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esatte fossero le edizioni del De Romanis e del Maiocchi da quello derivate. A me fu data occasione di chiarir questo punto, poiché avendo nello scorso inverno richiesta nella regia Biblioteca Angelica la edizione giolitina della Commedia dei 1555, per chiarirmi se fosse esatta la descrizione data dal Bongi nei suoi Annali, fermarono subito la mia attenzione, appena ebbi sott'occhio l'esemplare che dapprima non si trovava per uno sbaglio di segnatura nel catalogo, fermarono, dico, la mia attenzione alcune postille, che mi parvero di mano letterata e non ignota del cinquecento. Mostrai il libro a Mario Menghini, il quale da più mesi aveva avuto occasione, in servizio del comune amico Angelo Solerti, di svolgere autografi del Tasso; ed egli, al primo vedere quelle postille (è bene dar il merito a chi l'ha di una scoperta, che poi più d'uno avrebbe voluto usurpare), le dichiarò scritte di mano del gran Torquato come poi ci fu agevole confermare raffrontandole alle correzioni autografe che l'Angelica possiede alle rime del Tasso, e come poi restò dimostrato, anche ai ciechi, riscontrando il testo di esse postille manoscritte con le stampe fattene sull' apografo chigiano dal De Romanis e dal Maiocchi.

Questo esemplare dell'Angelica, che il signor Bibliotecario a mia richiesta, ha collocato fra i manoscritti (e certo è uno dei più preziosi cimelî di quella libreria nobilissima), non mi par dubbio che sia proprio quello che il Tasso lasciò in Pesaro in casa Giordani nel 1578: né a ciò contradice l'esistenza di una diversa copia del Dante giolitino del 1555 postillata da parecchie mani, tra le quali si è creduto riconoscere anche quella del Tasso; copia che fu già di Giuliano Vanzolini, erudito pesarese, e ora è posseduta dal prof. Oreste Antognoni, come si ha da un cenno ch'ei ne fa nel suo bel Saggio di studi sopra la Commedia di Dante. 1 Non contradice, perché da Pesaro viene sicuramente l'esemplare dell'Angelica; tra il quale a guisa di segno trovasi ancora una striscietta di carta, or fissata in principio, che è manifestamente ritagliata dal titolo d' un'opera drammatica rappresentata in Pesaro nel 1726. Pare che anche dopo quel tempo il libro restasse dove l'aveva lasciato il suo antico possessore; ma quando e come emigrasse a Roma, entrando nell' Angelica, non si è potuto trovare, sebbene sia certo, per le segnature di vecchia mano, che v'è da almeno un secolo.

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L'anno adunque che Roma celebra feste centenarie al cantore di Goffredo ritorna alla luce da lungo obblío il volume di Dante sul quale il Tasso studiò, e cosí riappariscono stretti in un vincolo intellettuale i nomi dei due grandi poeti, che più di tutti gli altri sentirono e resero in versi immortali l'anima del popolo italiano.

Roma, 25 aprile 1895.

T. CASINI.

Livorno, Giusti, 1893, pag. 3, nota 1; cfr. A. SOLERTI, Vita di T. Tasso, Torino, 1895, vol. II, pag. 114.

DANTE E LA MUSICA

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Che il sommo poeta abbia avuto conoscenza della musica molti l'hanno affermato, ed alcuni negato. Tutti però si sono fondati sulla notizia data dal Boccaccio, e confermata dal Bruni; il quale ultimo, sebbene in principio della sua Vita di Dante dichiari il contrario, pure si atteggia a correttore del novelliere, specialmente nella parte fantastica, che questi avrebbe introdotta nella vita del poeta. Dice adunque il Boccaccio: "Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza: e a ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore fu amico, ed ebbe sua usanza: ed assai cose, da questo diletto tirato, compose; le quali di piacevole e maestrevol nota a questi cotali faceva rivestire., Ed il Bruni conferma: "Dilettossi di musica e di suoni. In questa notizia alcuni vollero veder troppo, altri nulla, e perciò si venne alle piú contrarie conclusioni. Molti dei commentatori e biografi di Dante si accontentarono di dirlo studioso in generale della filosofia, delle lettere e delle arti liberali: il Ginguené, seguito poi dall' Ambrosoli, dice che coltivò le belle arti e particolarmente la musica ed il disegno; il Pelli, con altri molti, volle supporre Dante allievo di Casella nella musica, come altri vollero supporlo discepolo del Latini nella grammatica, retorica, filosofia, ecc.; ed alcuni vollero riferire ad una relazione, per così dire, musicale persino l'incontro di Belacqua nel c. IV del Purgatorio. Chi, al solito, mostrò di saperne piú di tutti, fu il Filelfo, affermando che Dante " nebat suavissime, vocem habebat apertissimam, organa, citharaque callebat pulcherrime ac personabat, quibus solebat suam senectutem in solitudine delectare. Il Bartoli, al contrario, fedele al suo sistema di non ammetter nulla che non sia provato da documenti, nega tutto, ed anzi dalle parole del Boccaccio gli pare di dover capire che a Dante piacque bensí la musica, che fu amico di chi coltivava quest'arte, ma che non sapeva scrivere una nota. Insomma il Bartoli non vuole che Dante sia stato, a dir la voce che egli usa, musicista.

