se fossi colaggiú vôto rimaso; e nota che l'angelica natura, poi che a te piace di saper piú a dentro, da quella parte rovinoe nel centro (XXV, 239). Quante reminiscenze dantesche in questa ottava, da quel sommo Giove (Purg., VI, 118), al penultimo verso della stanza (Inf., II, 85), e al ricordo della caduta di Lucifero, che con troppi altri passi ben prova come a ragione dica il Volpi, che il mondo dei morti, a cui si accenna qua e là, è nel Morgante quasi sempre immaginato alla maniera dantesca „ 1. E se Astarotte non è personaggio dantesco, dall'inferno di Dante sono usciti e Farfarello, che gli è compagno nel viaggio coi paladini, e anzi porta in groppa Ricciardetto, e Rubicante, chiamato a Toledo da un negromante per aver notizie di Marsilio. 2 Né qui soltanto il Pulci contraddice o, meglio, si oppone a Dante: conversando con Malagigi Astarotte afferma con calore di convincimento che nessuno, tranne Dio padre, può saper nulla del futuro, né di quanto accade in cielo, e però non può dir ciò che accadrà di Carlo Magno (XXV, 137), e rimprovera la presunzione de' mortali, che vuol Saper le gerarchie come elle stanno. e non sapea quel che quaggiú detto hanno a voler giudicare il ciel di terra (XXV, 159). Chi ricorda il lungo discorso di Beatrice intorno agli angeli, non può non convenire sato l'episodio dantesco di Ulisse: il Poeta stesso ce lo dice facendo due volte il nome dell'antico eroe; ma è tutto differente lo spirito che l'anima, sí che quasi lo direi figlio ribelle al padre. La ribellione è intenzionale? Non mi pare se ne possa dubitare, ché se il Pulci avesse voluto solamente inspirarsi alla scienza geografica del suo tempo, non avrebbe pena notare espressamente la sua fonte. Specialmente non se ne può dubitare, quando si pensa che a Dante apertamente egli si oppone a proposito della salvazione degli infedeli, che è questione direttamente dipendente dalla questione geografica degli antipodi, e a proposito degli angeli o, per parlar piú generalmente, della inconoscibilità, per le menti terrene, delle cose celesti. Dunque non si può affermare cosí risolutamente come afferma il Volpi che la Commedia è per l'autore del Morgante un autorevole testo di morale e di teologia,, né che Dante sia un nume ch'egli non comprende: nella familiare consuetudine del volume divino, egli ha imparato a comprenderlo cosí, che mentre è tratto spontaneamente a rivestire il suo pensiero delle forme dantesche, pur vede nella Commedia la testimonianza di una dottrina e di una morale, o meglio di una condizione del pensiero, che non può durare di fronte alle nuove scoperte della scienza. Rinaldo questo è il succo dell'episodio - lascia le spoglie oramai logore del cavaliere e assume quelle nuovissime del viaggiatore, cui animano curiosità scientifica e zelo religioso di portare il Van 66 con me che qui Dante è colpito in pieno pet-gelo tra i popoli che va rintracciando; lo sp: to, e perché il colpo riesca piú manifesto, ecco che il Pulci mette insieme con Gregorio, il quale come gli occhi aperse in questo ciel, di se medesmo rise, (Par., XXVIII, 134-5) quel Dionigi, che per Dante è testo infallibile di verità: non vorrei dir troppo, tuttavia non posso tacere ch'è mio forte sospetto non conoscesse il Pulci direttamente né Gregorio né Dionigi, ma la notizia dell'uno e dell'altro derivasse esclusivamente dalla Commedia. E ora, tornando a Rinaldo, è chiaro che l'episodio de' suoi viaggi ha le sue radici nel 1 Del resto, altrettanto si può dire del Furioso. 2 XXV, 256 e segg. Il Volpi non ricorda né Farfarello né Rubicante. rito di avventura, che il Pulci sente esaurito, diventa l'insaziabile curiosità scientifica dell'antico eroe, che Dante aveva inesorabilmente condannato cosí i due episodî, mentre derivano manifestamente l'uno dall'altro, sono tra loro in aperta contraddizione. Più largo di Dante vede il Pulci, e una nuova nobilissima mèta pone all'attività umana; le vittorie di questa nuova attività, che saranno le vittorie della verità sull'errore, egli, che finora ha cantato, sorridendo, delle strane e inverosimili avventure dei paladini, si augura di poter celebrare; e questo, o mi sbaglio, è singolarmente importante cosí per la conoscenza del pensiero del Pulci come per la storia della fortuna di Dante. Napoli, febbraio 1904. GIOACHINO BROGNOLIGO. DUE ACROSTICI NELLA « DIVINA COMMEDIA » Tutti i commentatori hanno notato come nel Canto XII del Purgatorio, nel descrivere i tredici intagli sul piano marmoreo della prima cornice, raffiguranti altrettanti episodi di superbia punita, il Poeta si sia imposto un