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CHIOSE ANTICHE AL « PURGATORIO »

Sulle Chiose di Dante, messe in luce da F. P. Luiso per la sola seconda Cantica, finora (Firenze, Carnesecchi, 1904) e sulle comunicazioni o notizie dall'editore già dateci (vedi Archivio stor. ital., 1a disp. del 1903 e 1904), aspettando quel "proemio al volume primo (Chiose all' “Inferno „), che è in corso di stampa, dal principio del corr. 1904, sulla parte già pubblicata, adunque, hanno fin oggi fermato l'attenzione per quel ch'io SO Ireneo Sanesi (in Rassegna bibliogr. d. letter. ital., XI, 213-17), Francesco Torraca (in Rassegna crit. d. letter. ital., IX, 44-57) e Michele Barbi (in Bull. d. Società dant. ital., N. S., XI, 194-229).

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La questione principale è cosí presentata: "le Chiose all' "Inferno,, finora credute opera originale di Iacopo Alighieri, son traduzione o, a meglio dire, barbara deturpazione di un originale latino, ; qui, secondo il Sanesi, i ragionamenti del critico non riescono troppo persuasivi: "la dipendenza delle chiose volgari da un commento latino apparisce quale una verità intuíta piuttosto che dimostrata Ma, pur 66 quando saremo certi osserva il Torraca che queste Chiose al "Purgatorio, furono scritte da Iacopo Alighieri, dal figliuolo di Dante, co le sue mani;1 quando sarà dimostrato che Iacopo scrisse in latino anche il commento dell'Inferno, qual vantaggio ne verrà alla più esatta conoscenza, alla migliore intelligenza del poema? Molto, ma molto scarso. Si poteva forse supporre e sperare che avrebbero avuto pregio inestimabile le dichiarazioni dottrinali e storiche dei luoghi più difficili o men chiari, udite dalle labbra stesse di Dante, e scrupolosamente, reverentemente raccolte dal

"

1 A proposito del titolo (Chiose di Dante le quali fece el figliuolo co le sue mani), il Barbi scrive: Che "le Chiose appartengano a un figliuolo di Dante risul"terebbe da una nota (non titolo) mal decifrabile, di "carattere affatto differente da quello del codice, seb"bene di tempo non molto diverso, la quale si trova in "XC s. 114 [cod. Laur.], nell'estremo margine superiore "della c. 1a. Ma che valore ha mai questa testimo"❝nianza?".

figliuolo ad ammaestramento dei posteri; si poteva ancor credere prima che il L. pubblicasse le Chiose. Ora non piú; pur troppo, la speranza s'è dileguata, l'illusione è svanita. Il figlio di Dante non ci dice quello che più desidereremmo sapere, ben poco ci dice che metta conto sapere, e, di questo pochissimo, niente o quasi niente che già non sapessimo. Troppo tardi viene a noi.... Troppo piú spesso che non si supporrebbe il figliuolo di Dante non coglie nemmeno il senso letterale delle parole di Dante!,. Sennonché il Barbi, per via di acuti raffronti, riesce ad affermare: Certo è che le Chiose volgari attribuite a Iacopo di Dante non sono traduzione di XC s. 114 [cod. Laur. che offre le Chiose lat. or pubblicate], né di altro codice

lui affine. C'è nell'uno e nell'altro testo qualche tratto simile, ma è cosa accidentale e non fondamentale, che sarà da spiegarsi coll'ammettere uno di quegli imprestiti che sono tanto comuni fra gli antichi interpreti di Dan

te n'

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A proposito di quest' imprestiti, il parlare di furti e plagi è adunque un anacronismo che toglie ogni valore alla fiera denunzia „: secondo l'editore delle Chiose, Iacopo della Lana non sarebbe infatti che un volgare “plagiario „; il quale però come mostra il Torraca "corregge sviste, omissioni, inesattezze, errori delle Chiose, stesse. Queste, inoltre, che dovrebber essere la fonte di tutti i commenti finora tenuti più antichi, sono talor trascurate dai plagiari proprio là dov'offrono le interpretazioni più chiare e piú ovvie del testo dantesco; né si comprende quindi come il Bambaglioli, poniamo, o il Lana, ladri assai spesso matricolati, siano apparsi poi malaccorti proprio là, dove, fra le varie spiegazioni, s'avvertiva espressamente qual era la migliore.

