima largitate concederet, non ad eum ista pertinere diceremus; itemque si omnibus eas petentibus daret non nisi propter talia praemia serviendum illi esse arbitraremur, nec pios nos faceret talis servitus, sed potius cupidos et avaros (De civit. Dei, VIII, 1).

ghieri dal celebre Vescovo d' Ippona, il quale con acuta dialettica aveva oppugnata la deificazione antropomorfica della Fortuna, operata dai Gentili, e il culto prestatole e i conseguenti attributi di buona e cattiva.

Giacché - aveva detto sant'Agostino la venerate come un'assoluta divinità, io vi domando: in qual modo è dessa buona, se viene ai buoni e ai malvagi senza discernimento? Non giova punto venerarla, se è fortuna. Se poi ella discerne i suoi adoratori col fine di giovar loro, non è fortuna. O è, piuttosto, Giove che la manda dove egli vuole? E allora si veneri lui solo. 1

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Bene, adunque, il nostro Poeta, memore della brillante confutazione agostiniana, taccia di sciocca ignoranza quelli che reputavano la Fortuna padrona dispotica dei beni temporali.

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Le permutazioni, che ella opera "a tempo, cioè "opportunamente, (cosí io spiegherei) sono regolate da quelle ragioni che sant'Agostino scrutava in armonia col concetto della Provvidenza onnipotente.

V'era da chiarire un altro punto di grande importanza, l'idea di "Fatum,, che gli astrologi interpretavano come "astrorum constitutionem, sicut est cum quidque concipitur vel inchoatur,; l'autore del De civitate Dei, che a lungo avversò le speculazioni astrologiche, vi si schiera contro anche questa volta stando con quelli che nel "Fatum, vedevano "omnium connexionem seriemque causarum quanto che quest'ordine delle cause "Dei summi tribuunt voluntati et potestati „.

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Torneremo in appresso su questo concetto teologico di "Fatum,, di cui molto s'appassionarono gli scrittori ecclesiastici sino a rintracciarlo ne' classici, per esempio in Seneca; dirò intanto che quale è in sant'Agostino e, dipoi, in tutta la Scolastica, tale fu accolto dall'Alighieri. 3

A Boezio, come fonte del concetto dantesco della Fortuna, pose attenzione il Moore ne' suoi pregevoli Studies: non sarà tuttavia inutile riprender l'argomento e approfondir la

1 De civit. Dei, IV, 18.

2 De civit, dei, V, S.

3 Cfr. Che giova nella fata dar di cozzo (Inf., IX, 97); Alto fato di Dio sarebbe rotto (Purg., XXX, 142).

EDW. MOORE, Studies in Dante, First Series, Scripture and classical authors in Dante, Oxford, 1896, pagine 285-6.

ricerca. Il dotto inglese ha confrontato i versi danteschi 88-90 del VII dell'Inferno con alcuni luoghi del lib. II del De consolat. Philos., ove, come in Dante, è attribuito alla Fortuna il carattere della perenne e indeclinabile mutabilità, come condizion necessaria del sovrumano dominio di lei. Sta bene; ma non si dimentichi quel che segue: "Talis erat cum blandiebatur, cum tibi falsae illecebris felicitatis alluderet. Deprehendisti coeci numinis ambiguos vultus. E poi: "Rerum exitus prudentia metitur, eadem in alterutro mutabilitas nec formidandas fortunae minas nec exoptandas facit esse blanditias „.

E si vegga, infine, e si confronti con la "Fortuna, dantesca questa figurazione poetica della Dea che Boezio fa seguire alla prosa I": Haec cum superba verterit vices dextra et aestuantis more fertur Euripi, dudum tremendos saeva proterit reges, humilemque victi sublevat fallax vultum, non illa miseros audit: haud curat fletus; ultroque gemitus dura quos fecit, ridet. Sic illa ludit, sic suas probat vires; magnumque suis monstrat ostentum, si quis visatur una stratus ac felix hora.

Ora, se si eccettui il v. 5° che (convengo col Moore 2) ritorna poco diversamente atteggiato nel 94° dantesco, non è chi non vegga come l'idea ispiratrice e dominante sia qui parecchio dissimile da quella che governa la dipintura dell'Inferno. Raffigurar la Fortuna in una cotal donna o dea, che irride, si prende gioco di noi, "saeva,, "fallax „, ostentatrice di sua forza, è proprio dell'arte antica; e tutta materiata di reminiscenze virgiliane e oraziane e d'altri classici è la vivace rappresentazione del Filosofo romano; il quale però, cristiano e teologo, lasciò alla tradizione classica l'attributo della cecità, facendo per tal modo un gran passo verso la concezione teologica. È vero, ma la sua Fortuna non possiede la serenità mistica, imperturbabile e l'operosità schietta e leale di quella concepita dall'Alighieri.

1 "Hi semper eius mores; haec natura est. Servavit circa te propriam potius in ipsa sui mutabilitate constantiam......„ (lib. II, `pr. 1); "Tu vero volventis rotae impetum retinere conaris? At, omnium mortalium stolidissime, si manere incipit, fors esse desistit, (ivi, in fine); "Haec nostra vis est, hunc continuum ludum ludimus. Rotam volubili orbe versamus, infima summis, summa infimis mutare gaudemus „ (lib. II, pr. 2). 2 Cfr. Studies cit., I, 285.

