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Un significato piú speciale, sebbene affine, ha la parola nella novella CXC del Sacchetti, dove si parla di "uno necessario oscuro, dove “fu messa e rinchiusa molta gente,, e dove "chi si trovò nella malta insino a gola, e chi "insino al mento, e coperchiati dall' assi vi "stettono quasi tutta la notte „.

Né ancóra si viene al significato rimesso in luce dal Novati e dal Cian, senza che il passaggio sia agevolmente segnato dal secondo degli esempî riportati dal Ducange, in cui la parola Molta o malta è presa nel significato di ripostiglio, cripta. In un passo del famoso Ugo da San Vittore, fiorito nel secolo XII e ricordato da Dante fra i teologi del cielo di Marte, si legge: "Et quod remanet "de Molta, qua conditae sunt sanctorum re"liquae, fundit ad basim altaris

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Al concetto generale di prigione fangosa pensava certo il Daniello, per il quale, come notai altrove, la prigione di Cittadella era " oscurissima e piena d'acqua e di fango,, lambita com'era a mezzogiorno dal fosso di cinta stagnante e melmoso.

Né occorre, a mio avviso, ricercare una prigione sotterranea, che non fu trovata negli scavi intrapresi a Cittadella nel 1897: 5 noi non sappiamo a quale limite arrivasse l'acqua del fosso di cinta, e d'altra parte la prigione poteva essere umida e fangosa anche per altre ragioni che non per essere posta sotto al livello del suolo.

Ma contemporaneamente al significato di fango, la parola malta aveva quello, ben piú importante, di prigione umida e fangosa, coAd ogni modo, gli studî recenti sull'etime si rileva dai tre passi di Iacopone da To- mologia della parola e sulle varie Malte stodi, citati dal Cian nel suo prezioso opuscolo riche, hanno certamente contribuito a lumegin favore della Malta bolsenese, nei quali lagiare la maravigliosa evocazione storica di parola non ha, a mio avviso, nessun significato di prigione storica.

1 Glossarium mediae et infimae latinitatis, IV, ad v. 2 Edif. Giust, proc. 45.

3 Napoli, 1778, Canto VI.

4 PULCI, Morgante maggiore, Canto XXVI, ott. 92a;

BERNI, Orlando inn., Canto XLIV, ott. 7a.

5 Par., XII, 133. Il passo riportato dal DUCANGE è tolto dal De Ceremon. eccl., libro I, Canto VIII.

1 La Malta in Spighe e paglie, Corfú, 1844-45, I,

32-33.

2 Opp. citt.

3 Cfr. GNOLI, Le cacce di Leon X in Nuova Ant., vol. XLIII (1893), pag. 44.

▲ Translatio et comentum totius libri Dantis Aldigherii, Prato, 1891, pag. 923, col. 24.

5 Cfr. ZANON, op. cit., pag. 23.

Dante nel Canto IX del Paradiso, le lotte fra i signori e le città venete durante il secolo XIII, e a richiamare alla mente la possente figura di Ezzelino da Romano, che con Cangrande

della Scala fu il maggior campione del ghibelin sul paese ch'Adige e Po riga.

linismo

ATTILIO SIMIONI.

GUIDO CAVALCANTI È VIVÓ O MORTO ?

I.

Dopo il grido angoscioso di Cavalcante (v. 67-69) Dante si sta alcun tempo dubbioso, senza rispondere; per cui quegli ricade supino nella buca. Due dubbî possono esserci nella mente di Dante:

tato dalla maraviglia che egli ignorasse la morte già avvenuta di suo figlio, non sapevo cioè comprendere come voi morti ignoraste il passato, e perciò vi ho domandato, come va che voi sembriate" conoscitori del futuro e ignoranti del presente; voi mi avete risposto, che conoscete il futuro lontano, ma ignorate il 1° Come mai costui ignora, che suo futuro vicino e il presente, e cosí mi avete figlio è ancor vivo? risoluto proprio il dubbio che mi ha trat

2o Come mai costui ignora, che suo figlio tenuto dal rispondere a Cavalcante, cioè la morí? maraviglia per la vostra ignoranza del pas

Nel 1' caso Guido deve considerarsi vivo al tempo del viaggio; nel 2°, morto.

