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drebbe come Guiniforte, abbandonata la Sicilia, tornasse a Milano; riconciliatosi poscia il Duca Filippo Maria riavesse la cattedra d'eloquenza, tenuta fino allora dal padre Gasparino, e come in Milano nel 1435 tenesse pubblico discorso per la inaugurazione degli studi. Probabilmente in questo torno di tempo si diede a dichiarare Dante, dedicando le sue chiose a Filippo Maria che servi anche in diverse ambasciate. È certo che nel 1447 lasciò Milano per recarsi presso il Marchese di Monferrato, d'onde fu richiamato da Francesco Sforza, dopo che questi si rese definitivamente padrone di Milano; è certo che fu precettore di Galeazzo Sforza, di ciò avendo una prova irrefragabile nelle lettere sue dirette a Bianca Maria, ma non è sicuro il tempo della sua morte, la quale dovette accadere prima del 1460.

La maggior opera volgare di Guiniforte Bargizi, (l'Argelati veramente ricorda anche di lui una esposizione ad alcuni sonetti del Petrarca, dedicata al duca di Milano, che noi non conosciamo); l'opera di maggior lena dell'umanista bergamasco è senza dubbio il laborioso commento all' Inferno dantesco. Il quale abbiamo ragione di creder composto negli ultimi anni della vita di Guiniforte, se il commento si chiude colla promessa di seguitare ne la canticha secunda, mentre sappiamo non rimanere alcuna memoria che egli seguisse l'opera sua più oltre l'Inferno. Di quest'opera, non molto nota agli studiosi, e certo assai meno nota di quello che meriterebbe, verremo via via notando i principali pregi, mettendone in evidenza altresì i principali caratteri.

Crediamo di non cadere in errore dicendo che questo del Bargigi è forse tra i più sottili commenti danteschi. Infatti Guiniforte, che scriveva il suo dopo quello di Benvenuto, di Iacopo della Lana, di Francesco da Busi, cioè dopo i principali e piú insigni commenti alla Commedia, doveva ben essere piú sottile degli altri, e certamente, dotato di un senso squisito, poteva anche dare un commento piú compiuto e piú esatto degli altri. Ed infatti vede quasi sempre giusto, e sebbene piú curi il senso letterale, pure è commendevole anche dal lato allegorico e storico.

Il Bargigi divide l'Inferno in due parti principali; considera cioè i due primi canti come contenenti la cagione per la quale fu indotto Dante a fare il cammino da lui descritto in questa commedia; nell'altra le cose ch'ei vi ha vedute. Tutta l'allegoria della selva selvaggia ed aspra e forte spiega come i moderni chiosatori; il sole che il poeta vede guardando in alto è il sole delle grazie e fruizione di Dio; le belve che v'incontra sono concupiscenza di carne, concupiscenza di occhi e superbia di vita, non accennando, neppure lontanamente, all'allegoria politica che i moderni commentatori vi riconoscono. Virgilio è il giudicio buono della potenza ragionevole dell'anima, e Dante ruinando in basso loco ruina alle tenebre del peccare.

Curiosa è la spiegazione allegorica che egli dà al veltro dantesco, che fu per tanto tempo palestra della sottigliezza dei commentatori, ma pur sempre gravissimo scoglio. Il Bargigi crede che questo veltro "sarà un principe di somma virtú, sotto il quale saranno esterminati e scacciati li vizii, e specialmente l'avarizia dal mondo Ma crede altresí poiché nei versi I, 91 e se

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guente è Virgilio che parla, crede parli qui non come oblivioso, ma come quello che ben si ricorda di ciò che scrisse nella quarta Egloga della Bucolica sua. Ultima Cumaei venit jam carminis aetas. Ove disse, che già veniva quella età della quale aveva parlato la profezia della Sibilla Cumea; già veniva quella ragione, e quel figliuolo sotto il quale cesserebbe la età ferrea piena di vizii e ritornerebbe quella prima età aurea „. L'osservazione del Bargigi è molto sottile, e tale da non esser rigettata senza l'onore della discussione. È certo però che anche essa è sostenibile, forse più sostenibile di altre molte ricordate fino a qui; ma mi preme rammentare che nessun commentatore ha avvertito, oltre il Bargigi, che quei versi posti in bocca a Virgilio possono avere una affinità di senso e di concetto con gli altri, cosí poco spiegati finora, della IV ecloga virgiliana nei quali si canta della nova progenies che caelo demittitur alto. Peccato che il commento di Guiniforte si arresti coll'ultimo canto dell' Inferno, perché, a proposito del veltro, non sappiamo come avrebbe spiegato il cinquecento e dieci e cinque del XXXIII-43 del Purgatorio.

