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nove giorni: in tali condizioni, l'osservazione retta dei cieli non avrebbe menomamente potuto fissare il grado ove si trovava il pianeta; bisognava ricorrere al calcolo. Ora, anche supposto che Dante fosse versatissimo nell'astronomia, era sempre astronomia di quei tempi. Quali strumenti e quali mezzi si possedevano allora per tal conteggio? Lo ignoro. Ma mi pare assai probabile che fossero tali da indurre in errori forse anche di diversi gradi. 2 E bastava un errore di otto o dieci per far credere che Venere fosse ancóra mattutina. Era invisibile, si dirà. Certo; ma Dante non dice che fosse visibile, dice solo che raggiò nel monte alcuni minuti prima del sorger del sole. Dunque Dante ha sbagliato? Ciò non farebbe piacere all'Angelitti. Ma si tratterebbe d'uno sbaglio in cui avrebbe potuto incorrere qualunque altra persona ai suoi tempi. Non dobbiamo, mi pare, spingere la nostra ammirazione per Dante sino al punto di dichiararlo infallibile. Del resto, io non dico che sia stato cosí; dico solo che mi sembra una spiegazione possibile.

La sera del secondo giorno sulla montagna del Purgatorio, Dante si trovava con Virgilio a settentrione dell'isola. 3 Egli poteva dunque vedere tutta la fascia zodiacale. Il 10 aprile 1300 il solo pianeta visibile era Saturno in Leone; il 29 marzo 1301 egli avrebbe potuto vedere Marte e Saturno tutti e due in Leone, e Giove, sino a un'ora e mezzo dopo il tramonto, in Toro. Egli non accenna a nessuno di questi astri, perché, dice l'Angelitti, era assorto in conversazione con Virgilio. E la spiegazione, se non è vera, è ingegnosa. Ma questa spiegazione non mi pare reggere ugualmente bene per la sera del terzo giorno. Egli si trovava allora a ponente dell'isola in quella specie di grotta che faceva la scala conducente all'altipiano del Paradiso terrestre, sicché le poche stelle che vedeva sembravano piú lucenti del solito.

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1 Certo, questa è una semplice supposizione, che può anche non avere alcun valore, ma mi pare che ci debba essere un'enorme differenza tra il risultato di calcoli precisi come lo consente la scienza d'oggidí, e di quelli che si potevano fare dagli antichi.

Lo deduco dal fatto ch'egli verso mezzanotte vedeva la Luna correre per il cielo, (XVIII, 76-78) e la Luna, come il Sole, passa a settentrione di Purgatorio, e dall'altro, che, la mattina dopo, egli camminava Sol nuovo alle reni, (XIX-39).

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Ed egli dice espressamente che "stava mirando in quelle,. 1 Ora in tale posizione il 30 marzo 1301, la stella che gli sarebbe stata proprio davanti agli occhi vicino all'orizzonte, e assai piú fulgida di qualunque altra, sarebbe stata Giove, e ch'egli non ne parli è per lo meno altrettanto strano quanto ch'egli non accenni d'aver visto Marte la mattina sull'isola, se si suppone che vi sia giunto l'8 aprile. Dunque qualche discrepanza c'è anche tra le posizioni astronomiche del 1301 e le indicazioni dantesche, e queste non determinano con tutta certezza l'anno.

Che cosa se ne deve dedurre? O che Dante, osservando direttamente, non si sia poi ricordato esattamente la posizione degli astri, o che, dovendole calcolare, abbia commesso qualche errore; o che le abbia desunte da notizie astronomiche inesatte. Nessuna delle tre supposizioni può andare molto a sangue a un ardente ammiratore di Dante, come l'Angelitti.