Ma altrove o ad altri il risolvere a chi spetti l'onore della precedenza, fra cotesti antichi interpreti: io offrirò qui alcun documento delle varietà che presenta il cod. miscell. Canonici ital. 449, della Bodleiana di

Oxford, in confronto con la parte del commento stesso che nel cod. Grumelli della Biblioteca di Bergamo fu commista alla traduzione del lanèo. Pongo entro parentesi quadra le aggiunte del bergamasco (Gru.) ed in corsivo, qui nella prima chiosa, quanto manca, qual che ne sia la cagione, alla recente stampa.

(Ox.) Poi disse sub ridendo io sum Manfredi etc. Iste fuit Rex Manfredus filius naturalis Fedrici secundi Imperatoris virtuosus et curialissimus valde qui [Gru. quem dictus pater suus fecit regem Scicillie. Hic autem] conflictus et mortuus extitit in bello campestri a Karolo [fratre regis Francie] tunc comite Provincie. Ex quo coronatus fuit per Clementem papam 4or regno Scicillie. Hic Manfredus habuit filiam nomine Constantiam uxorem [don] Petri regis Aragonis patris [don] Fedrici regis Scicillie et donni [Gru, don] Jacobi regis a Ragonis. Hic que dictus Manfredus naravit de morte sua addens quod si pastor Consciencie idest cardinalis legatus ille qui contra eum missus fuit a papa scivisset et consciderasset hanc faciem libri. idest quomodo deus [Gru. hoc est quod deus eum] receperat eum ad gratiam quam nulli pulsanti [Gru. petenti] claudit non transmutasset ossa sua [Gru. ipsius Manfredij] extra regnum. Dicitur enim quod [mortuo dicto rege et sepulto in sepulcro suorum antecessorum in Benevento] quia ille legatus iuraverat se regem Manfredum expulsurum et fugaturum de regno. mortuo ipso in dicto bello fecit de nocte accipi ossa sua que sepulta fuerant sub ponte Beneventi ubi fuerat prelium et ea asportari extra regnum et prohici ad Agra sive ad glaream. Mentre che la speranza ha fior del verde etc. idest iusta fines et est hoc vocabulum Viride sumptum vulgariter a cera viridi que consuevit apponi candelis in fine. Unde quando candela est tota quasi combusta dicitur le al verde idest ad finem. Per lor maledition....

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Il resto, sino alla fine del Canto, è, con lievi differenze, eguale alla stampa. Anche ne' nostri due codici (Ox. e Gru.), adunque, il cardinalis legatus mentre nessuno dei due pastori di Cosenza, che si contendono il triste vanto di aver violato la fossa di Manfredi, nota il Torraca fu cardi nale; ed è curioso che "sub ponte Beneventi, (la stampa: Beneventani!), il chiosatore del Gru. credesse le tombe del secondo e terzo "vento di Suave,. Singolare è pur ne' due codici nostri la seguente chiosa:

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Io cominçai el par che tu mi neghi etc. Vult hic dicere quod videntur prodesse preces viventium eis qui sunt in purgatorio puniendi secundum rogamina Umbrarum supradictarum. Cumque Virgilius scripsit in Eneida contrarium dicens. desine facta deum. pro deo

1 Che il commento al Purgatorio in questo codice s'attenga strettamente alle Chiose or pubblicate, l'editore poteva rilevar chiaro dal luogo dell'Auvray che io citai nella Miscellanea in onore di A. Graf.

rum. flecti sperare precando. Interogat Dante ab ipso Virgilio quod sibi detegat huius modi dubium. Ad que respondit Virgilius dicens quod vera scripsit in Eneida, quodque verum est precamina viventium prodesse existentibus in purgatorio. Nam tempore quo Virgilius ita scripsit nundum aderat purgatorium sed Infernus tantum modo atque limbus. Unde tunc non porrigebantur preces nisi solomodo pro dampnatis in Inferno quibus non prosunt elemosine neque preces. Preterea non est contra decretum a deo si quis uno puncto facit quod tenetur facere in decem annis. Verbi gratia quidam detemptus in carceribus iudicatur solvere singulis mensibus decem libris. Et tanto tempore ibi stare quod solvat mille libras [Gru. quousque solverit mille libris]. Modo die una solvit integre mille libras [libris]. et sic die una videtur liberatus. Sicque a simili videtur quod preces elemoxine et allia bona que fiunt per viventes in remedium et pro salute animarum existentium in purgatorio accellerent procurentque ipsarum animarum gloriam et salutem. Non autem existentium in Inferno, quoniam eis non prosunt oraciones nec ellemoxine sive misse. Et de talibus intellexit Virgilius cum dixit desine...