Scartiamo il 1°, accettiamo per un momento il 2°, e vediamo quali conseguenze ne deriveranno.

È evidente che, se la morte è avvenuta, essa entra assolutamente nel dominio del passato. Ora, se questo è il dubbio di Dante esso, tolte le persone dei due Cavalcanti, equivale a quest'altro in relazione alla teorica della conoscenza delle anime: "Come mai i morti ignorano il passato?,

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Ma è questo il dubbio di Dante? No, certo. Egli lo dichiara espressamente ai vv. 97-99: "Sembra che voi veggiate dianzi, prevediate quello che dovrà accadere, il futuro, ma non conosciate il presente I limiti del suo dubbio egli li circoscrive rigorosamente: previggenza del futuro, ignoranza del presente; del passato non parla. La risposta di Farinata è contenuta entro questi limiti precisi: Noi vediamo il futuro, quando è lontano; ma quando questo futuro si appressa, comincia ad esser molto vicino e sino al punto in cui si confonde col presente, è, accade in atto, allora non vediamo piú,. Del passato non parla. E Dante soggiunge: "Io poco fa non ho risposto súbito a Cavalcante, perché pensava già nell'error che m'avete soluto.. Riassumendo, il pensiero integrale di Dante in tutto il passo sarebbe questo: "Io non ho risposto súbito a Cavalcante, perché ero agi

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Non ho bisogno di rilevare l'assurdo di un ragionamento simile, che pure è l'unica, inevitabile, inoppugnabile conseguenza, che deriva da quel 2o dubbio, se esso si ammette. È questa una conseguenza indipendente da qualsiasi altra considerazione, e perciò anche da ogni preconcetto. Qui Dante vuole sta bilire la sua dottrina sulla presbiopia delle anime: egli domanda solo del futuro e del presente; Farinata risponde solo del futuro e del presente; questa teorica, che si riferisce solo al futuro e al presente, partirebbe da un dubbio riguardante la ignoranza del passato, mentre Dante espressamente dichiara in fine, che proprio al futuro e al presente egli già aveva pensato, e non fa alcun cenno del passato? Mi è stato obiettato, che invece di dire "morí, nella formula del 2o dubbio, possiamo dire "non è più vivo,, e la morte, anche avvenuta, potrebbe cosí esser considerata come un fatto presente. Ma io ho risposto, che qui si tratta non di parole ma di sostanza, e "non è più vivo, è sempre equivalente non al presente "vive,, ma al passato "morí,, e l'avvenimento della morte cade sempre nel passato, del qual tempo non si accenna affatto nella teorica qui stabilita sulla conoscenza delle anime. Ché se poi il fatto dell'esser morto vogliamo considerarlo come presente, in quanto l'espressione "morí, possiamo considerarla equivalente all'altra pre

sente "non è piú vivo, allora nulla ci vieta di considerarla di tempo futuro, come equivalente all'altra "non sarà più vivo, ; se ciò che fini di essere si considera come presente in quanto non è piú, si deve considerar pure come futuro in quanto non sarà piú, e il passato avrebbe contemporaneamente valore di presente e di futuro. Noi cadiamo cosi nel massimo assurdo.

Dunque, secondo me, Dante non può pensare al 2° dubbio, ma al 1°, e nel Canto X dell' Inferno egli considera Guido ancor vivo, come espressamente dichiara.

II.

Cavalcante nei vv. 58-60 chiede a Dante:

Se per questo cieco

Carcere vai per altezza d'ingegno, Mio figlio ov'è, e perché non è teco?

Dante nei vv. 61-63 risponde:

Da me stesso non vegno: Colui, che attende là, per qui mi mena Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno.