Ma osservo, con una certa sorpresa, che l'Angelitti, pur affermando con tanto calore che Dante non può essersi sbagliato, gli attribuisce poi due errori, uno di confusione, l'altro di calcolo, oppure di espressione largamente inesatta. Egli dice che Dante "fa un po' di confusione tra costellazioni e se

1 Idem., v. 91.

2 Ricordo qualche anno addietro d'aver visto Giove in Sagittario. Appariva una stella grandissima e brillantissima, e si mostrava prima dl qualunque altra dopo il tramonto. È un pianeta che deve inevitabilmente attirare gli sguardi anche dei piú distratti. In quanto a Marte e Saturno, l'Angelitti stesso ammette che le loro posizioni non sono tra quelle piú decisive riguardo alla data. Sembrano piú favorevoli al 1301, specialmente quella di Marte; ma ho già detto come si potrebbe spiegare il silenzio di Dante intorno a questo pianeta, visibile la mattina dell'8 aprile, e quanto alle parole di Cacciaguida, "Al suo Leon.... venne,, (Par., XVI, 37-38) il verbo venire si usa troppo spesso in italiano nel senso di arrivare e di tornare, perché se ne possa dedurre che Marte si trovava allora stesso in Leone. Le parole che riguardano Saturno "sotto il petto del Leone ardente,, mi sembrano troppo fantasiose e figurate per potersi interpretare con esattezza. In ogni modo, per dar loro un significato preciso, bisognerebbe disegnare nella costellazione la figura stessa del leone, come facevano gli antichi. Il Moore, in un articolo di cui fece recensione il Boffito nel Bullettino della Società dantesca (vol. X, fasc. X, pag. 303), fece questo, ma non so con quanta precisione. So però che egli trovava la posizione di Saturno rispetto alla figura nell'aprile 1300 piú confacente alla descrizione che ne fa Dante.

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gni„. A dir vero, dalle parole ch'egli cita io avrei dedotto proprio il contrario, che, cioé, Dante distinguesse perfettamente tra gli uni e le altre. Ma, comunque sia, quale accusa è più grave, quale lede maggiormente la dignità mentale: dire che un uomo, alla distanza d'una diecina d'anni, abbia confuso alcuni dati nella sua memoria, o dire che la sua intelligenza non fosse capace di fare una distinzione cosí semplice e cosí ovvia? Parlando della profezia di Farinata, l'Angelitti dice: "Se allude al fatto della Lastra, si sarebbe verificata dopo 53 lunazioni pel 1300, dopo 40 pel 1301. Se invece allude al rogito 18 giugno 1303, si sarebbe verificata dopo 40 lunazioni per il 1300, dopo 27 pel 1301 „. Ora a me pare che non cinquanta, non può voler dire né 53 né 40 né, meno ancòra, 27; tanto piú che manco a farlo apposta!

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questi numeri avrebbero potuto essere espressi esattamente nel verso, con qualche lievissima modificazione della terzina. Il "non cinquanta, è evidentemente un termine massimo; ma non mi pare ragionevole supporre che si alluda a un fatto di molto anteriore, e siccome 50 lunazioni sono equivalenti a 4 anni e un giorno circa; le parole, nel loro senso più naturale, dovrebbero riferirsi a un avvenimento tra il gennaio e l'aprile 1304 o 1305. Gli storici determinino. Io mi trovo. per piú ragioni nell'impossibilità di fare tali ricerche.

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Nulla perciò posso dire o pro o contro le ragioni addotte dall'Angelitti per fissare la data delle seconde nozze di Beatrice d'Este al luglio 1300, 3 e la morte di Casella nello stesso anno, salvo che mi sembrano molto convincenti, e che quei due dati storici paiono altrettanto in favore del 1301 quanto quelli della morte di Guido Cavalcanti e della predizione di Corrado Malaspina sembrano in favore del 1300. Mi permetterò però, prima di conchiudere, di accennare a qualche altro dubbio sorto in me leggendo la discussione che fa l'Angelitti dei dati cronologici e storici.