Ma come non si preoccupa il dirci se col veltro si alluda a Cangrande o ad Uguccione della Faggiuola o a chiunque altro si voglia, cosí il Bargigi vede che Beatrice rappresenta la teologia, non curandosi affatto di dirci che cosa fosse Beatrice, fuori del suo involucro teologico, fermandosi al simbolismo allegorico, senza entrare nell'illustrazione storica. E questo è un bene, giacché se il Bargigi avesse detto che Beatrice era una Portinari, il Bartoli ed il Renier direbbero subito che ha copiato dal Boccaccio. La donna gentil che si compiace dell'impedimento del poeta, è pel Bargigi la prima grazia preveniente, che non è nominata qui per nome proprio, perocché suol venire nella mente umana sprovvedutamente, non aspettata, e quasi non conosciuta da noi. Lucia è la grazia di Dio illuminante per la quale secondo teologi, abbandonando l'uomo il male ei vede in che consiste il bene e cominciagli dirizzare le operazioni sue. Qui, come si vede, il Bargigi non è sostanzialmente diverso dagli altri commentatori, nell'interpretazione generale della fondamentale allegoria dantesca.

La insegna Che girando correva tanto ratta Che d'ogni posa mi pareva indegna, nella quale un moderno chiosatore vede una allusione alle banderuole, politiche non è spiegata dal Bargigi, che se la cava dicendo: "E' pare che moralmente qui denoti il nostro autore, che al mondo è grande moltitudine di questi poltroni „. Ma questa, come ognun vede, non è spiegazione dalla quale l'allegoria dantesca ritragga qualche lume.

Piú a lungo si intrattiene il Bargigi intorno alla allegoria del nobile castello Sette volte cerchiato d'alte mura, sul quale il commentatore ragiona cosí: " Or considerando che questo castello non è altro che un prato verde, circondato da sette mura e da un fiumicello, dico, che questo verde prato significa la viridità e durazione della buona fama per qualsivoglia merito causata; il fiumicello dal quale è difeso il castello significa la eloquenza: i sette muri, compresi entro questo fiumicello significano le sette scienze chiamate liberali...

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delle quali convien che abbia alcuna notizia chi vuole perfettamente essere eloquente, Interpreta, a un dipresso, come gli altri espositori danteschi. pur il verso: Questo passammo come cosa dura, non è interpretato in modo diverso dagli altri espositori: "viene a denotare che per via di poesia chi vuol acquistare la viridità di fama convien che esercitato nelle opere dei gran poeti, quali furono questi qui nominati, venga per quella esercitazione in tal perfezione, ch'ei non senta piú difficoltà in dir eloquentemente ciò ch'ei vuole, come non saria difficile ad altri il parlar grossa mente e volgarmente „. Ma qui, come in altri punti non pochi, il Bargigi certamente avanza ogni uom di sottigliezza.