Io fo qui un esempio pratico:

"Sono stato amico inseparabile di Tizio; Filano, che da qualche tempo non ci ha più veduti, ma conosce la nostra inseparabilità, m'incontra in compagnia di un altro, Sempronio, in fondo al pozzo di una miniera, e mi chiede: O, come va che tu, il quale non ti distaccavi mai da Tizio, sei quaggiú senza di lui,? Io gli rispondo: “Da me stesso non vengo; mi trovo qui, solo perché mi è di guida quel Sempronio lí, cui Tizio "disdegnò di prender per guida,. Che cosa capirà, anzi dovrà necessariamente capir Filano? Che Tizio è morto? No, certamente! la mia risposta può solo indicare e far capire, che Tizio è vivo. Se Tizio fosse morto, essa sarebbe strana, ridicola anzi. Infatti, a che parlar del disdegno di lui per la mia guida Sempronio, se Tizio fosse morto? In tal caso direi: "Tizio non è con me, perché è morto „. Ché se poi non volessi accennarne la morte, direi: “È da molto tempo che non lo vedo, non ne so insomma, darei una risposta qual

nulla · · · · n › siasi, che non dicesse niente; ma quello sciocco pretesto del disdegno di Tizio morto per Sempronio mia guida, non lo addurrei dav

vero.

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Orasi licet parva componere magnis per dirla con Ovidio, applichiamo l'esempio pratico all'episodio dantesco; tanto la natura logica delle risposte è la stessa. Cavalcante ha chiesto a Dante, perché Guido non sia con lui; Dante risponde: "Non è con me, perché ebbe a disdegno Virgilio, che mi guida in questo viaggio,. Sicché evidentemente, se non ci fosse stato di mezzo quel disdegno, egli ammette, che Guido avrebbe potuto tro

varsi con loro ed esser terzo tra cotanto senno. Ma ciò era possibile solo con Guido vivo; se Guido fosse morto, quel viaggio non avrebbe potuto farlo, né gli sarebbe stato utile; perché esso è un viaggio di salvazione per Dante vivo, ma per Guido morto non sarebbe stato piú possibile né utile. Sicché, accennare al disdegno di Guido già morto per Virgilio, in relazione a quel viaggio (“se per questo cieco carcere vai, dice Cavalcante), sarebbe stata una sciocchezza.

Inoltre, la maraviglia di Cavalcante, come quella di Farinata e di tutte le anime dei tre regni, è che Dante faccia quel viaggio ancor vivo. "O Tosco, comincia Farinata, che per la città del foco vivo ten vai. Cavalcante, dal dialogo tra i due, riconosce Dante, l'amico inseparabile di suo figlio Guido; si maraviglia anch'egli di veder i Dante vivo, pensa che, se questo privilegio gli era accordato per altezza d'ingegno, suo figlio Guido lo meritava ugualmente: anche Guido, se vivo, avrebbe dovuto far quel viaggio con Dante; la singolarità di questo stava nel far quel viaggio ancor vivo; parlar d'altezza d'ingegno in Guido, se fosse morto, sarebbe stato inutile; quindi la risposta di Dante è piena, chiara, esplicita: "Io, ancor vivo, fo questo viaggio non solo per altezza d'ingegno ché in questo caso ci verrebbe anche il vostro Guido, ma perché mi è guida Virgilio, cui il vostro Guido non volle accettar come guida; perché in tempo pensai a liberarmi dalla selva selvaggia, in cui Guido è rimasto. Io me ne son liberato, perché son ricorso all'aiuto di Virgilio (Inf., I vv. 64-66), a cui il vostro Guido non ha voluto ricorrere,. Questo dichiara Dante con la sua risposta, che sarebbe un enigma, se brevemente avesse potuto e dovuto rispondere: "Non è con me, perché è morto,. Che ragione c'era, se Guido era morto, di parlar d'un disdegno di Guido per Virgilio, che Guido, se morto, non avreb