L'Angelitti sostiene che Beatrice morí a

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venticinque anni compiti,'e cita in proposito il Convivio. Ora dalle parole del Convivio, ove si dice che l'adolescenza "dura fino al venticinquesimo anno „, 2 si potrebbe altrettanto bene capire fino al principio quanto fino alla fine del venticinquesimo anno. Poco appresso, nello stesso capitolo, Dante stabilisce la durata della giovinezza a venti anni. “E la ragione che ciò mi dà, si è che 'l colmo del nostro arco è nelli trentacinque, tanto quanto questa età ha di salita, tanto dee aver di scesa... Avemo dunque che la gioventude nel quarantacinquesimo anno si compie: e siccome l'adolescenza è in venticinque anni che procede montando alla gioventude; cosí il discendere, cioè la senettute, è altrettanto tempo che succede alla gioventude; e cosí si termina la senettute nel settantesimo anno Dal che si vede che per Dante, "nelli trentacinque, e "in venticinque, sono sinonimi con trentacinquesimo e venticinquesimo, e ch'egli pone il principio della gioventú nel venticinquesimo anno.

L'Angelitti sembra, se capisco bene, asserire che Dante non fu priore nel 1300; e questo è, credo, assolutamente contrario ai fatti documentati.

A proposito dell'età di Cangrande, l'Angelitti osserva che, essendo egli nato ne' primi di maggio 1291, non aveva ancora nove anni nell'aprile del 1300, e che perciò la frase "pur nove anni, non sarebbe stata a lui applicabile. Ma se pensiamo all'uso che fa Dante quasi sempre della parola pur, l'espessione "pur nove anni, si potrebbe interpretare come "solo „ appena nove anni„, e si attaglia assai meglio al 1300, quando ne aveva 8 e 11 mesi e forse piú, che al 1301, quando ne aveva quasi dieci. (Questo quando la data sia corretta).

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L'Angelitti dà, mi pare, troppo peso alle espressioni " "tosto "poco tempo „, "non molto dopo ancor ha già l'un pié dentro la fossa, come contrarie al 1300. Con parole simili piú d'una volta nella Commedia si accenna a fatti che non si compiono se non dopo parecchi anni." Ed è infatti natu

1 Idem., pag. 18 e Sulla data del Viaggio dantesco, pag. 35.

Convito, Tratt. 4o, Cap. XXIV.

3 Sull'anno della Visione dantesca, Napoli, 1898,

pag. 34 e 38.

4 Idem., pagg. 34-35.

5 Idem., pagg. 36-38.

6 Purg., XXIV, SS; Par., XIX, 116; con un tosto

rale che alle anime che hanno l'eternità davanti a sé, lo spazio di pochi anni sembri una frazione minima di tempo.

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In conclusione: se le mie osservazioni hanno qualche esattezza, i dati astronomici s'accordano per la maggior parte tanto col 1300 quanto col 1301; la posizione della luna discorda col 1301, quella di Venere discorda con tutti e due. (Per il 1300 mi si è affacciata una spiegazione che mi sembra plausibile; forse qualcun altro potrà trovarne una migliore che si confaccia al 1301); la posizione di Marte s'accorda meglio col 1301; quella di Giove, meglio col 1300. Dei dati storici, le seconde nozze di Beatrice d'Este, la morte di Casella, e forse quella di Forese

si accenna anche al tanto sospirato liberatore d'Italia (Purg. XXXIII, 41, e Par., XXVII, 60), che non era ancora venuto quando il poema fu terminato.

Prendendo la data del 1300, Dante avrebbe fatto un errore (o uno spostamento) di tutt'al piú 15 gradi; se si prende la data del 1301, ci sarebbe un errore (o spostamento) di almeno 30 gradi, ed essendo allora Venere visibile, l'errore sembra piú inesplicabile nel secondo caso che nel primo. Aggiungerò, a semplice titolo di curiosità, non perché influisca sul risultato della questione, che se per Dante la montagna del Purgatorio si trova a ovest di Gerusalemme, era in Purgatorio il tramonto del giorno 10 aprile, Domenica di Pasqua, quando l'angelo cancellò dalla fronte di Dante l'ultimo dei sette P, se si prende la data del 1300; ed era il tramonto del Giovedí santo, se si prende il 1301.

sono in favore del 1301; le altre, o sono incerte, o sono in favore del 1300.