Come si vede, soltanto il principio e la fine è qui simile allo stampato; e si notino le differenze sostanziali da questo nelle due chiose seguenti, de' Canti XIII e XIX, pure insieme offerte da' due testi nostri.

(Ox.) Ma piu vi meterano gli admiragli etc. Vult dicere quod admiralgli, scilicet illi qui mirantur in inveniendo dictum fluvium. Videlicet qui se admiralgios fluminis dyane faciunt. maiorem spem imponent in recuperando ipsum fluvium. Suple. quam sit circha castrum Thalamonis. vel admiragli lignorum maris in Talamone. quare periculosum et malum importat.

(Gru.) Sed maiorem spem pluries habuerunt Amiragli. idest officiales qui mirantur in inveniendo dictum flumen dyane. Et cum non invenerunt spe sua totaliter sunt frustrati. Vult dicere quod erit magis vana spes senensium circa castrum Thalamonis quam sit circa Dyanam.

(Ox. e Gru.)... la gran dote provenzale etc. Vult dicere quod ante quam sui descendentes acciperent in matrimonium quandam comitissam de Provincia ex qua habuerunt comitatum Provincie in dotem parve potentie erant. Hic autem qui dictam dominam accepit in uxorem fuit Karolus primus rex Scicillie. Karlo vene in Ytallia etc. Auctor enim contra ipsum Karolum aspere dicit reprehendens ipsum de danpnatione Conradini capti in bello quem fecit decapitari una cum multis baronibus ultramontanis et Ytalicis. quod quidem fuit maxima crudelitas. Thomasio per amenda etc. Iterum fecit idem Karolus venenari Thomasium de Aquino. Virum beate vite et fulgentem virtutibus ac scripturis splendidum qui hodie ascriptus est catalogo sanctorum.

Invece di richiamar l'attenzione su quest'ultima frase (nella Notizia intorno al commento del cod. Grumelli già da me rilevata), affrettiamoci alla fine delle Chiose, serbando a tempo e luogo meglio opportuno tutt'il

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"Un cinquecento cinque e diece, per cinquecentum intelige hanc literam D, que apud merca" tores denotat cinquecentum; per quinque intelige hanc "literam V, que denotat quinque; per decem intelige "hanc literam X; et sic habes DVX. Et istum ducem predicit venturum, ut dictum est; quis autem debeat esse iste dux, non dicit; set sicut venturum predicit,. (Ox.) Chio vegio etc. Nel qual un cinquecento dece e cinque etc. Hec verba loquitur Bea

"

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chiose a stampa principiano in generale con un Autor dicit, o dicere vult, o intelligit, o intendit, o loquitur, ecc., e quell'autor si può generalmente riferire a Dante; ma fin dal principio del Canto VII troviamo questa frase: dicit autor, quod videns Sordellus quod Dante non erat mortuus. e nel X: Dicit autor quod hic Virgilius loquitur Danti et ortatur..., e nel XI: dicit autor, quod Dante facit unam questionem Odorisio..., e, per saltare all'ultimo Canto: Dicit autor quod hec verba

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trix. videlicet quod videt ex ineffabili [Gru, infalibili] loquebatur Beatrice Danti dicens, quod, ecc.

cursu stellarum quendam ducem nuncium Dei venturum. qui fulminabit et occidet siluam (legg.: beluam) idest Ecclesiam. scilicet pastores Ecclesie et Gigantes qui cum ea fornicantur symonizando, idest reges. Cum enim dicit un Cinquecento. Intelige hanc literam D. Cum dicit decem. intellige hanc literam X. et cum dicit cinque. intellige hanc literam V. Ita quod hijs literis tribus simul iunctis conficitur [Gru. constituitur] dux quem dicit esse venturum, tamen qui esse debeat hic non ponitur.

(Gru., nel proemio al XXXIII)... Et subicit auctor quod exequtor dicte vindicte Dei que fiet contra malos pa. stores ecclesie erit unus dux, quod quidem tangit multum occulte ut patet in textu dicens Un cinque cento. Cinque e dece. Per quingentos accepit literam. d. que representat talem numerum. Per quinque accipit literram .v. que representat quinque. Per decem accipit literam .x. que representat decem. Et sic habes .d. V. x. que litere insimul aggregate consistunt (sic) hanc dictionem. dux. Qui quidem dux persequetur malos pastores ecclesie. Autor tamen non aperit qui sit iste dux. SED AUDIVI AB ALIQUIBUS RELIGIOSIS QUOD IPSE ERAT DE DUCIBUS BAYOARIE. Et licet dicat dux. per ea que secuntur videtur quod erit imperator ut inuit ibi, Non sera tuto tempo senza, Et expellet istos malos pastores de ecclesia reducendo ipsam ecclesiam ad statum prestinum et in liberum arbitrium. Et hoc dicit auctor se vidisse per constellationem.1