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Non sarà inutile vedere come il Bargigi spieghi il significato morale delle pene dantesche, ciò che fa pur parte dell'allegoria onde è pieno il sacro poema, e dimostra quanta e quale fosse la severa giustizia del poeta. Naturalmente ci fermeremo su le pene principali, giacché non è nostro intendimento studiare particolarmente il commento guinifortiano che dovrebbe, a nostro debole avviso, essere studiato in relazione degli altri commenti quattrocentisti, per compiere in tal guisa lo studio sui chiosatori del trecento, cosí ben condotto dal Rocca. I lussuriosi sono, dice Guiniforte, voltati qua e là dalla bufera infernal che mai non resta, perché l'animo dell' uomo lussurioso nella presente vita sempre è agitato e combattuto da diversi affetti li quali non lo lascian mai riposare. E a questo punto trova mezzo di prendersela co' tempi suoi, soverchiamente corrotti, nei quali: "Trovansi fratelli, quantunque siano di alto grado e dignità, che non si reputano a confusione, se la sorella loro pubblicamente infame sia: della figlia meno si cura il padre: la madre le fa la scorta, ed il marito alla moglier consente, Ma sorvola quasi affatto sul significato morale della pena data ai golosi, mentre è forse troppo sottile e troppo si diffonde sul vizio di avarizia e di prodigalità, specialmente dove dimostra la ragione per cui Dante immagina che i prodighi e gli avari si cozzano, si offendono, si bisticciano aggirandosi per lo cerchio tetro. Riferiamo le principali opinioni del Bargigi. A questa virtú (la liberalità) non si accostano i due sopradetti vizi, quantunque paiono biasimarsi l'un l'altro ed esser di natura intra sé molto contraria, e la cagione perché non si accostano al mezzo di questa virtú possiam dire, che sia, perocché ancora ciascun di loro biasima la virtú della liberalità, dicendo l'avaro, che il liberale sia prodigo quando ei dà, ovvero non vuol ricevere: e per lo contrario: dicendo il prodigo, che il liberale è avaro, perché non vuol dare a ciascuno, ed alcuna fiata riceve da altri. Indi è che non mostrandosi alcun di questi vizi al mezzo della virtú ed essendo collocati nelle estremità opposite l'una all'altra, s'essi scontrar si vogliono ed insieme combattere, necessario è che per non approssimare al mezzo facciano il lor cammino intorno al circuito,.

Perché gli iracondi siano immersi nella palude dello Stige e gli accidiosi piantati nel fango della stessa palude, il Bargigi spiega cosí: il poeta finge quell'acqua esser fosca a denotare che l'ira ancora nel primo movimento of

fusca la mente, sicché non può conoscere il vero: gl'iracondi percuotonsi e troncansi orribilmente l'un l'altro, secondo che per esperienza si vede nel viver del mondo, giacché danneggiano sempre se medesimi per gran dispetto e studio di invocare altrui. Degli accidiosi poi, che sott'acqua siano e gorgogliare la facciano fingesi, perocché questo vizio è occulto nel cuore: sicché di fuori non si manifesta se non per alcuni segnali: che dir non possono parola integra, questo comunemente occorre in essi, perocché nel loro lamentarsi e compianger non mai o rare volte dicono le parole intere

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Il messo del cielo che Talice da Riccaldone credeva fosse Mercurio, quia antiquitus pro deo habebatur e perché, come dice Benvenuto, poetice loquendo est nuncis et interpres Deorum, è pel Bargigi un Messo dal ciel mandato semplicemente. Ma la stupenda miniatura che illustra a questo luogo il frammento imolese, lo presenta sotto le forme d'un angelo, cosí che si può ragionevolmente supporre che il Bargigi credesse avesse Dante a questo luogo voluto rappresentare una divinità del cristianesimo, non del paganesimo. La qual esposizione, egli dice, pare esser più conforme a molte moralità di questa cantica. E pur colla sua opinione giustifica il fracasso d'un tuon pien di spavento, ricordando il detto della scrittura: Factus est repente de coelo sonitus tamquam advenientis spiritus vehementis.

Delle due ragioni, secondo il Bargigi; per cui i violenti siano stati posti da Dante in una pozza di sangue, ci piace riportare la seconda: "L'altra cagione si è per dare ai violenti pena conveniente a loro; poiché volendo rappresentare la mente umana, quanto orribile, e misera, ed a quanta servitú sottoposta sia la vita dei violenti, e massimamente di quelli che fecero le grandi violenze, finge, che tali siano puniti in una fossa di sangue bollente, secondo che in vita sempre bollono in ira e desiderio di offesa. Costoro stanno sommersi ed appozzati nel sangue umano di quelli che son morti per cagion loro e di quelli che stentando miseramente di sangue di freddo e di altre necessità, consumano il sangue e spessa fiata lasciano la vita, divorati da malattie alle quali non possono rimediare E degna di osservazione è la lunga e minuziosa nota che il Bargigi pone ai versi XIV,93 e seguenti, importante per l'allegoria delle materie onde è formata la statua di un gran veglio Che tien le spalle volte inver Damiata; che non trascrivo per la soverchia lunghezza.