Dante è dunque in contradizione con sé stesso e con la verità storica e scientifica? Non credo; credo che si finirà col chiarire tutti i dubbî che ancóra abbuiano questa quistione. Ma quand'anche si dovesse finire col conchiudere che Dante abbia sbagliato, che si sia ricordato bene, o che abbia calcolato male o che abbia scientemente alterato, la sua gloria vera non verrà per questo menomata. La poesia non è storia e non è matematica. Noi possiamo ammirare l'ingegno sottile di Dante, la sua dottrina vasta ed esatta per quei tempi, la sua conoscenza degli avvenimenti contemporanei, la maravigliosa architettura del suo gran poema, ma la sua vera gloria non sta in queste cose; la sua vera gloria è nella rappresentazione efficace e potente dei caratteri, degli affetti umani, della natura, del pensiero, in quella stupenda sintesi armonica di tutto il suo secolo, nell'eterna verità ideale del suo dramma dell'anima. E a questa gloria nulla si può aggiungere e nulla si può togliere. Questa verità sarà, forse oltre tutto, la conclusione piú importante a cui meneranno le lunghe controversie intorno alla data del mistico viaggio.

Palermo, 1904.

IRENE ZOCco.

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RECENSIONI

The Dante Society Lectures. I. The Athenaeum press, Bream's Buildings, Chancery Lane, London, 1904, 16.

Questo elegante, ma non sempre tipograficamente corretto, volume è il primo di una serie, che sarà annua, e raccoglie le Letture tenute prima del 1904 presso la Società dantesca di Londra: non può dirsi che esse portino contribuzione nuova allo studio di Dante, e non è maraviglia, e né meno è male, ché trattandosi di conferenze per il gran pubblico, e di oratori che di Dante non hanno, in generale, né possono aver fatto l'oggetto principale dei loro studî, si avrebbe torto di richiedere piú che una semplice opera di divulgazione, un atto di reciproca cortesia tra i letterati e gli studiosi di due nazioni amiche. Ma ciò non vuol dire che l'opera di divulgazione, l'atto di cortesia devano servire di lasciapassare agli errori; e gli errori abbondano, pur troppo, in queste letture, le quali, quando non sono errate, sono intessute di vaghe generalità, superficiali e vuote, fatte sempre le debite, ma ahimè! scarse eccezioni.

Apre il volume la conferenza, senz'altro intitolata Dante, del compianto barone Fr. de Renzis, nostro ambasciatore a Londra, della quale ebbi già ad occuparmi in altro quaderno del Giornale: giustizia vuole aggiunga che nell'immediato confronto con l'altre, essa non appare di queste peggiore, o comunque indegna; ma poiché altro non potrei dire senza ripetermi, passo alla seconda lettura, di Alfredo Austin, poeta laureato della Corte inglese, sincero e grande ammiratore di Dante, ma, ch'io sappia, non un dantista. Nessuna maraviglia dunque se la sua conferenza appare un po' vaga e sopratutto inferiore all'importanza dell'argomento, la trattazione realistica dell'ideale in Dante; per mostrare quanto Dante sappia render sensibile il soprasensibile, trattare cioè realisticamente l'ideale, l'illustre Poeta si indugia ad analizzare l'episodio di Casella, e, piú brevemente, quello di Francesca e l'apparizione di Beatrice nel Paradiso terrestre. Ma nell' Inferno e nel Purgatorio Dante lascia ai suoi personaggi la figura umana, li rappresenta e li tratta cosí come ancóra fossero in carne ed ossa; ora l'insistere, come fa l'Austin, il quale questo solo lato par veda dell'arte di Dante, che in realtà si tratta invece di anime, è un sottilizzare inutile. Per svolgere compiutamente il suo argomento, egli doveva ricorrere al Paradiso, la maravigliosa Cantica, nella quale i personaggi non si presentano piú con la figura umana, e veramente il soprasensibile diventa sensibile senza perdere nulla della sua spiritualità. Senonché il Paradiso pare ignoto cosí all'Austin come, in generale, agli altri autori di queste conferenze, le quali, se vogliamo spremerne il succo, vedremo che s'aggirano intorno agli episodi più famosi e piú sfruttati delle due prime Cantiche, e ai fatti più noti della vita di Dante. Dante e il Botticelli sono argomento della terza conferenza, della signora Craigie, la quale, piú che del Poeta, parla del pittore, e con un confronto troppo forzato vuole mo