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Qui mi pare che si confondano un po' le cose, e che il Bartoli pretenda di confutare un' opinione, che forse non passò mai per la mente d'alcuno:

A. BARTOLI, Storia della letteratura italiana, vol. 5, p. 43.

cioè che Dante fosse compositore di musica. Che io sappia, nessun commentatore o biografo ha mai detto ciò, ed a questo punto non giungono nemmeno le frottole del Filelfo. Si ammette in genere che Dante conobbe la musica tanto da saperla gustare e molto squisitamente, a quel modo che tanti oggigiorno pure la conoscono benissimo, senza però pretenderla a compositori.

Dell'amore di Dante per la musica, e del suo finissimo gusto, ci è prova la parte importantissima che le diede nel suo poema: il che vedremo meglio piú avanti. Prima mi par bene di mostrare quanto era naturale che Dante conoscesse la musica, come s'intendeva allora, e quanto sarebbe contro l'indole di quei tempi il suppornelo ignorante.

Anzitutto bisogna per quei tempi fare una chiara distinzione fra la musica teorica, e la musica pratica. Questa comprendeva l'esercizio del canto, del suono che lo accompagnava, e la composizione della cantilena o tono, come si diceva allora, che si applicava alla poesia, composto per lo piú dallo stesso autore; essa era propria particolarmente dei trovatori, i quali quasi sempre facevano i versi ed insieme li intonavano. L'altra, detta propriamente musica, quasi per eccellenza, era speculazione filosofica, era la scienza che studiava i suoni nelle loro relazioni e varietà, cercandone le leggi con criterii razionali; chi possedeva questa scienza dicevasi musico, a differenza del cantore e del sonatore, dei quali era assai piú stimato, come colui che attendeva a piú nobile scopo. Cosí ci dice Boezio dando la definizione del musico.

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Chi pose le basi della scienza musicale fu Pitagora; egli stimò che l'orecchio non doveva essere l'unico criterio della musica, essendo esso soggetto a mutazione, ma cercò coll'aiuto della ragione le leggi naturali ed immutabili dell'armonia. Le trovò infatti osservando in un'officina i rapporti di peso che passavano fra cinque magli, i quali, percossi dai fabbri, rendevano cinque suoni fra loro proporzionali. Egli osservò anche gli effetti della musica sull'animo umano, talché lo studio di essa, oltreché speculativo, divenne anche morale. Cosí la musica entrò a far parte delle quattro scienze del quadrivio poiché come alla geometria, secondo il diverso oggetto, faceva riscontro l'astronomia, cosí all' aritmetica si contrapponeva la musica. Allo studio

1 A. M. S. BOETII, De institutione musica, I, 34: "Isque musicus est cui adest facultas secundum speculationem rationemve propositam ac musicae convenientem de modis ac rithmis, deque gener bus cantilenarum ac de permixtionibus ac de omnibus, de quibus posterius explicandum est, ac de poetarum carminibus iudicandi... Multo enim est maius atque altius scire quod quisque faciat, quam ipsum illud efficere quod sciat: est enim artificium corporale quasi serviens famulatu..... Tria igitur sunt genera, quae circa artem musicam versantur: unum genus est quod instrumentis agitur; aliud fingit carmina; tertium quod instrumentorum opus carmenque diiudicat.

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? Vedi a questo proposito il già citato libro di Boɛzio, lib. II, 3. II, 14.

Vedi pure DANTE, Conv.

della filosofia andò quindi congiunto lo studio della musica: ond'è che tutti i dotti dovettero conoscere questa scienza. Infatti ne tratta Platone, ne tratta Aristotele, ed ancora nel medio evo Severino Boezio compose intorno ad essa un libro, insieme con due altri sull' aritmetica e sulla geometria, nel quale, secondo le opinioni di Pitagora e di altri filosofi, sono raccolte tutte quelle leggi musicali, che oggi sono comprese nell' acustica. Più tardi ancora, s. Tommaso compose egli pure un libro De arte musica, scoperto da pochi anni a Pavia'.

Dante pertanto, che ben conosceva le dottrine filosofiche di Aristotele, e quantunque di seconda mano, anche quelle di Platone, non doveva conoscerne anche la dottrina musicale? Egli si mostra versatissimo nelle opere di s. Tommaso, e ci dice egli stesso nel Convito (II, 13) di avere studiato il libro De consolatione di Boezio; onde a me non pare improbabile che conoscesse anche gli scritti musicali di ambedue, e da quello di Boezio particolarmente cavasse tutta la dottrina pitagorica intorno ai suoni.