Quant'è qui in carattere spazieggiato, — io lo credo un ricordo personale di Alberico da Rosciate, e ne pensi altri ciò che vuole - avvalora l'interpretazione del torturato verso offerta dal Davidshon e accolta dal Barbi (Bull. d. Società dant., N. S., vol. XI, 44); anche per questo riguardo, la chiosa mi pare importante. Non chiuderò senza un'osservazione. Le

1 Il Lana, secondo l'ediz. bolognese (1866) dello Scarabelli, in questo luogo del proemio: Or che pone "lo esecutore della pena della predetta colpa sarà uno "duca, lo quale perseguirà li mali pastori della Chiesa, "e li avolteratori di essa, e raddurralli a tale disposi"zione che di loro non si troverà; si che la Chiesa elli "drizzerà nel suo verace stato e costituiralla nel pro"prio arbitrio. E soggiunge che 'l vede tale esecutore "per costellazione Noto che nella chiosa relativa, dove lo Scar. legge sètte, il Gru. ha sceptra (" et possunt "mutare sceptra et facere alia magnalia in mondo „).

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e in siffatto modo principiano moltissime altre chiose. Chi è mai cotest'autor espressamente distinto dal Poeta? Si direbbe d'aver qui l'opera di un compilatore o di un compendiatore che si studiasse di trarre il succo d'un ampio esemplare tenuto dinanzi agli occhi; oppure il latino di un traduttore che volesse alludere all'interprete o estensore del commento volgare sul quale lavorava. Mentre ci saremmo potuti attendere talora un qualche accenno - com'è nelle Chiose volgari e nel Dottrinale alla consanguineità dell'interprete col Poeta, fra questi due sorge qui un importuno autor che di tanto li allontana: vero è che nel codice di Oxford e, per quanto ne so, nei parigini, quell'autor non ricorre quasi mai, anzi nel modo strano onde ricorre talora presso la stampa. Se in questa, adunque, si legge: "Et io a lui: Foresse da quel dí". Dicit autor quod Dante querit Foresem dicens, ecc., nelle chiose nostre invece : Querit Dante ab isto Foresse dicens - che deve dare la forma originale della chiosa presente e di tutte le altre consimili, la cui mossa nel testo a stampa, per un vezzo d'ampollosità quivi generale, dà stereotipato il dicit autor pur dove segue spesso un quod Dante vult dicere o alcunché di simile (cfr. XIV, XVI, XIX, XXIII, XXVII, ecc.).

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CHIOSE DANTESCHE

Era già l'ora....

Una finezza dantesca.

quand' io incominciai a render vano
l'udire e a riguardar una dell'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
(Purg., Canto VIII).

Giacché vedo riprodotta la vecchissima e falsa interpretazione di questi versi nel Commento del Casini, meritamente avuto per uno dei migliori fra quelli usciti negli ultimi anni e assai divulgato nelle scuole, voglio richiamarli al loro vero e naturale significato.

L'interpretazione falsa è questa: quand' io incominciai a non udir più alcuna voce, né quella di Sordello che aveva cessato di parlare, né quella delle anime che avevano finito il canto della Salve Regina, e invece incominciai a guardare una delle anime che accennava alle altre di ascoltare.'

L'interpretazione vera è invece questa: quand' io incominciai a non udir piú voce alcuna, tutto attento al vedere. E ben dichiara lo Scartazzini, di cui sono queste parole, dicendo: Il Poeta non vuol dire: Incominciai ad avvedermi che s'era fatto alto silenzio, ché quando non si ode nulla non è necessario render vano l'udire.

Il passo è parallelo all'altro del Canto IX dell'Inferno:

Ed altro disse, ma non l'ho a mente;
però che l'occhio m'avea tutto tratto
vèr l'alta torrre alla cima rovente. 3

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Quando per dilettanze ovver per doglie
che alcuna virtú nostra comprenda,
l'anima bene ad essa si raccoglie,
par che a nulla potenzia piú intenda.