strare come questi due uomini di genio cosí differente, e vissuti in due cosí diversi periodi della storia di Firenze, arrivarono a un egual giudizio o sentimento intorno ai problemi posti dalla fede cattolica; ma di Dante ella ha notizie non troppo esatte, e le spaccia tuttavia con una sicurezza che ci fa stupire. Secondo lei, Dante, di ricchi genitori e di buona famiglia, ricevette la piú fina educazione possibile a quei tempi; studiò legge e gli autori classici, ma amò la musica e il disegno, e fu ammaestrato nell'una e nell'altro; si distinse nel servizio militare, e nella spedizione (?) spiegò tale uno spirito che fu mandato ambasciatore in parecchie occasioni a varie Corti e Repubbliche d'Italia. A trentacinque anni era uno dei principali magistrati di Firenze, ma n'ebbe dei guai, dei quali l'egregia autrice non stima necessario occuparsi; aggiunge che molto più tardi andò ambasciatore al Papa e quindi ai Veneziani; e conclude: si può dire che i suoi contemporanei devono aver sentito che un uomo veramente straordinario era fra loro. E più oltre: nessun artista o poeta del tempo di Lorenzo il Magnifico conobbe più di Dante la letteratura pagana, la vita pubblica e sociale: cosí a lui, invece che al Petrarca, dà il merito di aver precorso il Rinascimento; quale noi l'intendiamo, è vero che aggiunge. Ma perché indugiarmi a dire della conferenza di chi, cominciando, osa confessare di aver fatto suo prò del suggerimento di un eminente dotto, il quale le ebbe ad insegnare: voi potete parlare e scrivere di tutto ciò che vi piace in una volta, e se abbisognate di un titolo, eccovelo: poche osservazioni su Dante; tutto andrà bene?

Le vicissitudini della fama di Dante offrono al signor R. Garnett l'argomento di una buona conferenza; essa però non mantiene quanto il titolo promette, ché l'A. ci presenta solamente alcuni fatti particolari e staccati relativi alla fama di Dante, a complemento, confessa modestamente egli stesso, di uno scritto in proposito del diacono Plumptre: quantunque a noi italiani non possa riuscir nuovo quanto egli dice del Quadriregio del Frezzi, e che occupa la piú gran parte della conferenza, dobbiamo riconoscere giuste e acute le osservazioni sull'imitazione dantesca nei Trionfi del Petrarca, sulla critica pur dantesca del quattrocento, sull'importanza che il Poeta divino ebbe nel movimento che portò alla nostra resurrezione politica; per lo meno curiose sono le osservazioni sul culto che oggi hanno per Dante i preti e i liberali d'Italia, ma interessanti le notizie sul Quaresimale del quattrocentista Paolo Attavanti e sulla diffusione della fama di Dante in Inghilterra. Buone e interessanti, sempre, bene inteso, per un pubblico che non poteva essere di specialisti, son pure le conferenze del signor T. Hodgkin su Carlo Martello, sesta del volume, e quella, nona e ultima, su Folchetto di Marsiglia del rev. H. I. Chaytor, questa esposizione completa e felice della vita e del carattere del marsigliese, sulla scorta principalmente dello Zingarelli (La personalità storica di Folchetto di Marsiglia nella D. C.), quella, sulla scorta dello Schipa, animato rac