freno singolare. Tanti gli episodî, quanto le terzine, delle quali le prime quattro cominciano con vedea, le quattro seguenti con o, le altre quattro con mostrava, e l'ultima ripete successivamente le tre parole a principio di ciascun verso: Vedea colui, che fu nobil creato piú d'altra creatura, giú dal cielo celestial, giacer dall'altra parte, vedeva io te, segnata in sulla strada già mezza aragna, trista in su gli stracci O Roboam, già non par che minacci come Almeone a sua madre fe' caro Mostrava come i figli si gittaro sopra Sennacherib dentro dal tempio, gli Assiri, poi che fu morto Oloferne, mostrava il segno che li si discerne!1 Al modo stesso, nel Canto XIX del Paradiso, là dove l'Aquila celeste enumera i dispregi, dei Principi cristiani, segnati nel libro della giustizia divina, troviamo tre gruppi, di tre terzine ciascuno, le cui parole iniziali sono, rispettivamente: lí, vedrassi, e: Li si vedrà tra le opere d'Alberto quella che tosto moverà la penna, quei che morrà di colpo di cotenna. sí che non può soffrir dentro a sua meta. di quel di Spagna e di quel di Buemme, di quel che guarda l'isola del fuoco, E quel di Portogallo e di Norvegia Ora, se ben si osservi, sotto questo artificio se ne asconde un altro; ché le lettere iniziali delle tre parole ripetute nel passo citato del Purgatorio - Vedeva, O, Mostracollocate di seguito, dan luogo tredici va 1 Purg., XII, 25-63. 2 Par., XIX, 115-141. volte alla parola VOM (è superfluo rammentare che, nella grafia medievale - e si può dire fino a non molti anni fa il segno V si adoperava promiscuamente per u e v'). Allo stesso modo, le iniziali delle tre parole, che ricorrono nelle riferite terzine del Paradiso; Lí, Vedrassi, E compongono nove volte la parola LUE. Non è certamente un puro caso. Qual significato può avere siffatta disposizione? gheria appaiono come desolate da un contagio pestilenziale (LUE); e questa parola par che sovrasti su gli altri caratteri come un marchio d'infamia e compendî le perversità dei re e il danno dei popoli. Non sono, dunque, i due acrostici una mera bizzarria, una virtuosità esteriore, ma hanno allusioni simboliche e attinenza al pensiero del Poeta. II. Non senza ragione ho accennato all'argomento dei due brani, ché con esso ha evidente relazione la voce derivante dall'acrostico. Le tredici figurazioni di superbia punita, scolpite in terra in antitesi dei tre esempî di umiltà glorificata, collocati in alto su le pareti della roccia, acquistano piú terribile rilievo, più profondo significato da quel monosillabo UOM, che non apparisce soltanto su la muta pagina nel congegno dei versi, ma par che campeggi al disopra delle immagini prostrate al suolo. Esso è là quasi una condanna dell'inane orgoglio umano, e sembra ammonire: Quid superbis, terra et cinis?, e ricordare il detto di Giobbe: Comparatus sum luto; quei medesimi concetti, espressi a tal proposito dal Poeta nostro: 1 2 III. Simili bizzarrie se bizzarrie si vogliono chiamare eran comuni nel medio evo. Teologi e mistici contrapponevano le proprie sottigliezze alle divinazioni della mantica,' e, per ricordarne qualcuna, nei segni delle piegature su la palma di ciascuna mano, vedevano due M, e le interpretavano Memento Mori, quasi Iddio avesse stampato di suo pugno in due parti cosí visibili della persona la condanna comune del peccato originale (stipendia enim peccati, mors); nel viso leggevano omo, come palese impronta dell'imagine divina (faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram).3 Dante stesso, per descrivere piú vivamente la magrezza dei golosi, accenna a questa credenza: 2 Parean le occhiaie anella senza gemme. Chi nel viso degli uomini legge omo ben avria quivi conosciuto l'emme; 4 il Da ed uno dei più antichi commentatori Buti la spiega cosí: "Dicesi che nella faccia umana si vedono formate lettere che significano omo: cioè le due ritondità dell'occhio per due O e la tratta del naso cogli archi delle ciglia uno M.5 E non mancano esempî anteriori di acrostici, messi in relazione col contenuto, palese o riposto, dei versi che li formavano. I Mirabilia Urbis Romac riferiscono che la Sibilla tiburtina, interrogata da Ottaviano se dovesse accettare gli onori divini propostigli dai Senatori, diede il suo responso con tren taquattro versi, nei quali annunziava Cristo venturo. Dalle iniziali di essi, riunite, scaturiva il motto greco: Ἰησοῦς Χρειστὸς Θεοῦ γιὸς Σωτὴρ σταυρός; il quale e conservato nella versione latina, dovuta a sant'Agostino, con le parole seguenti: Jesus Christus Dei filius servator crux. 1 IV. Di questa tendenza a