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Ma altre osservazioni si desumono dalle parole di Dante, per esempio da quell' "ebbe a disdegno, tanto discusso. Quell'ebbe non deve prendersi a solo, ma va collegato intimamente colle parole "a disdegno, e coll' intiero concetto " cui Guido vostro ebbe a disdegno„. L'equivoco di Cavalcante stette in questo, nell'averlo notato a solo, nell'averlo rilevato al di fuori e indipendentemente della frase intera. L'equivoco è voluto da Dante per spiegarci, mettendola in gran rilievo, la sua dottrina sulla conoscenza delle anime riguardante il presente e il futuro - non il passato, in cui cadrebbe la morte di Guido, se fosse avvenuta; ma voler noi persistere nell'equivoco, fondare in modo assoluto ed esclusivo la nostra interpretazione su di esso, come se Dante ci fosse caduto accidentalmente, dire che quell'ebbe solo il senso datogli da Cavalcante può avere, quando Dante manifestamente ci dice erroneo quel senso, è un voler sovrapporre dubbie ipotesi nostre alle esplicite dichiarazioni di Dante.

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Egli non doveva giustificar l'ebbe, che per lui non aveva il significato datogli da Cavalcante. Delle parole di questo a Dante resta impressa la frase posteriore e piú chiara: "Non viv'egli ancóra, ?, incalzata da una particolare determinazione di vita: "non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?», e a questa risponde richiamandola per intero, e togliendo solo la particella negativa: È coi vivi an"cor congiunto," viv'egli ancóra „. Quel1'" ancóra, ripetuto, insiste nell'idea di presente. Egli doveva giustificar non l'ebbe, ma

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1 Che è un motivo popolare, il påos feλloto dei morti, da Omero in poi (Odiss. XI, 93),

il silenzio, "la dimora fatta dinanzi alla risposta,, e lo fa coi vv. 112-114:

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E s'io fui dianzi alla risposta muto,

fat'ei saper che 'l fei, perché pensava già nell'error che m'avete soluto.

Doveva dunque rispondere alla domanda: È ancor vivo,?, e risponde di sí; doveva giustificare il silenzio, e lo fa. Quale importanza poteva dopo questo aver per lui quell'ebbe?

Quanto al tempo, al quale bisogna riferire I'" ebbe a disdegno,, non sono d'accordo col De Sanctis e col D'Ovidio, i quali lo riferiscono al tempo degli studi giovanili di Dante e di Guido. Io lo riferisco al tempo, in cui Dante incomincia il suo viaggio. Dante, Firenze, l'Italia, l'umanità, e cosí anche Guido, sono sconvolti dalle passioni, errano per via diversa nella selva oscura, in cui Dante infine si trova, senza saper come, assonnato, solo, disperso. In un momento di risveglio affannoso volge i suoi passi al colle illuminato dal sole; ricacciato dalle tre fiere ruina in basso loco.

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Allora gli si presenta allo sguardo Virgilio, e súbito egli implora il soccorso di lui, qual ch'egli sia, poiché da sé non trova piú via di scampo: "Miserere di me, gli grida. Virgilio gli si offre per guida; Dante l'accetta. Questo è il momento, a cui bisogna riferire quell'" ebbe a disdegno, il momento in cui Dante, per liberarsi dagli errori della selva e dall'opposizione delle fiere, implora e accetta il soccorso di Virgilio. Come Dante, come Firenze, come l'Italia, come l'umanità, Guido era perduto nella selva, "volgendo i passi suoi per via non vera trascinato e ributtato in basso loco dalle cieche passioni morali e politiche; ma egli era rimasto chiuso in se stesso, non aveva cercato fuori di sé la salvezza, onde Virgilio solo a Dante si presenta, e da lui richiesto gli si offre come guida in quel viaggio di salute, “per lui campare„ Purg. I, 62). Dante gridò: "Miserere di me, Inf. I, 65) a Virgilio, perché in lui ebbe fede; Guido no, perché lo ebbe a disdegno; e restò nelle passioni morali politiche, che di lí a poco lo trassero all'esilio e alla tomba.