conto delle gesta dell'ultimo degli Hohenstaufen e dei due primi Angioini: troppo poco posto vi occupa, a dir vero, chi dovrebbe esserne l'eroe, Carlo Martello, e meno ancóra vi si dice delle sue particolari relazioni con Dante, come nell'altra conferenza invano si desiderano trattate le varie questioni che hanno attinenza con l'assunzione di Folchetto nel dantesco cielo di Venere; anzi non vi sono né meno accennate. Ottima, sotto ogni rispetto è la penultima conferenza del volume, del conte Plunkett, che si occupa della vita e delle opere di un illustratore di Dante, Bartolomeo Pinelli: vivace l'esposizione della vita dell'avventuroso pittore, preciso e sicuro il giudizio sulle opere, sulle quali poterono dire la loro anche gli uditori, ché la conferenza illustrarono 114 proiezioni di disegni danteschi del Pinelli; ciò che a me non è dato, non conoscendo affatto codesti disegni, oggi tra noi non piú popolari come un tempo: Gustavo Dorè ha soppiantato l'artista romano.

Ho riservato per ultimo le conferenze del signor L. Ricci, quinta del volume (Belle donne nella " D. C. „), e di miss C. M. Phillimore, settima (L'esiglio di Dante), perché dell'una e dell'altra devo ugualmente dir male, e l'una e l'altra potrebbero ugualmente esser documento di quanto di non sincero e artificioso ha il presente rumoroso e troppo mondano culto del Poeta divino.

Del Ricci, del quale ebbi recentemente a lodare nel Giornale una buona traduzione della Vita Nuova e del quale so le benemerenze come fondatore e segretario della Società dantesca di Londra, non vorrei dir male; ma quando penso che egli, come italiano e come zelante cultore fra gli stranieri, tra i quali non mancano profondi conoscitori della letteratura nostra, della nostra massima gloria poetica, deve intendere che diffondere il culto di Dante non vuol dire dar agio alla diffusione di errori e di inesattezze, e né meno vuol dire compiacimento a vanità e capricci della moda, sento che di lui devo piú severamente parlare che di altri.

Quanto il signor Ricci dice di Clemenza, di Gaia, di Ghisolabella, di Sapia senese ci soggerisce soltauto la domanda come gli sia venuto in mente di parlare di donne, delle quali pochissimo sappiamo, talora appena il nome certo che a voler parlare di cosa poco o punto conosciuta, eran naturali e necessarie le divagazioni, le generalizzazioni e le illazioni cervellotiche come questa, che il Poeta, a proposito di Ghisolabella, era conoscitore perfetto della bellezza femminile. Le dolenti note cominciano veramente quando il conferenziere entra a dire di Alagia de' Fieschi: da lei, egli dice, è probabile che Dante, ospite nel suo castello, imparasse la storia della conversione di suo zio; di quale zio? Di Adriano V, sarebbe naturale rispondere; senonché il conferenziere aggiunge: questo zio Dante ricorda nell' VIII del Purgatorio:

Chiamato fui Currado Malaspina;

di qual conversione dunque si tratta? La confusione non potrebbe esser maggiore; e pure c'è di peggio, ché ad Alagia, secondo l'A., si riferiscono le profetiche parole:

Femmina é nata, e non porta ancor benda....,

e il rimprovero di Beatrice:

Non ti dovea gravar le penne in giuso

ad aspettar più colpi, o pargoletta....