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Piuttosto, son da tener presenti la conclusione del pensiero boeziano sulla Fortuna risguardata nell'aspetto morale e il discorso sulla viltà delle ricchezze, dal quale non è affatto aliena la III stanza della canzone Dolci rime d'amor ch'io solía col relativo commento prosastico.3 Nessuna giustizia distributiva vedeva Dante nelle vicende della Fortuna, quando componeva il Convivio, ma " iniquità, segno d'imperfezione; e cosí pensando, seguiva l'opinione volgare, mentre per la parte intesa a dimostrare che i beni di fortuna non conferiscono nobiltà né felicità vera, segue l'indirizzo etico-didascalico di Boezio, il quale appunto imagina che la Filosofia lo ammonisca cercando di distorlo dal ricordo del tempo felice coll'insinuargli che la bella Fortuna, come quella che è cruda e ingannatrice, non poteva sorridergli se non con false lusinghe di felicità. Di qui appare logico che il vecchio filosofo abbia nel II libro atteggiata la Fortuna conforme i modi della poesia pagana.

A mio avviso, dunque, il ragionamento del Il libro poté suggerire a Dante alcune imagini poetiche, non la sostanza concettuale della complessa figura dell'Inferno; maggior copia di piú vitali elementi d'ispirazione dovette offrirgli il IV, dove l'idea di Fortuna è prevalentemente cristiana; il che possiamo spie

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1 Cfr. lib. II, pr. 2: "Quid tu, homo, ream me quotidianis agis querelis? Quam tibi fecimus iniuriam? Quae tua tibi detraximus bona?...... Te meis opibus fovi et, quod te nunc impatientem nostri facit, favore prona indulgentius educavi et omnium, quae mei sunt iuris, af. fluentia et splendore (anche in D. splendor mondani „) circumdedi. Nunc mihi retrahere manum libet; habe gratiam, velut usus alienis...... Quid ergo ingemiscis? Nulla tibi a nobis illata est violentia,. A che piangere e adirarsi prosegue "si haec ipsa mei mutabilitas iusta tibi causa est sperandi meliora?, Vedi anche le prose 5a, 6a, 8a. Sulla scorta di questo passo si posson chiarir meglio i vv. 91-93 del VII dell'Inferno nel modo seguente: La fortuna è con tanta infamia vituperata sol da coloro che, privati de' suoi favori, dovrebbero essere soddisfatti d'averne goduto, e dalla mutabilità insita nella dispensa dei beni dovrebbero trarre argomento a bene sperare in una mutazione fortunata di stato, nella ripresa cioè della felicità che li ha temporaneamente abbandonati.

2 Lib. II, pr. 6.

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3 Conv., IV, 11 e 12.

4 Conv., IV, 11.

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5 Boezio vi accenna cosí: "Quae vero, inquies, potest ulla iniquior esse confusio quam ut bonis tum adversa, tum prospera, malis etiam tum optata, tum odiosa contingant?„ (lib. IV, pr. 6).

gare avvertendo che il discorso, che ne fa questa volta Boezio, rientra nella trattazione generale concernente l'ordine, diremo noi, dinamico delle cause e le predisposizioni della Provvidenza.1

La Fortuna boeziana del IV libro è una potenza superiore alle contingenze umane e terrene; razionale e provvida perché strumento della Provvidenza ; operante con inflessibile necessità, perché gli atti e gli effetti suoi si svolgono dall'indissolubilis causarum connexio,; giudiziosa e costante nella sua stessa mutabilità, perché eseguisce l'ordine fatale delle cose, 2 buona in tutte le vicende che regge, perché giusta e utile. 3

V'ha un passo della prosa 6a (lib. IV) che mi sembra di capitale importanza: "Deus providentia quidem singulariter stabiliterque facienda disponit; fato vero haec ipsa quae disposuit, multipliciter ac temporaliter administrat. Sive igitur famulantibus quibusdam providentiae divinis spiritibus fatum exercetur, seu anima, seu tota inserviente natura, seu coelestibus siderum motibus, seu angelica virtute, seu daemonum varia sollertia, seu aliquibus horum seu omnibus fatalis seres texitur,

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1 Boezio afferma anzitutto: "Omnium generatio rerum cunctusque mutabilium naturarum progressus et quidquid aliquo movetur modo, causas, ordinem, formas ex divinae mentis stabilitate sortitur, (lib. IV, pr. 6). Distingue poi Provvidentia e Fatum: "est illa ipsa divina ratio in summo omnium principe constituta, quae cuncta disponit; fatum vero inhaerens rebus mobilibus dispositio, per quam Provvidentia suis quaeque vestit ordinibus...... Fatum vero singula digerit in motum locis formis ac temporibus distributa: ut haec temporis ordinis explicatio, in divinae mentis adunata prospectu Providentia sit; eadem vero adunatio digesta atque explicata temporibus Fatum vocetur, (ivi).

2 Lib. IV, prose 6 e 7.

3 Discute l'opinione volgare di due Fortune, una buona e l'altra cattiva, e sostiene che " omnem bonam prorsus esse fortunam ,,, perché "cum omnis fortuna vel iucunda vel aspera, tum remunerandi exercendive bonos, tum puniendi corrigendive improbos causa deferatur, patet quod omnis bona est, quam vel iustam constat esse vel utilem, (lib. IV, pr. 7): è facile accorgersi che dalla concezione boeziana non è punto dissimile quella dantesca dell'Inferno: il principio etico fondamentale è lo

stesso.

4 Per l'influsso filosofico che questi esercitò sul pensiero di Dante vedi, segnatamente, R. MURARI, Boezio e Dante; saggi II e III, in Giorn. dant., V, pp. 18-39 e VII, pp. 36-52; cfr. anche G. A. LUDWIG BAUR, Boe

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