Ecco dunque nei suoi momenti successivi la scena, quale Dante con ogni nitidezza ha voluto suscitare nella nostra immaginazione: Sordello indica le anime dei Principi; Virgilio e Dante prestano attenzione vivissima, finché le anime restano tranquille a sedere in su l'erba e in su i fiori. All'improvviso una di loro sorge in piedi, e coi cenni richiama l'attenzione delle compagne, l'ascoltar chiedea con mano. Sordello segue a parlare; ma Dante, fin dal principio della nuova scena, smarrisce la percezione chiara delle parole di Sordello; esse giungono al suo orecchio, non alla sua anima.

È

proprio egli Dante che rende vano il suo udire riguardo a ciò che forse segue a dirgli Sordello, essendo egli che si fa attrarre gradatamente dalla scena dell'ombra sorta in piedi e invitante le sue compagne a cantar l'Inno Te lucis.

Si fa attrarre gradatamente; quindi gradatamente si fa rapir l'attenzione da ogni altra cosa.

Notare: Sordello aveva cessato di parlare, è mettere noi nel passo dantesco quel che non c'è. E, purtroppo, in causa della inframmettenza nostra si guasta una finezza dantesca. Dante non dice che Sordello cessò di parlare; e non lo dice perché non poteva dirlo. Egli non sa quando Sordello cessasse di parlare: questo solo ricorda, che a un certo momento le parole del Trovatore cominciarono a svanire per lui. Questo ricorda (....immagina di ricordare, ma l'immaginazione è frutto d'una delicatissima analisi psicologica di ciò che avviene in realtà), e questo fissa con l'arte, che in simili delicatezze, apparentemente minime, si dimostra grandissima. Per noi è un dovere non sciuparla.

Roma, 1904.

A. GHIGNONI.

COMUNICAZIONI ED APPUNTI

Per la montagna del "Purgatorio

Ill. sig. conte G. L. Passerini, Nel Giornale dantesco (XII, 118-125) leggo l'articolo di Filippo Arci: "A proposito della montagna del Purgatorio, e rivolgo la presente all'imparzialità della S. V., affinché sia resa di pubblica ragione, avendo, credo, anch'io acquisito un certo diritto di prendere la parola in simile argomento. Il sig. Arci è d'accordo con me in molte cose, tanto che con mie ragioni impugna i disegni del Piranesi e dell'Agnelli, ma poi, nel tirare le con seguenze dalle premesse, riesce oscuro, indeterminato o inconseguente. Ecco perché prendo la parola: per rivendicare a me le argomentazioni che egli non si degna di attribuirmi, e per correggere qualche inesattezza e contraddizione.

Voglio sperare ch' Ella non mi dia sulla voce come impenitente studioso della topografia dantesca, ma anche questa volta me la lasci passare; ne chiedo scusa e Le rendo grazie.

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che le

perpendicolari e che le scale non seguono il medesimo pendío delle ripe. Osserva giustamente non prima da altri notato calle dell'Antipurgatorio (dovrebbe dire la calla, perché una sola) e le scale sono scavate nella roccia, e salendo per esse i Poeti sono chiusi fra due pareti. Di questa particolare costruzione abbiamo non dubbi e frequenti cenni nel testo, onde si può ben concludere coll'Arci che "dall'ertezza della roccia e delle ripe si riconosce la necessità di vie o di scale che, scavate con piú lieve pendio, rendano il monte accessibile a persona viva,. Dimostrata erronea l'interpetrazione del verso del Purg., X, 30, dalla quale il Piranesi aveva preso le mosse nel suo opuscolo, nessuna prova rimane, né materiale né morale, a sostegno della sua ipotesi, mentre diverse ragioni si oppongono ad essa. "L'alta ripa che cade ben ratta dal 2o girone era inaccessibile al punto che, senza

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In Purg., XXII, 137 si legge che sulle foglie degli alberi del 6o girone

cadea dall'alta roccia un liquor chiaro,

e l'Arci domanda: "Sa spiegare il Piranesi come farebbe a cadere.... quando il punto alto della roccia, per l'inclinazione della ripa, si trovasse a chi sa quante decine di metri piú indietro dell'albero, il cui asse dev'essere perpendicolare al piano?„. Piú oltre aggiunge: "confesso di non sapermi spiegare neanche la posizione degli Invidiosi se l'un soffería l'altro con la spalla, mentre poi, perché tutti dalla ripa eran sofferti, si sarebbero dovuti trovare sdraiati sopra un letto di 40 gradi di pendenza

L

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Tutte queste ragioni si leggono in un mio opuscolo del 1895 (Per un nuovo disegno del Purgatorio, dantesco, pag. 13-14): “Di qua (1o girone) il monte si solleva quasi a perpendicolo, contro l'opinione del Vellutello e

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