Non mi pare poi circostanza da trascurare questa, che verso la metà del secolo XI frate Guido d' Arezzo aveva trovato la gamma o scala musicale, la quale, sostituita agli antichi tetracordi ed unita ad un nuovo e semplice sistema di scrittura, aveva immensamente facilitato l'apprendere la musica: cosa che per l'addietro era ardua e difficile, tanto che il valente innovatore poteva dire con verità, che col suo nuovo metodo si poteva benissimo apprendere in men d'un anno quello che prima non si sarebbe imparato in dieci anni di faticoso studio. Ed invero anche oggi non è cosa troppo facile l'addentrarsi fra i tetracordi, i diapason, i diapente, i diatessaron ed i molti altri nomacci della tecnica musicale d'allora. Il sistema di Guido rese popolare quella teoria, ed appunto da quel tempo in avanti noi abbiamo una rigogliosa produzione di scritti musicali. Anche questa nuova popolarità e facilità della musica rende più probabile il fatto che Dante la conoscesse. Per di più la musica in quel tempo non s'usava solo nelle chiese, ma anche fuori, come ci è testimonio Dante stesso a proposito di Casella; non era ancor ben passato il tempo dei trovatori, e dalle parole stesse del Boccaccio riferite in principio, si può argomentare che anche a Firenze in quel torno non vi fosse difetto di musicanti. Cosí Dante era conoscitore teorico della musica in mezzo a codesti conoscitori pratici, e noi possiamo benissimo chiamarlo musicista, nel senso in cui Boezio definisce il musico.

1 Intorno all'autenticità non ancora ben accertata di questo libro cfr. lo studio dell' Ab. GUERINO AMELLI, premesso da lui all' opuscolo (Milano, 1882).

2 Piú probabile ciò diventa se si osservi, che l'opera musicale di Boezio era nota anche ad altri non troppo lontani dal tempo di Dante e certo non piú dotti di lui: p. e. Antonio Pucci ad essa allude appunto a proposito di Dante nel cap. 55 del suo Centiloquio, e Benvenuto da Imola la cita espressamente nel suo commento al II canto del Purgatorio (V. BENV., Commento latino edito dal Lacaita, vol. III, p. 74 segg.).

3 V. Epistola di frate Guido di Arezzo a Michele eremita pomposiano.

4 V. le raccolte del GERBERT e del COUSSEMAKER.

5 Sente molto del linguaggio tecnico quel passo del Convito (II,14), dove, parlando della musica, Dante dice: « E queste due propietadi sono nella musica, la quale è tutta relativa, siccome si

Tutte queste però sono ragioni di probabilità e di convenienza. La prova che a me pare sicura, è la conoscenza che Dante mostra di avere della credenza degli antichi intorno all'armonia delle sfere celesti, la quale va sempre unita alla teoria musicale, anzi ne è una parte. Pitagora, avendo trovato l'origine del suono nel movimento, pensò essere impossibile che nelle sfere celesti corpi cotanto grandi e moventisi con tanta velocità non producessero alcun suono; ed immaginò che dalle sfere uscissero varii suoni differenti e consonanti, i quali producessero un dolce concento destinato a rallegrare la divinità. Questa teoria fu accettata e svolta da Platone, ma ad Aristotele non parve ammissibile, tanto che la confutò nell' opuscolo De coelo et mundo; tuttavia Cicerone, quantunque l'avesse derisa nel lib. III De natura deorum, la introduce nel Sogno di Scipione.' E Dante, che deve averla appresa, se non da altri, dal libro di Boezio, la ripete, ammettendola, nel Paradiso, c. I, v. 76:

Quando la ruota, che tu sempiterni
desiderato, a se mi fece atteso,

con l'armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso

dalla fiamma del sol, che pioggia o fiume

lago non fece mai tanto disteso.

La novità del suono e il grande lume
di lor cagion m' accesero un disio

non mai sentito di cotanto acume.

E forse volle alludervi anche nel Purg. c. XXX, v. 91:

Cosí fui senza lagrime e sospiri

anzi il cantar di quei, che notan sempre

dietro alle note degli eterni giri.

Se Dante adunque aveva questa credenza, doveva conoscere certamente anche il resto della teoria musicale.

Di questa però non mancano traccie anche in altri luoghi del poema. Tralasciando infatti le semplici menzioni di strumenti musicali, che chiunque anche affatto ignaro di musica può fare, sebbene non ci tornino inutili per la storia dell'arte, noi troviamo ricordato il canto unisono nel Purg., c. XVI, v. 20:

Pure Agnus Dei eran le loro esordia:
una parola in tutti era ed un modo,
sì che parea tra esse ogni concordia,

vede nelle parole armonizzate, e nelli canti, de' quali tanto più dolce armonia resulta, quanto piú la relazione è bella, la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s'intende. »

1 Ammisero ancora tale teoria Calcidio commentatore di Platone, Macrobio commentatore di Cicerone, e Boezio; la combatté il Dottore universale, Alberto Magno.

? Dante ci ricorda i tre diversi modi del cantare ecclesiastico: 1° l'unisono in questi versi; 2° i cori alternativi nel Purg., c. XXXIII v. 1; 3° l'intonazione di un cantore seguito poi da tutto il coronel Purg., c. VIII v. 13, e Par., c. XXV v. 97.

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