Che cosa rappresenti allegoricamente Gerione dice e non brevemente il Bargigi, il quale nella mostruosa figura della fiera aguzza Che passa i monti e rompe muri ed armi, vede l'immagine della frode, e ricorda Gerione ricordato da Giustino, maggiore dei tre fratelli che regnarono in una parte della Spagna e fu vinto da Ercole. Scrive il Bargigi: "Considerando adunque l'autor nostro che la frode si può dire avere tre corpi, uno della frode che si commette in parole, qual è di mali consiglieri, di adulatori, di seminatori di discordie di ruffiani e simili; l'altra è di quella che si commette in operazioni, qual è d'ipocriti di barattieri, simoniaci e simili: la terza nelle cose operate, qual è de' falsari. Finge l'immagine della frode esser Gerio

ne e gli attribuisce la faccia d'uomo giusto, e benigno a denotare il principio d'ogni frode perocchè chi altri vuole ingannare prima studia di acquistar buon credito d'uomo giusto, verace, puro ed amico di colui a cui vuol far inganno: il busto è di serpente di vari color, dipinto a nodi e rotelle ed ha le branche forte e coperte di peli fino alle ascelle; perocché il processo della conversazione sua, della pratica ed operazione tutto è coperto di molte e molte diverse astuzie e simulazioni di diversi colori e varie figure onde si cuopre il cuor serpentino, sicché l'amico non si avveda dell'inganno. La coda è a guisa di scorpione, perocché alla fine, incorrendo l'ingannato in danno, sente poi la frode o l'inganno. Ed è biforcuta quella coda, secondo che a due pers: ne si può far frode, cioè a chi fidanza in noi ha, ed a chi si fida di noi,. Ma l'interpretazione allegorica che il Bargigi dà di Gerione pare un fedele ricalco di quanto sul medesimo proposito scrisse l'Anonimo Fiorentino.

Procedendo nel notare le principali allegorie dantesche, quali le comprendeva il Bargigi, dirò che i ruffiani sono condannati a correre continuamente secondo che in vita continuamente hanno corseggiato qua e là per più femmine ingunnare e posto hanno altri in continuo movimento, conciossiaché mai queta sta la mente di quelli che per opera di costoro sono sottoposti al vento dell'amor carnale; gli indovini hanno travolta la faccia a dietro, a denotare che essi hanno in vita riversato il loro intelletto, lasciando la considerazione dalle cose passate e presenti e tutta la loro speculazione mettendo in vedere le cose da rietro, le cose future che siano per avvenire; ma spesse volte, pei dannati dell'ottavo cerchio poco sa dirci, e il commento è piuttosto una esposizione letterale, un trasunto della Commedia e nient'altro.

L'argine derupato che Malacoda dice essere stato rotto Mille dugento con sessantasei anni prima, è spiegato dal Bargigi, come tutti gli altri commentatori, ma, egli annota, Malacoda "menti in alcune altre cose, conciossiaché noi troveremo esser falso, che altro scoglio fosse sopra quella bolgia, per lo quale si potesse passare. E questa falsità, acciocché piú stesse coperta, quel demonio lo disse tramezzo a due verità. Quando disse che giace tutto spezzato, disse vero; ma menti aggiungendo: presso è un'altro scoglio che via face. E perché la menzogna non fosse notata, soggiunge tosto anche un'altra verità, dicendo: Ier più oltre, ecc., Questa del Bargigi è una osservazione forse troppo sottile, ma mi pare che sia proprio sua, e quindi nuova, e giusta se consideriamo che essa ha la sua riconferma nei versi 140-141 del c. XXIII.

Insomma, e per concludere, si può dire che, studiato sotto il punto di vista allegorico, il commento di Guiniforte Barzizza è pregevole, per quanto non contenga assolutamente nulla di nuovo. Le fonti principali onde mi pare esso attinga, sono Benvenuto e l' Anonimo Fiorentino. Ma il commento guinifortiano non ha assolutamente un carattere, una impronta sua propria di originalità; anzi, come il senso letterale, anzi il trasunto letterale vi tiene principalmente il campo, cosí il commento allegorico vi è trattato brevemente,

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