Vero è che il conferenziere attenua con un assai probabilmente quest'ultima affermazione, e con un sebben mi

possa sbagliare la prima; ma a siffatto volo della fantasia non possono essere scusa sufficiente, tanto piú che il Ricci sa benissimo che Alagia era genovese, mentre Lucca era la città di Buonagiunta, il quale anche dice chiaro il nome deila femmina, che l'avrebbe fatta piacere a Dante: Gentucca. Di Cunizza il signor Ricci non sa il soggiorno a Firenze nelle case dei Cavalcanti e la famosa liberazione degli schiavi della sua famiglia; ma sa che papa Alessandro III (errore tipografico, diciamo, invece di IV), bandí la crociata contro Ezzelino III, il quale, tradito da due suoi generali nella battaglia di Cassano d'Adda, fu fatto prigioniero e, chiuso in una gabbia di ferro, portato nella piazza del mercato di Padova, dove finí i suoi giorni. Dice ancòra che tutti i commentatori sono imbarazzati a spiegare perché Dante abbia collocato in Paradiso una donna quale Cunizza e suggerisce come sola spiegazione di ciò l'essere ella stata amante di Sordello, e bellissima; cosí, per il signor Ricci, l'austero Poeta subordina i suoi giudizî alla maggiore o minore bellezza di un volto femminile, e alla qualità degli amanti. Giovanna di Montefeltro è solamente buon pretesto a dire della battaglia di Campaldino, riferendo un lungo brano di Dino Compagni, e dello straordinario valor militare del Poeta (quasi quasi alcuni degli autori di queste conferenze me lo trasformano in un Napoleone, o poco meno); di Giovanna Visconti, di Nella e di Piccarda Donati, di Margherita di Provenza, di Costanza d'Aragona, accontentiamoci di dire, salva la domanda che già accennai, che sono piú o meno esattamente ricordate (due errori tipografici: frate Romita per Gomita a pag. 96 e Giovanna per Beatrice nella prima riga dell'ultimo capoverso a pag. 97), e veniamo a Pia, diciam pure de' Tolomei. Scrive il Ricci che la storia di questa donna, vittima innocente di un marito geloso, è raccontata compiutamente (in full) dal Bandello (I, 12) e dal Sestini, che pubblicò la sua novella poetica circa il 1840 (e morí nel 1823!), e trova strano che nessuno dei dotti commentatori di Dante ch'egli conosce, ricordi il poemetto del Sestini, e uno o due solamente la novella del Bandello; per conto suo, a tutte le congetture dei commentatori preferisce la storia di questi due scrittori italiani. E sta bene; ma dei due quale preferisce? Il Bandello dovrebbe, poiché scrive che nell'interpretazione del poema dantesco è ragionevole fondarsi sull'opinione degli scrittori antichi specialmente dei più vicini ai tempi di Dante; invece preferisce il Sestini, per il quale, come si sa, Pia è un fior d'innocenza, vittima di un terribile equivoco, e conclude che tradizione, storia e poesia hanno fatto di Pia l'ideale della donna onesta, fatta morire da un marito geloso. A che riduce dunque l'autorità del Bandello, che nella sua boccaccesca novella racconta come Pia, insoddisfatta del vecchio marito, cercò e trovò compenso nei vigorosi abbracciamenti di un giovanotto senese, Agostino Ghisi (Chigi), e per imprudenza lasciatasi scoprire, fu dal marito fatta strangolare in un castello della Maremma?

Il Ricci, e con lui troppi altri, non pone mente che Pia è in Purgatorio, anzi nell'Antipurgatorio, che quindi per Dante indubbiamente ella era colpevole, e per un periodo più o meno lungo di tempo vissuta nella colpa, la quale non può non essere stata d'adulterio; solamente sul punto della morte domandò "a Dio devotamente perdono dei suoi peccati,, come scrive il Bandello, che doveva sapere il fatto suo, ed è meno lontano dal pensiero di Dante di quanto possa far credere la sfacciata scol

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