Un passo della Vita Nuova, che si riferisce precisamente a Guido Cavalcanti, conferma la mia opinione. Nel cap. 31 (ed. D'Ancona, 1884), infine, Dante si scusa di non continuare a scrivere un brano latino con que

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Ora, evidentemente qui Guido Cavalcanti è considerato da Dante, ed è realmente, ancor vivo, quando egli scrive queste parole della Vita Nuova, e l'ebbe si riferisce al momento, in cui Dante cominciò a scrivere in volgare la sua operetta per consiglio di lui. Non si può dire dunque, che quell'ebbe debba necessariamente indicare la morte già avvenuta di Guido. Nell'angoscia di Cavalcante del padre - perché suo figlio non sia compagno in quel viaggio a Dante, se l'altezza d'ingegno gli dava tal privilegio, c'è l'angoscia di Dante dell'amico, - a cui piange il cuore, perché Guido ingegno pari al suo sia prossimo a perdersi miseramente, per aver disdegnato Virgilio, sua guida nel viaggio; e dopo la spiegazione di Farinata, quell'ignoranza del padre gli rivela la morte

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imminente dell'amico. Dobbiamo anche ricordare, che poco innanzi alla sua morte (di poco posteriore al tempo del viaggio) Guido si era sommamente agitato nelle lotte politiche,

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né certo Dante si sarà astenuto dal richiamarlo sulla retta via; forse in allora Guido gemeva tuttavia infermo, nell'esilio fatale; in séguito, quando Dante scriveva quel Canto - morto già l'amico l'animo di lui doveva dolorosamente ricordare e i suoi vani consigli e l'amaro esilio subito da Guido, e la malattia derivatane, e la vanità del ritorno, e la morte ben tosto seguitane, senza che Guido si fosse liberato dai suoi errori. Questi aveva disdegnato soccorsi esteriori, mentre Dante, fuori di sé, aveva cercato aiuto e l'aveva trovato in Virgilio: onde il tono dimesso e triste della risposta di lui con cui esprime il rammarico che l'amico abbia perseverato nella colpa di quel disdegno, e la cura colla quale cerca di attenuar tale colpa per mezzo di quel forse.

Questa parola esclude anch'essa l'opinione da me combattuta. Se Guido fosse morto, nessun dubbio era piú possibile, il forse non aveva più ragion d'essere: Guido era morto

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in Firenze, e Dante avrebbe dovuto saper bene con quali sentimenti fosse morto.

Ma con Guido vivo il forse si spiega benissimo: indica la speranza di Dante nel momento del colloquio, quella che egli aveva dovuto nutrire nel corrispondente tempo della vita reale di Guido, cioè del ravvedimento di lui: "Quand' io l'ho lasciato nel dolce mondo, pareva che egli avesse a disdegno Virgilio; chi sa, che ora non sia mutato? Allora lo ebbe a disdegno; ora chi sa, se lo abbia ancóra a disdegno?

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Quell'ancor aggiunto poi alla risposta a Farinata (v. 111) è intenzionale; Dante lo dice dopo la spiegazione dell'Uberti, ma era presente nell'animo suo, quando con quel forse attenuava la colpa dell'amico e manifestava la propria speranza. "Egli è coi vivi ancor congiunto dice con amara perifrasi Dante, sta tra i vivi, vive della vita materiale, del viver ch'è un correr alla morte (Purg. XXXIII, 54), ma non della vita vera, che si gode nella fede in Dio. Ma forse Dio lo illuminerà, ed egli potrà ancora come me accoglier l'aiuto di Virgilio,

Questa speranza, piú tardi, scrivendo quei versi dopo la morte dell'amico, Dante sapeva irremissibilmente perduta; ma egli volle consacrarla insieme col suo rammarico e in que

sto l'esame psicologico potrebbe darci un'attestazione quasi sicura degli amorevoli consigli di Dante a Guido, volle consacrarla con quel poetico forse, che qui è pieno di affetto.'

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