ricercare e a mettere in rilievo un'occulta rispondenza tra il segno grafico e la cosa da esso rappresentata, troviamo nelle opere di Dante altre vestigia. Leggiamo infatti nel Convivio un cu. rioso ragionamento sul vocabolo autore: "Questo vocabolo, cioè auctore, sanza questa terza lettera c, può discendere da due principî: l'uno si è d'un verbo, molto lasciato dall'uso in grammatica, e che significa tanto quanto legare parole: cioè AVIEO: e chi ben guarda lui nella sua prima voce, apertamente vedrà che ello stesso il dimostra, che solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d'ogni parola, e composto d'esse per modo volubile, a figurare immagine di legame; ché cominciando dall'A nell' quindi si rivolve, e viene diritto per I nell'E, quindi si rivolve e torna nell'O, sicché veramente immagina questa figura A,E,I,O,V, la qual è figura di legame; ed in quanto autore viene e discende di questo verbo, s'imprende solo per li poeti, che coll'arte musaica le loro parole hanno legate; e di questa significazione al presente non si intende,.2 Nella Commedia poi, è degno di nota un altro artifizio, che potrebbe ricollegarsi con la credenza medioevale dell'occhio raffigu. rante la vocale O. Nel cielo di Giove, le anime dei Principi giusti sono disposte in modo da sembrare un'aquila guardata di fianco. Sei di esse formano l'occhio del simbolico uccello, e, propriamente, quella di Davide la pupilla, quelle di Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II di Sicilia e Rifeo troiano "le fan cerchio per ciglio,.3 Orbene, le sei terzine in cui è descritta la beatitudine, di cui godono quegli spiriti, consistente nel vedere l'effetto delle loro opere, cominciano tutte da 0: Ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio, per lo remunerar ch'è altrettanto (DAVID). Ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per l'esperienza di questa dolce vita e dell'opposta (TRAIANO). Ora conosce che il giudice eterno non si trasmuta, quando degno preco fa crastino laggiú dell'odierno (EZECHIA). Ora conosce come il mal, dedutto dal suo bene operar, non gli è nocivo avvegna che sia il mondo indi distrutto (COSTANTINO). Ora conosce come s'innamora lo ciel del giusto rege, ed al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancóra (GUGLIELMO). Ora conosce assai di quel che il mondo veder non può della divina grazia, benché sua vista non discerna il fondo (RIFEO). 1 1 Io vidi in quella giovial facella lo sfavillar dell'amor che li era, fur verbo e nome di tutto il dipinto: Non tralasceremo finalmente di ricordare con questi, altri due luoghi del Poema, dove la lettera è simbolo di un concetto, o come iniziale di parola, o come figura di numero. L'uno è la notissima profezia di Beatrice: ... Un Cinquecento e dieci e cinque messo di Dio anciderà la fuia.... 1 racconto dell'Ugolino dantesco, riguardo le manifestazioni di dolore del padre, si può, a mio avviso, dividere in due parti: è descritto nella prima quanto avvenne fino alla morte dei figli; nella seconda quanto avvenne dopo la loro morte. Certo il silenzio, il dolore fortemente re. presso, per non far piú tristi i figliuoli, segnano lo sfondo straziante della prima parte della narrazione. Non cosí nella seconda. Si è spento finalmente l'ultimo figlio, “ond' io, ecc., per la qual cosa, cessata la ragione del reprimere ogni moto dell'animo, erompe un grido disperato dal petto di quel padre; questi si getta brancolando sui corpi diletti; e li chiama i cari figliuoli, li chiama due dí poi che fur morti. Dolorosissima scena! Tremendo contrasto con l'immobilità ed il silenzio di prima! L'immenso dolore, cosi a lungo represso, esige questo sfogo, che continua incessante; né mai ne sarebbe sazio il padre sventurato. Ma | poscia, poco a poco, s'affievolisce ogni voce, ogni atto; il digiuno compie la sua opera; il Conte, estenuato, muore, e l'ultimo respiro è anch'esso il bisbiglio di un nome, l'ultimo moto uno sguardo alle care salme. Cosi il digiuno poté più che il dolore, poiché il digiuno impedi il continuarsi di quelle manifestazioni, che il dolore necessariamente reclamava imperioso, dopo la repressione dei giorni precedenti. Quel verso, con tale senso, mette nel quadro (ove ha tanta parte la rappresentazione del dolore paterno), mette l'ultima pennellata, che lo completa e finisce, mostrandoci il padre brancolare sui cari figliuoli e chiamarli disperato, proprio fino a quando il digiuno gli spense ogni lena a dar sfogo al suo dolore, cioè fino a quando il digiuno la vinse, poté piú del dolore. Padova, gennaio 1904. ALVISE DAL VESCO. |